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                                                                 #3 DENNIS JOHNSON (1954-2007)
                    2 CHAMPIONSHIPS WITH THE BOSTON CELTICS

THE STORY
Dennis Johnson, un autentico mix di razze
Di lui Larry Bird ha detto che è stato il miglior cestista col quale abbia mai giocato, e Larry ha giocato assieme a grandi campioni…. Una cosa ha colpito però l’immaginario dei tifosi, soprattutto quelli dei Celtics: nonostante le sue percentuali di realizzazione fossero sempre pericolosamente vicine al 40%, riusciva sempre a segnare il tiro importante, a centrare la conclusione decisiva. E la sua difesa? Braccia lunghe e gambe velocissime lo hanno aiutato a mettere il bavaglio ai giocatori più forti del periodo, compreso Magic Johnson. Dei cestisti di colore che hanno militato nei Celtics, Dennis "Dee Jay" Johnson è sicuramente stato il più "bostoniano". Non è facile trovare un "brother", un fratello nero con capelli rossi e lentiggini; ma si è fatto ricordare anche e soprattutto per le sue gesta in campo. Due esempi? Il canestro vincente di Gara 4 al Forum nelle Finali del 1985, o l’entrata della vittoria contro Detroit sull’incredibile palla recuperata da Bird nella quinta partita (playoffs del 1987).

I primi anni
Dennis nacque a Compton, un sobborgo di Los Angeles, il 18 settembre del 1954 da una numerosa (è l’ottavo di ben 16 figli) famiglia della "middle-class". Il padre faceva il muratore, mentre la madre era assistente sociale. "Non eravamo ricchi – racconta ma non si può dire fossimo poveri. Se chiedevo un quarto di dollaro a mia madre, lei me lo dava sempre. A Natale, poi, mio padre lavorava un po’ più duro ed un po’ più a lungo e così potevamo permetterci i doni sotto l’albero". Da bambino era il baseball ad attrarre il piccolo Dennis, e solo qualche anno dopo cominciò a provare interesse per i canestri. Ma al liceo era ancora uno scaldapanchina ("benchwarmer" n.d.t.), e metteva piede in campo solo per due o tre minuti". Ragion per cui, nel 1972, quando terminò gli studi alla Dominguez High School, il giovane californiano pensava all’eventualità di giocare a basket da professionista nello stesso modo in cui prendeva in esame una carriera da astronauta. Soldi per pagarsi l’università non ce n’erano, e cominciò così a lavorare prima come cassiere in un negozio di liquori, e poi come addetto al sollevatore. Ma fu qui che il brutto anatroccolo si trasformò in cigno: Dennis crebbe di una dozzina di centimetri in pochi mesi, fino ad arrivare al metro e 92, e cominciò a riappassionarsi al gioco tra i canestri. Disputando una partita di summer league a San Pedro con la squadra allenata da uno dei suoi fratelli contro l’Harbor Junior College, impressionò l’allenatore avversario Jim White, che in seguito raccontò: "All’inizio, non è che fosse un fenomeno. Saltava, prendeva rimbalzi e giocava con intelligenza. Ma già allora qualche suo movimento era immarcabile".

La prima borsa di studio
Coach White lo volle al suo college, dove in due anni risultò determinante nella formazione tecnica del giocatore. "Con lui ebbi un bel po’ di scontri – ricorda ancora White – perché era poco disciplinato dentro e fuori dal campo. Quando le cose non andavano come voleva a volte esplodeva. E considerando che anch’io sono un "sanguigno", le esplosioni furono decisamente tante". Nonostante le controversie, però, Johnson ammirava White, e la squadra cominciò a vincere. Nella seconda ed ultima stagione con Harbor JuCo, infatti, DJ guidò i suoi al titolo di stato con un record di 29 vinte e 4 perse, e con una media di 20.2 punti a gara e 13 rimbalzi fu eletto MVP alle finali di Fresno. Anche a quel punto White ebbe però difficoltà a trovargli una borsa di studio in un college di Prima Divisione: "I coach di Division I semplicemente non hanno tempo o voglia di fare da psicologi a ragazzi come Dennis e risolvere i loro problemi emotivi". Così Southern California e Cal State-Fullerton non richiamarono (neanche pensare ad UCLA!); chi invece chiamò fu Greg Colson di Pepperdine, che lo aveva visto vincere un salto a due contro un centro di 2 metri e 20.

A Pepperdine
La stagione a Pepperdine fu esaltante, vide la squadra ottenere un record di 22 vittorie e 6 sconfitte e culminò con la partita del torneo NCAA contro….UCLA! Il piccolo Davide non riuscì nell’impresa di eliminare il Golia del basket college, ma riuscì a spaventarlo a morte e cedette solo nel finale per 70 a 61. DJ giocò una partita magistrale, difendendo come un ossesso e stoppando a turno le tre star di UCLA (Richard Washington, Marques Johnson e Ralph Drollinger) sotto gli occhi di Bill Russell, allora coach e general manager dei Seattle SuperSonics. Ovviamente ai draft seguenti Johnson venne scelto proprio dai Sonics al secondo giro, ed entrò nella squadra anche se con un ingaggio di soli 27,500 dollari.

L’esordio tra i "Pro" e gli anni ai Seattle SuperSonics
Nella stagione d’esordio, nonostante giocasse come riserva di "Slick" Watts e "Downtown" Brown, riuscì a farsi notare. In soli 20 minuti di impiego medio, riuscì a realizzare 9.2 punti ed a smazzare 2 assist. I Sonics chiusero con 40 vinte e 42 perse, e Bill Russell si fece da parte come allenatore. Con Bob Hopkins al timone, però, la squadra iniziò malissimo la stagione (5 vinte e 17 perse), ed allora i dirigenti silurarono il povero Hopkins per dare spazio a Lenny Wilkens. Il nuovo allenatore, come prima mossa per rimettere in carreggiata Seattle, mise Johnson nel quintetto d’inizio, e fu ripagato adeguatamente, visto che i Sonics raggiunsero la Finale NBA. Ma la settima gara di quelle Finali rimane il momento più difficile della carriera di DJ: con 0 canestri su 14 tentativi, il nostro eroe praticamente consegnò il titolo nelle mani dei Washington Bullets, stabilendo un triste primato delle Finals. "Alle volte qualcuno mi ha domandato di ricordare un momento importante della mia carriera – ha dichiarato poi Dennis – ed io parlo di quella partita. In quella gara ho completamente abbandonato la mia squadra, e quella è stata la molla che mi ha spinto a migliorarmi, la sorgente che mi ha ispirato a dare tutto perché questo non accadesse di nuovo. Quel giorno sono veramente diventato un giocatore di squadra". Ma la vendetta non tardò ad arrivare. Nella stagione seguente, dopo aver ottenuto 52 vittorie e 30 sconfitte, Seattle eliminò Lakers e Suns per ritrovarsi di fronte Washington nello "Showdown". E stavolta Dennis non ebbe pietà, guidando i suoi ad un perentorio 4 a 1 e meritandosi il titolo di MVP delle Finali. Ma la lezione imparata l’anno prima gli era servita: "Sono solo un buffo ragazzo nero coi capelli rossi e le lentiggini" dichiarò accettando il premio un umilissimo DJ, dando tutto il merito ai suoi compagni. E come festeggiò il suo primo anello? Facendo involontariamente capire quale sarebbe stato il suo futuro si ficcò in bocca un sigaro alla Auerbach ed aspirò a grosse boccate il fumo. A quel punto c’erano pochi dubbi sul fatto che fosse diventato una delle guardie dominanti della lega, e molti preconizzavano una serie di grandi successi per la franchigia di Seattle: con Johnson ed il velocissimo Gus Williams come guardie, il giovane Jack Sikma in mezzo ed un eccellente cast di supporto, Wilkens poteva legittimamente aspirare al "repeat". "Prima dell’arrivo di "Magic" nella lega, DJ era la miglior guardia in circolazione – ammise Bill Walton, allora a Portland – visto che sapeva muoversi, difendere, passare ed aveva doti innate di leader". Invece il giocattolo si ruppe: nonostante un ottimo campionato (56 vinte-26 perse) culminato nella sconfitta coi Lakers di "Magic" per 4 a 1, l’annata fu contrassegnata da dispute salariali sotterrenee tra Johnson ed i dirigenti dei Sonics e da qualche battibecco con coach Wilkens. Nell’estate del 1980, mentre era in una base militare delle Filippine in visita ai genitori della moglie, Dennis accese la televisione e scoprì di essere stato ceduto ai Phoenix Suns in cambio di Paul Westphal. "Non avevo mai provato la sensazione di essere indesiderato solo per non essere completamente d’accordo con un coach, e rimasi malissimo. E durante il viaggio di ritorno in aereo feci una promessa a me stesso: se un domani avessi dovuto essere trasferito nuovamente, sarebbe stato perché una squadra mi voleva, non perché la mia non sapeva che farsene di me".

Phoenix dolceamara
La prima stagione a Phoenix fu ottima. I Suns andarono a vincere 57 gare (miglior record ad Ovest) grazie alle performance di Johnson (inserito nella selezione del primo quintetto assieme a Gervin, Jabbar, Erving e Bird) e del centro Len "Truck" Robinson. Vennero però imprevedibilmente eliminati per 4 a 3 dai Kansas City Kings, ma sembrò fosse stato un caso. Invece nelle due annate seguenti il "caso" si ripetè ed i "Soli" dell’Arizona furono estromessi dai playoffs senza troppi complimenti. Il coach John McLeod a quel punto dichiarò di aver bisogno di un big-man da centro area, e Dennis era in scadenza di contratto. E fu allora che il genio di "Red" Auerbach colpì per l’ennesima volta: Rick Robey, pivot dei Celtics, "trascinava" il giovane Larry Bird in giro per i bar ed insieme facevano le ore piccole davanti a qualche birra di troppo. Lo stesso Bird ammise in seguito che non era stato un caso se dopo la partenza di Robey era riuscito a vincere tre MVP di seguito…. DJ venne scambiato senza indugio con Robey, e Boston ottenne anche una prima scelta. Così Auerbach ottenne due piccioni con una fava, liberandosi di quella che era una "distrazione" per la sua stella ed acquisendo un leader motivato abile in difesa e pronto a dare fil da torcere allo "strangolatore di Boston" Andrew Toney ed a "Magic" Johnson.

Finalmente a Boston!
I Celtics avevano acquisito sicuramente un fuoriclasse, ma il suo passato irrequieto non era una garanzia. E nel corso della prima stagione Johnson ebbe un aspro scambio di opinioni con il coach K.C. Jones, solitamente gentilissimo. In una gara pre-stagionale coi Sixers Johnson appariva distaccato, quasi in letargo, e quando il coach lo riprese in spogliatoio, la guardia californiana esplose. "Davanti ad Auerbach ed ai proprietari alzammo proprio la voce l’uno con l’altro. Allora decisi di lasciar
perdere per il momento ed attendere gli sviluppi". Il giorno dopo DJ presentò le sue scuse, e da allora K.C. Jones non ebbe più problemi con lui. Nella prima stagione in biancoverde, Johnson si accontentò di….. riportare l’anello a Boston, anche se al termine di una durissima quanto memorabile serie Finale contro i Lakers. Innescò le bocche della più forte "frontline" della storia del basket, ed i Celtics volarono a 62 vinte e 20 perse, guadagnandosi il diritto a giocare eventuali "belle" nei playoffs sul parquet incrociato del Garden. E ciò fu di grande utilità sia nella Finale Est contro i Knicks che nello "Showdown" contro Los Angeles, visto che entrambe le serie furono decise solo alla settima partita. La finale, poi, fu memorabile, con i Celtics sull’orlo del baratro salvati da imprese incredibili (la palla rubata da Henderson in Gara 2) o da errori degli avversari. DJ crebbe col passare delle partite, e fu determinante segnando 86 punti negli ultimi 4 incontri. L’MVP della Finale fu Bird, ma i tifosi si resero conto di avere un nuovo "eroe silenzioso", pronto a mettere il bavaglio a "Magic" ed allo stesso tempo capace di produrre in attacco. Anche nella stagione seguente i Celtics continuarono a viaggiare ad alti ritmi, ottenendo 63 vittorie nella stagione regolare e cancellando dai playoffs Detroit e Philadelphia. Ad attenderli in finale trovarono ancora i Lakers, che si erano rinforzati con l’acquisto del muscolare Mychal Thompson. DJ giocò ancora una volta bene, e trovò modo anche di realizzare il canestro vincente di Gara 4 al Forum. Ma il quintetto dei Celtics non disponeva di cambi validi come quelli dei Lakers, ed il fatto che K.C. Jones aveva spremuto troppo i titolari nelle 92 partite fin lì disputate si fece sentire. Il "Tragic" Johnson della stagione precedente ridiventò "Magic", e nonostante una dura lotta i Celtics dovettero arrendersi in sei partite. Lo staff di Boston non stette con le mani in mano: cedette Maxwell in cambio di Bill Walton e "firmarono" un tiratore dell’Indiana, Jerry Sichting, ponendo le basi di quella che è stata definita la più forte squadra di sempre. E la stagione 1985-’86 si dimostrò un completo successo: 67 vittorie con solo 15 sconfitte furono il preludio alla cavalcata nei playoff che si concluse 11 successi (a fronte di sole 3 battute a vuoto) e con la conquista del titolo nelle Finali contro gli Houston Rockets. Ma quello fu anche lo zenit dei Celtics di Bird, che a causa della morte della prima scelta Len Bias e degli infortuni che cominciarono a martoriare i "Big Three" (Bird, McHale e Parish) non furono più in grado di ripetersi. Così, mentre Boston perdeva la Finale ’87 contro i Lakers e veniva eliminata nei playoffs da Detroit nell’88 e nell’89, Johnson vide le sue statistiche calare sensibilmente.

La fine della carriera
Dopo la stagione 1989-’90, nella quale aveva realizzato solo 7 punti a partita ed i Celtics erano stati estromessi dai playoffs al primo turno (2-3 contro i New York Knicks), nella Beantown c’era odore di cambiamenti. Una sera Johnson ricevette una telefonata dal suo agente Fred Slaughter, che gli disse che i Celtics avrebbero allungato il contratto di un anno se avesse accettato di non partire in quintetto base. Dennis non era uno stupido: a 35 anni si rendeva conto che la squadra doveva dare spazio ai giovani, e così disse che per lui non era un problema. Slaughter gli disse di prendere il primo volo per Boston (DJ si trovava a casa sua, a Santa Monica in California), ed il numero 3 lo fece senza indugio. Quando però arrivò negli uffici della squadra e si trovò di fronte il General Manager Jan Volk, il nuovo coach Chris Ford ed il nuovo Direttore delle operazioni Dave Gavitt, Johnson capì che per lui non ci sarebbe stata un’altra stagione col trifoglio sulla spalla. "Mi dissero che mi lasciavano libero, ed io dissi che sbagliavano. Lasciai l’ufficio non arrabbiato, ma sicuramente un po’ deluso. Mi sarei aspettato un trattamento migliore." DJ continuò ad allenarsi, mentre Bucks e Magic esprimevano interesse nei suoi confronti. "Ma un giorno mi sono detto – continua DJ – finiamola qui. Il mio orgoglio non mi permetteva di finire la mia carriera in quel modo. Non voglio essere costretto a firmare un decadale (contratto di soli dieci giorni, n.d.t.)". Johnson terminò così la sua esperienza NBA con le sette stagioni ai Celtics, ed il suo numero 3 venne ritirato ed appeso proprio a fianco di quello di Larry Bird, che tanto lo aveva apprezzato come compagno. Nel 1993 anche la ruggine col direttivo dei Celtics venne a sparire, quando gli fu proposto l’incarico di assistente allenatore di Chris Ford, che DJ accettò con entusiasmo. Nella sua lunga esperienza NBA (14 stagioni) tenne una media di 14.1 punti a partita, fece parte del quintetto dei migliori della lega nel 1981 e del secondo quintetto nel 1980. Dal 1979 al 1987 fu sempre inserito nel primo o nel secondo quintetto dei migliori difensori. Il valore di Dennis Johnson per i Celtics trascende però ogni numero ed ogni statistica: era semplicemente un "clutch player", un giocatore che dava il meglio di sé quando la pressione era elevata. Non ebbe mai paura di tirare nei momenti caldi, anzi, come Bird, voleva la palla per vincere la gara. L’unico dato che riflette appieno il suo valore è quello relativo agli anelli conquistati: tre. Come Larry Bird.
Fabio Anderle

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