Rendena

Periodico a diffusione mirata di varia umanità - 08 / Giugno 1996
Associato U.S.P.I. - Direttore responsabile Valter Paoli
Coordinatori editoriali Giuseppe Leonardi e Piergiorgio Motter
Autorizzazione Tribunale di Trento nr. 898 del 13 marzo 1996

Collaboratori:
Vittorio Ducoli - Daniele Ribola - Dante Ongari - Sergio Trenti
Cesare Maestri - Tranquillo Giustina - Claudio Dallagiacoma
William Belli - Rudy Cozzini - Giampaolo Mosca - A. Massimo Dalbon

Editoriale

Cyberspazio

- Il fare un libro è meno che niente, se il libro fatto non rifá la gente - scrisse il poeta Giuseppe Giusti, il quale intendeva addirittura di rifare la gente, tanto riteneva alta la missione affidata allo scrittore. Rifare nel senso di informare sui fatti accaduti, sui problemi che ci circondano e sulle conseguenti reazioni e proposte. Prima conoscere, poi valutare e replicare: un arricchimento del singolo, per una crescita collettiva.

Sócrate, filosofo greco (Atene, 469/399 a.C.), fu l'ultimo ad imporre l'insegnamento orale e lo scambio diretto delle idee tra allievi e maestro. Egli aborriva l'informazione scritta e si è sempre rifiutato di fissare il suo pensiero su di un supporto, poiché riteneva che lo scambio doveva essere fra uomini ed in forma di dialogo. Il suo pensiero ci è stato tramandato da Platóne (Atene,427/347 a.C.), suo discepolo, grande e raffinato scrittore, che ha rappresentato una svolta nella civiltà classica, poiché ha preferito veicolare le idee orali con codici scritti utilizzando dei supporti stabili, che hanno permesso al pensiero di entrambi di giungere quasi indenne fino a noi. Certamente non potremmo riascoltare i dialoghi di Sócrate dalla sua viva voce, come il maestro prediligeva e la differenza è notevole. Però nel dialogo, Sócrate aveva uno scambio con appena due, quattro, sei persone. Platóne invece fece viaggiare il pensiero a lunghe distanze, raggiungendo nel mondo milioni di lettori ed il suo metodo si affermò ed esplose e da allora nacquero e si diffusero nel mondo i libri e le biblioteche.

Alle soglie del terzo millenio dopo Cristo, i sistemi informatici elettronici hanno accelerato ancor più la raccolta, lo scambio, l'archiviazione dell'informazione e la diffusione. Hanno stravolto la rivoluzione di Platóne, perché raggiungono un'utenza planetaria in tempo reale. Superato lo scambio su supporto di papiro prima e di pasta di legno poi (il cartaceo), il mondo informatico diffonde e vende elettronicamente la comunicazione verbale e visiva via etere ad un incontrollato numero di interlocutori, ma aihmè senza più l'interscambio personalizzato, come al tempo di Sócrate e ciò comporta un dazio da pagare: la perdita dell'intercomunicabilità fra i singoli, il plagio a portata di bit cliccati da un qualsiasi navigatore informatico e l'impossibilità da parte degli editori di tutelare la proprietà letteraria. Qualsiasi opera dell'ingegno coperta dal copyright, mandata clandestinamente in navigazione sulle reti telematiche di Internét, azzera il diritto d'autore e chiunque può appropriarsene a costo zero. Di ciò se ne sono resi perfettamente conto tutti gli utilizzatori del mondo informatico internazionale.

E allora: utilizzare o no Internét? A questa domanda il comitato di redazione poteva rispondere ponendosene un'altra: è più vantaggioso coltivare il piccolo orticello locale e difenderlo dai predatori innalzando le palade, oppure offrirsi al mondo a rendita zero, utilizzando l'intelligenza collettiva mondiale, senza distinzione di razza, di religione, di censo?

La risposta è stata univoca: meménto audére semper, quia audáces fortuna iúvat (ricordati di osare sempre, perché la fortuna assiste gli audaci).

A livello locale, per orientare le nuove generazioni ad informarsi nell'incontrollato sviluppo di un'informazione contemporanea, massificata ed uniforme, che ormai agisce al di fuori del controllo individuale ed anche di gruppo, vi è un'arma efficace: la diffusione di una cultura a spettro più ampio possibile che permetta ai singoli individui ed ai gruppi una scelta pluralista per conoscere non solo quanto accade nel microcosmo locale, ma anche le reazioni di quanti ne sono coinvolti a livello di valle, mediante l'offerta spontanea per la pubblicazione di studi, discussioni, rassegne, saggi e antologia storica, culturale e linguistica valligiana.

Conveniamo che Internét* ha compromesso il monopolio editoriale delle corporazioni che difendono gli interessi delle lobby economiche. Nasce quindi spontanea una domanda: finiranno in Rendéna i tempi della censura preventiva?

Vigiarúm!*

Chi ha inteso promuovere l'esperimento del periodico Rendéna (se ne parlava da decenni!) non ha timori di sorta, perché fin dall'inizio ha inteso ospitare via, via, i contributi di cronisti, di narratori, di ricercatori, di specialisti e di studiosi, che si riconoscono in un programma interdisciplinare di approfondimento ed insieme di larga informazione, volto ad incrementare e difendere ogni aspetto culturale ed etnico di Rendéna.

La sua Redazione è raffigurabile nell'istituto del Sodalizio, dove ognuno presta la sua disponibilità ad operare volontaristicamente e ne risponde; in due anni è uscita dalla sperimentazione ed è giunta al consolidamento dell'idea; ha trasformato il prototipo in modello; ha dato dignità alla scrittura popolare, contenuta nei diari, negli epistolari, nelle memorie autobiografiche, come fonte di studio della soggettività e quindi meritevole di pubblicazione.

Ma ciò non bastava.

Si è attrezzata perché il periodico, e questa è la novità, potesse navigare (già dal numero sei) nella rete di Internét col sito /Colosseum/2821/rendena ed affrontasse la sfida colla casella di posta elettronica.

I lettori che lo hanno accettato e che ne hanno compreso l'impegno culturale, espressovi con francescana dignità editoriale, meritano un ringraziamento.

I lettori che lo hanno ricercato, perché si sono sentiti dopo la lettura più informati nelle loro conoscenze, meritano gratitudine.

I lettori cybernauti di Internét, che hanno già fatto risparmiare alla redazione spese di stampa e di trasmissione, hanno la possibilità di continuare a leggerlo gratuitamente e col loro contributo potrà nascere una biblioteca digitale e per tanti scrittori si avvererà così il sogno della pubblicazione di manoscritti inediti prelevabili a costo zero.

Per Grisham - economista inglese del 1500, la cattiva moneta scaccia la buona; noi dimostreremo invece, che la buona stampa scaccia la scadente.

La redazione è certa di averne di genuina, perché le menti giovani ed intraprendenti sono con noi.

Piergiorgio Motter - editore

Pelugo, 29 giugno 1996.

So wenig Übermensch

Dapprima c'è la montagna.
Poi la montagna non c'è più.
Infine c'è ancora la montagna

A chi sale la val Rendéna gli elevati plessi montani (cristallini-granitoidi e calcareo-dolomitici) vanno incontro a braccia aperte e lo invitano a godere della selvatichezza e dei silenzi che non incutono paura. I gruppi hanno i vertici ad occidente nel Caré (m 3.462) con le sue bianche lenzuola sospese dai picchi sporgenti; a settentrione nella Presanélla (m 3.556), aspra alabarda diruta ed aguzza; ad oriente nella Cima Tosa (m 3.173), palcoscenico di quinte festose di colore. Sono massicci coperti da ghiacciai e vedrette, innevate anche d'estate. Monti dalle forme appariscenti, soprattutto per i bambini, per le linee che convergono verso l'alto, dove tutti gli spigoli s'incontrano in un punto: la vetta. Per i ragazzi il voler calpestare la cima è una cosa ovvia, perché l'obiettivo è visibile e la motivazione è implicita: salire sopra.

Attorno ai plessi giaciono i laghi ed i laghetti, sparsi come giganteschi bregn o catini di raccolta di acque sospese a rispecchiare il cielo. Le costiere sono solcate da valli e convalli, sono bagnate sui fianchi dai büdù, dai ruscelli e dai torrenti, sono fasciate da foreste e distese prative.

Dopo i freddi del verno, quando il sole veste la valle, il bianco delle vette si fonde col verde tenero dei nocciuoli e dei pascoli, col verde cupo delle foreste degli abeti e dei pini cembri. Acque irrefrenate in crepacci scendono rabide e scure a valle, levigano lastroni e massi, coperti da muschi e lichéni. Alti pascoli sono intersecati da vene di acque cristalline che scendono dalle rughe delle rocce, per tutto rinverdire e rinfrescare al loro passaggio. Dappertutto in piena fioritura rosseggiano cespi di rododendri, profumano i baránci e l'erbe odorose, tra il giallo ocra degli avornielli. Tutta l'alpe è piena di armonie per il pispigliare delle cingallegre e lo stormire delle fronde. Tutt'attorno pulsa la vita dei montanari recapitata nei paesi, nelle baite di monte, nelle malghe, nei rifugi: un convulso vissuto patologico con la natura, intesa nella sua virtualità di grande travagliato grembo materno.

I massicci Adamello, Presanella, Brenta diventano così i testimoni impassibili dell'organizzazione del lavoro dei valligiani, ma pure della ludica fruizione (nella cadenza stagionale e, nello stesso tempo, in quella temporale del giorno) dei turisti, degli sciatori, degli escursionisti, degli alpinisti, dei Rampagaröi e degli acrobatici gipéti del volo a vela. Quindi campi alti di gioco motorio e fonti d'ispirazione e di creatività, dove coraggio, istinto e tecnica fusi insieme, danno sostanza alla cultura dell'alpinismo.

Sul finire dell'ottocento scriveva, Nepomucéno Bologníni, il primo vero cantore della Rendéna:

- Splende rosea la luce sugli acuti pinnacoli del gruppo di Brenta. Scintillano i cristalli delle nevi di Cima Tosa. Scintillano le gocce di rugiada sui rododendri prossimi ad appassire e sulle barbe ammuffite dei larici. Il silenzio è pieno, la quiete solenne. -

D'autunno, quando nei profondi burroni delle vallate, le ombre ritornano a regnare sovrane e paurose, ho conosciuto, ritornando dai monti, Rampagaröi ampiamente gratificati dalle fatiche e dai rischi, consci del contributo dato alla crescita del capitale alpinistico, accumulato in oltre un secolo. Ho conosciuto Gebirgwanderer del tutto appagati dalla fatica della disciplina motoria, consapevoli di andare dove non erano mai stati, di provare ciò che non avevano mai provato, di pensare ciò che non avevano mai pensato, di essere ciò che non erano mai stati.

Quanto a me, alpinista ignoto, continuo, e con me tantissimi altri, a ritornare sui monti alla ricerca delle antiche tracce, dei passaggi certi che evidenziano l'intuito dei primi salitori, del lato debole e più accessibile per raggiungere la vetta, come facevo una volta negli anni della Gebirgsjugend.

Ho vergogna a dirlo perché le vie normali sono andate giù di moda e fanno so wenig Übermensch.

Il Presidente
dell'Azienda di Promozione Turistica
Madonna di Campiglio Pinzolo Val Rendena
Ingegner Riccardo Maturi

Un tabernacolo di roccia ai XII Apostoli

Nel ricordo del sacrificio giovanile di
Maria Rita Franceschini, Vittorio Conci e Giuseppe Fiorilla.

Prologo

di Giuseppe Leonardi

Vita e morte

Nell'immaginario collettivo degli alpinisti dell'immediato dopoguerra, si accentuò un'irrazionale spinta affettiva verso la montagna. Dieci anni di guerre europee (1935/1945) avevano prodotto sconforto e turbativa nelle coscienze di tanti alpinisti, i quali, usciti dall'incubo della distruzione morale e fisica, anelavano al recupero del valore primario della libertà, ma rimanevano pur sempre prigionieri dello spirito di lotta, che inevitabilmente le armi avevano scatenato.

Quella stessa montagna, che durante i conflitti divenne l'ampio grembo protettivo per tutelare e nascondere tanti combattenti ribelli (partigiani) e tanti cittadini sfollati, braccati, condannati a morte e fuoriusciti dalle città rase al suolo dai bombardamenti, a guerra ultimata, divenne per tanti la meta di un alpinismo di ricerca interiore ed ognuno lo fece alla sua maniera, secondo le sue possibilità. Invero tutto l'alpinismo è la storia di un'intensa passione amorosa (Eros) verso la montagna. É sempre lei che viene amata, desiderata, sfidata. E gli alpinisti del dopo guerra ripercorsero gli itinerari e le vie già aperte con una straordinaria energia competitiva nell'ordine della sfida, e ne aprirono di nuove, nel segno dell'agonismo. Basti un esempio. Il tirolese Hermann Buhl, dopo aver ripetuto, in gran parte da solo e a tempi di record, le più impegnative vie lungo le pareti nord delle Alpi, nel meriggio del 3 luglio 1953, conquista da solo e per primo la vergine vetta del Nanga Parbat e bivacca in discesa, senza riparo, ad oltre ottomila di quota. La sua vicenda alpinistica, che sbalordì il mondo alpinistico, proiettò il protagonista sugli incerti confini tra realtà e mito. Sono parole sue:

- Una grande montagna, un ottomila, non si lascia vincere senza che chi l'attacca non affronti un estremo rischio personale. Io amo la vita. -

Ma Buhl sapeva di dover adempiere ad un sacro obbligo verso i compagni immolatisi per preparare la conquista del primo salitore.

- Non eravamo dei pazzi; la nostra volontà era parimenti guidata dalla ragione; ma ci bruciava il fuoco di un giuramento fatto alla montagna ed ai suoi morti: tentare tutto, al limite delle nostre forze. Mi sono assunto io solo il rischio dell'ascensione finale. É mio diritto proclamarlo. -

Collegato alla sfida alpinistica, c'era l'altro aspetto conseguente: la morte (Thánatos). E nel dopoguerra, gli alpinisti caduti in montagna aumentarono di numero, quasi che l'avessero ritenuta immune da pericoli. Un esempio, quello del 23 settembre 1945: nel tentativo di portare a termine la 1a ripetizione della via aperta da Emilio Cómici e Severino Casára sul Salame del Sassolúngo, Ercole Espósito (detto Ruchín), precipita uccidendosi. I suoi due compagni, Bruno Céschina e Gino Valsécchi, riescono a scendere alla base della parete, ma muoiono assiderati nella bufera di neve che durante la notte imbianca il Sassolúngo.

Scrive Pietro Spirito:

- L'agonismo richiama la morte, l'agonía. Parola questa che indica lotta, certame e, per estensione, l'ansia che prendeva lo sfidante di fronte ad un compito difficile e dall'esito incerto. L'eroe è qui, entro questi due poli laceranti della vita; è colui che meglio degli altri li sa interpretare, che cerca di unirli: amore e morte. La passione rende possibile il consumarsi nella vita, l'eros rende possibile la morte. -

Vecchio XII Apostoli

Nei piani delle ristrutturazioni dei vecchi rifugi è stato predisposto dagli organi tecnici della SAT un progetto di ammodernamento del vecchio cubo intitolato alla memoria dei satini Carlo e Giuseppe Garbári ai XII Apostoli nelle Dolomiti di Brenta. Costruito nel 1907/8, e successivamente ampliato nei decenni con l'aggiunta di una struttura lignea in lato NE, il rifugio ha assolto in novant'anni di storia alpinistica un compito prezioso di collegamento escursionistico e di punto di appoggio per attività di arrampicamento di buon livello nella vasta corona di vette che lo circondano. Gli accessi naturali sono in versante SW dalla Val d'Algóne lungo la Val di Sacco; in versante W dalla Malga Brögn da l'Ors, oppure in versante NW dalla Val d'Agola attraverso comodi sentieri, fino al Pian di Nardís. É da questa località denominata anche Lác Sút, che lo si vede collocato nel mezzo dell'alto contrafforte dominante la Val Nardís e spuntar fuori dall'estremo orlo roccioso della vasta conca, a quota 2489 m, ai piedi delle Vedrette di Agola e Prá Fiorí. L'aperto anfiteatro luminoso costituito dalle Cime Prá dei Camosci, Nardís e Dos di Fracíngli, dallo Spallone SW della Tosa e dalle facce W delle Cime Ambiéz, Agola, Súsat e Prá Fiorí, ha come epicentro il vetusto cubo dal tetto piatto, come si usava nelle costruzioni di fine ottocento. Il XII Apostoli acconsente traversate in quota lungo itinerari alpinistici che penetrano nel cuore delle Dolomiti di Brenta e che raggiungono:

Rifugi XII Apostoli e Tosa, sono stati negli anni 1920/40 (la Stagione degli Eroi) e negli anni 1950 (la Stagione dei Reduci), i testimoni di un'intensa campagna di arrampicamento da parte di un'elite di rocciatori internazionali che aprirono centinaia di itinerari, divenuti classici. Ad essi seguirono le vie dei rocciatori artificialisti degli anni 1960/70, esasperate per il grado di difficoltà ed in seguito poco frequentate. Alle soglie del 2000, su quelle crode, arrampica la generazione dei Gipéti del Brenta, che con l'apertura di nuovi itinerari nella purezza dello stile, rilancia l'ardimento dell'alpinismo classico.

Il XII Apostoli rimane pertanto un rifugio prestigioso per alpinisti che non maledicono la fatica, il fascino di una natura incontaminata, l'impassibile maestosità delle vette, le vie di arrampicata e infine la sorpresa allietante del vagabondaggio discreto di branchi di camosci, che transumanano lungo le antiche tracce degli alti pascoli circostanti.

L'estate degli eroi

Nell'agosto del 1933, Ettore Castiglioni ha venticinque anni e Bruno Detassis ventitré. Per loro due, in cordata, è un anno di intensa attività. L'11 giugno erano periti Celso Gilbérti ed Erberto Pedríni, volando dalla parete Est della Paganella. Le salme appese alla parete, furono recuperate da Bruno Detassis e Gino Corrá (gli apritori della via diretta) a notte fonda. La disgrazia aveva fatto un'enorme impressione nell'ambiente alpinistico trentino e da allora per merito di Bruno Detassis ed Ettore Castiglioni i nomi degli sventurati alpinisti rimarranno nella storia alpinistica delle Dolomiti di Brenta. Infatti il 4 agosto Ettore Castiglioni e Bruno Detassis aprono una via sull'inaccesso ed ardito torrione che si stacca sul versante nord della Cima Tosa, dominando tutta l'alta Val Brenta e lo battezzano Torre Gilbérti.

Il 14 agosto Bruno Detassis, Nello Bianchíni, Marcello Piláti e Nello Mantováni aprono una via sull'inaccesso, minuscolo ed ardito gendarme che si stacca dallo spigolo nord del Crozzón di Brenta, sul lato rivolto alla Vedretta dei Camosci e lo battezzano Campaniletto Pedríni.

Nel diario Castiglioni annota:

- Si, Celso, sono felice che a te ho potuto dedicare una delle mie più belle vittorie. Raggiunta la vetta della Torre, il resto non mi interessava: l'ultimo tratto per raggiungere la vetta della Tosa l'ho lasciato fare a Detassis e l'ho seguito come in qualche cosa che non mi riguardava. Bruno mi perdonerà se questa volta ho dimenticato la corda che mi univa a lui, per sentirmi avvinto da quella che tante volte mi aveva legato a Celso. Con la Torre Gilbérti ho avuto l'impressione di aver adempiuto a un dovere e a un voto: più nulla ormai mi interessava in Brenta, ero impaziente di partire e solo per attendere Manlio (il fratello), mi sono intrattenuto ancora qualche giorno. Le mie crode erano ormai infestate e insozzate da gentaglia insopportabile, da mafiosi, fanfaroni, pettegoli e ipocriti: la lite con Neri mi ha disgustato completamente - (Virgilio Neri, ottimo ghiacciatore, aveva fatto da solo la 1a salita lungo il Canalone della Tosa il 21 luglio 1929).

Ad ovest beata solitudine

Questo scontro è sicuramente avvenuto al rifugio Pedrótti alla Tosa. Il rifugio ai Brentéi non esisteva se non come capanna per cacciatori di proprietà di Gigiòti Bolza di Ragoli, che ospitava solo alpinisti di rango.

- Mi sono rifugiato - continua il diario di Castiglioni - ai XII Apostoli, come un orso nella sua tana, e là in solitudine beata, in un ambiente di cordialità e di simpatia come non si potrebbe desiderare meglio, ho vissuto ancora qualche giornata felice, interamente perduto nell'oblio di tutto e di tutti. Soprattutto mi ha fatto bene durante tutto questo periodo l'affratellamento con Bruno Detassis, la sua forza morale, la sua sicurezza, la sua rude e schietta sincerità, il suo affetto e la sua sensibilità, inespressi, ma sempre percepibili. É forse troppo poco per essere un amico: ma sulla crode, come al rifugio, dopo la scomparsa di Celso, con nessuno mi sono trovato così bene come con lui. -

Per quale motivo Castiglioni si apparta ai XII Apostoli? La risposta me l'ha data Bruno Detassis. In quegli anni la gestione era stata affidata a tre tipi particolari, perché particolare era il rifugio, un piccolo dado dal tetto piatto, posato su di un gran masso, fra il silenzio delle crode. Dal dopo guerra 1920, la SAT fu costretta a lasciarlo chiuso per alcuni anni. I pochi alpinisti che lo utilizzavano, prelevavano la chiave dal fiduciario di Pinzolo. Era scomodo, lontano dai sentieri che univano i più confortevoli rifugi della Tosa, del Sella-Tuckett, dello Stoppáni al passo Grosté. Era discosto, insomma, dalle cime chiaccherate che attiravano i rocciatori con il fascino dell'ardimento pubblicizzato dalla elitè alpinistica europea. Ma col trascorrere degli anni, con l'infittirsi della schiera dei solitari, degli operai rocciatori liberi solo al sabato sera, con poche lire in tasca e che al massimo ordinavano un fetta di polenta od un minestrone, alla fine degli anni venti la SAT decise la riapertura del rifugio. Ma chi sarebbe andato a gestirlo, in mezzo ai massi di Cima Vallón, ai ghiacci della Tosa e della vedretta dei Camosci, a ridosso della Val di Sacco, con la certezza di non vedere anima viva durante la settimana, a più di cinque ore di sentiero dai rifornimenti nel più vicino paese, e con la prospettiva di nessun guadagno?

Accettò Péro Stenico di Trento, di professione elettricista a cottimo, ma di cuore montanaro, quando alla SAT gli dissero che se lo avesse gestito gli avrebbero dato trecento lire di sussidio e garantito un poco di credito presso il negozio di generi alimentari. Péro si accordò con il portatore Bruno Detassis, prese con sé il fratello d'una sua vecchia morosa, fece incetta di libri gialli, raccomandò a tutti gli amici d'andarlo a trovare. Caricò sul camion tre casse di roba, dirette a Giustíno: farina di polenta, farina bianca, caffè, formaggio, thé, zucchero e marmellata, una scorta di tabacco da pipa, si dimenticò il sapone. Pieno di speranze, partì per il rifugio. Prima di affrontare la salita dal Brögn da l'Ors, al bocia fece una sola raccomandazione:

- Ricòrdete che g'ho semper resón mí!-.

Al rifugio, il bocia imparò a fare il caffè, a rimestare la polenta, a cuocere le uova, a servire in tavola. Intanto Péro, fra una salita e l'altra coi clienti, si sceglieva un comodo sasso vicino al rifugio e tra una pagina e l'altra del giallo, ricaricava la pipa, padrone del suo tempo. Il 10 agosto 1933 Ettore e Manlio Castiglioni con Péro Stenico aprono una via lungo la parete S della Torre Jandl sulla Vedretta d'Ambiéz alla base della Punta dell'Ideale.

Passione e fede

Negli anni del dopo guerra l'attraversamento delle Dolomiti di Brenta da W verso E, era ancora un'escursione impegnativa soprattutto per alpinisti senza guida. L'Europa era stata impoverita di mezzi materiali, di generi alimentari (razionati) e la gente aveva scarse capacità di guadagno, perché era costretta a lavorare non per sé, ma per la ricostruzione di quanto la furia devastatrice aveva distrutto. Ricordo che l'abbigliamento di noi alpinisti era essenziale: giubbotto di fustagno con braghe alla zuava, maglione di lanital (tessuto sintetico), scarponi di cuoio; in alternativa abbigliamento militare, surrogato del dopo guerra, naturalmente per chi poteva averlo. Usavamo l'attrezzatura degli anni quaranta: corde di canapa, ramponi a otto punte, zaini e tascapane di tipo militare. Era raro l'alpinista che potesse utilizzare in proprio la pubblicistica specializzata. Gli itinerari, nelle parti che ci interessavano, li copiavamo a mano dalle Guide Alpinistiche che ci venivano prestate nelle Sezioni della SAT. Non circolava fra di noi informazione scritta specializzata, che era solamente orale. La fioca illuminazione serale e notturna nei rifugi era un lusso a pagamento, che non potevamo permetterci ed usavamo ognuno il nostro moccolo di candela. Il minestrone era il piatto caldo fornito in ogni rifugio, cui aggiungevamo sempre del nostro tolto dal sacco. La lira scarseggiava e molti pagavano solo il pernottamento ed il posto al tavolo per poter mangiare al sacco. I rifugisti erano i nostri "parenti poveri", ma avevano l'animo dei "montanari di razza". Le guide alpine giravano con i signori e noi squattrinati succhiavamo il loro itinerario, tenendoci a debita distanza ed imparavamo ad arrampicare per emulazione. In compenso esprimevamo sui monti e nei rifugi molta allegria, cantavamo e dormivamo tranquillamente in modo promiscuo; soprattutto ci comportavano con educazione e con altruismo in caso di bisogno e di soccorso, perché l'andare in montagna era una scelta spontanea, talvolta pressappochista, tanta era la passione.

Cronaca del 1950

Spulciando, ho raccolto piccole annotazioni, che possono aiutare il lettore ad immedesimarsi nel clima di grande speranza, di tenace impegno e di semplici valori della nostra gente trentina.

Disgrazia mortale

Nel luglio 1950 sulla vedretta dei Camosci, posta fra la parete W del Crozzón e la catena dei Campanili di Fracíngli, scarpina una cordata di quattro amici: hanno nel programma di scendere in Val Brenta Alta, fiancheggiare la parete N della Tosa, risalire la Bocca di Brenta e scendere al Baito dei Massòdi e poi, lungo la Val delle Seghe, raggiungere Molveno. Una scivolata sul ghiacciaio, fa inghiottire la cordata nella crepacciata traversale: qui ha termine l'escursione e per tre di essi la caduta diverrà mortale.

I brani di seguito proposti si riferiscono a quest'episodio di alpinismo minore, amatoriale, ma carico di un vissuto emotivo intenso. Essi informano il lettore in modo esauriente sulla dinamica della disgrazia e sulle operazioni di salvataggio dell'unica superstite e lo aiutano a riflettere sui percorsi affettivi e familiari, culturali e sociali, dei tre che sono caduti insieme quarantasei anni fa.

"E a rivedér la mama"

di Carla Goio ed Elio Noéra

Così cantarono prima di morire i prigionieri della tomba di ghiaccio il 29 luglio 1950 sulla Vedretta dei Camosci tra i monti che amavano, Rita, Vittorio e Giuseppe, dove hanno cessato di vivere. Seguendo il racconto fattoci dalla Lumíni, l'unica superstite, vogliamo ricostruire l'ultimo episodio della loro vita, perché i loro amici sappiano come avvenne in realtà la catastrofe e soprattutto come questi ragazzi hanno saputo affrontare la morte. Il giro dei rifugi del Brenta era sempre stata un'aspirazione di Rita e quando ai primi di luglio venne a Brescia, dopo aver superato quattro esami all'Università di Firenze, Vittorio, pratico di montagna e alpinista appassionato, preparò con lei il piano della gita e l'amico Fiorílla, appena laureato, si associò a loro con tutto il suo entusiasmo. Parecchi altri amici dovevano far parte della comitiva, ma all'ultimo momento, chi per una ragione, chi per un'altra, tutti dovettero rinunciare. Rimasero solo in quattro: i due cugini Vittorio Conci e Maria Rita Franceschini*, Giuseppe Fiorílla e Mauretta Lumíni, compagna di Università di Rita.

Lunedì 24 luglio i quattro ragazzi si trovarono a Molláro in casa Conci; dopo cena, le carte alla mano, Vittorio, come guida della gita, espose ed illustrò il programma.

Martedì, alle nove, sacchi in spalla, con le provviste per quattro giorni e partenza fra lieti saluti e risate.

- Io sarò il cappellano della compagnia, ho anche il mio messalino con me - disse allegramente Fiorílla - Vittorio è la guida! Maria Rita? la vivandiera! E Mauretta? soldato semplice. -

A Malé furono visti da conoscenti mentre uscivano dalla chiesa; da qui in poi non ci resta che la testimonianza della Lumíni.

Avendo perduto la coincidenza con la corriera, salirono su un camion che li portò a Madonna di Campiglio e da lí raggiunsero la Malga d'Agola, dove pernottarono.

Mercoledì di buon mattino, con un tempo magnifico, lasciarono la malga dirigendosi al rifugio XII Apostoli. Una sosta per il desinare e poi s'incamminarono, seguendo esattamente la via indicata dalla Guida del CAI, per il rifugio ai Brentéi.

Verso le ore 16 raggiunsero la Vedretta dei Camosci. Prima di iniziare la traversata si attaccarono i ramponi e si legarono in cordata: Fiorílla, poi Rita, Mauretta, ultimo Vittorio, come piú pratico, essendo la via in discesa.

Giunti all'orlo della morena, in una cunetta di neve, che appariva sicura, sostarono un momento per fare uno spuntino; Vittorio insisté con Mauretta, che non era mai stata in alta montagna e avrebbe potuto soffrire del freddo (il tempo si era fatto minaccioso), perché infilasse i calzoni lunghi.

Erano tutti in posizione di riposo, non potendo prevedere la catastrofe. Vittorio si tolse il sacco, dove erano i calzoni, ma nell'appoggiarlo a terra, gli sfuggì di mano e scivolò giù per il pendio ghiacciato. Fiorílla con mossa istintiva si lanciò per afferrarlo, ma cadde e precipitò sul sottostante ripido lastrone di ghiaccio trascinando con sé i compagni. Il caldo di quest'estate aveva sciolto la neve, era impossibile fermarsi sul ghiaccio vivo e tutti quattro, in una scivolata paurosa, precipitarono fino alla bocca del crepaccio. Mentre scivolava Vittorio con presenza di spirito passò la piccozza a Rita, che si trovava dove la bocca del crepaccio era più stretta e questa fu pronta a piantarla trasversalmente sull'apertura mentre Vittorio si impuntava coi ramponi per fermare la caduta di tutti. Vi fu un attimo di sospensione. Poi Mauretta, aggrappata all'orlo del crepaccio, scivolò per prima trascinando con sé gli altri che col loro peso strapparono Rita dal suo appiglio. E tutti quattro caddero sul fondo stordendosi. La piccozza era rimasta conficcata alla bocca del crepaccio: Rita era ferita alla testa ed aveva riportato una lesione alla spina dorsale, che le impediva i movimenti, Giuseppe soffriva di qualche lesione interna, Vittorio aveva una ferita in fronte, Mauretta era illesa. Passato il primo stordimento i poveri ragazzi si ripresero e cercarono una via d'uscita; si trovavano dentro una prigione di ghiaccio. L'apertura laggiù era strettissima, tanto che Vittorio, Giuseppe e Rita non potevano starvi di fianco. Le due pareti di ghiaccio si alzavano altissime: 14 metri l'una, 9 metri l'altra, e da tutte due sgocciolava l'acqua. La buca era lunga due metri appena, tanto che potevano distendersi solo per turno. Era chiusa da un lato da una parete alta tre o quattro metri. Al di là di questa, il crepaccio finiva a zero; sperarono di poter uscire da quella parte. Perciò i ragazzi alzarono Mauretta, la più piccola e magra, e la spinsero attraverso una stretta fessura per fare una prova; ma tastando, si accorse che sotto una leggerissima crosta di ghiaccio si apriva un'altra voragine. Allora formarono una piramide per arrivare ad un appiglio; ma nemmeno questo fu possibile. Tentarono coi ramponi di fare dei gradini nel ghiaccio; ma l'acqua li scioglieva subito. Dopo molti tentativi, esausti e scorticati per le anfrattuosità del ghiaccio, compresero che con le loro sole forze non avrebbero potuto salvarsi. Una guida (Bruno Detassis), scesa dopo la loro morte nel crepaccio, dichiarò che nemmeno un alpinista provetto in piena efficienza, sarebbe potuto uscire di lì, senza l'aiuto di qualcuno. Però nei cuori dei giovani rimase ancora viva la speranza. Avevano detto loro al rifugio che ogni giorno passava di lì qualche cordata ed essi aspettarono fiduciosi che qualcuno udisse i loro richiami. Si accomodarono alla meglio nel fondo del crepaccio e mangiarono zucchero e cioccolata per sostenersi. Intanto il cielo si oscurava, si scatenò un temporale, pioveva a dirotto ed i ragazzi non avevano dove ripararsi. Quando smise era già notte; erano bagnati, stanchi e faceva freddo. Ma essi erano pieni di coraggio. Sapevano che, se si fossero addormentati, c'era il pericolo del congelamento; perciò per tenersi desti cominciarono a raccontarsi barzellette, a cantare i canti della montagna. Intonarono anche la "Valsugána". Al verso: "E a rivedér la mama" furono presi dalla commozione e piansero. Ma si scossero e ripresero a cantare un'altra canzone. Poi cominciarono a raccontare; parlarono dei loro cari, della loro vita serena. Vittorio li teneva svegli, scuotendoli di tanto in tanto per non lasciarli congelare. Peppino iniziò a pregare. Recitarono il Rosario tutti assieme, pregarono fino a giorno. Appena si fece giorno, cominciarono ancora a chiamare soccorso, ma nessuno passò di lì. Mauretta fu presa dal panico e Fiorílla le disse:

- Tu non morirai Mauretta. Noi andremo in Paradiso e pregheremo per te, perché tu ti faccia santa. -

In tutti e tre, alla speranza di aiuto era subentrata una forza soprannaturale, che tenne vive le loro anime. E questa forza si trasfuse anche in Mauretta, che tornò calma. Fiorílla, prese il suo messalino e lesse qualche preghiera; parlò ancora del papà, della fidanzata, poi entrò in stato di incoscienza. Aveva, disse, intorno alla vita come una cintura di fuoco: era certamente divorato dalla febbre; per calmare il bruciore si trascinò sotto l'acqua che sempre gocciolava dalle pareti. Chiamò il babbo, la fidanzata, poi si addormentò sereno nel Signore. Maria Rita e Vittorio recitarono su di lui il "De Profundis". Poi lessero altre preghiere dal libretto di Fiorílla e le recitarono insieme per prepararsi alla morte. Stretti l'uno all'altro i due cugini, che si erano sempre voluti bene come fratelli, parlavano piano fra di loro. Mauretta per il rumore dell'acqua scrosciante non poteva capire. Sentiva solo qualche parola che ritornava con maggiore frequenza: mamma..., papà..., Carla..., le zie..., il nonno..., qualche nome d'amico; e spesso li sentiva pregare.

Ad intervalli chiamavano tutti e tre per chiedere aiuto. E si avvicinava la seconda notte, stanchi, sfiniti si scuotevano ancora a vicenda per non addormentarsi. Il venerdì Rita e Vittorio non riuscirono più a mangiare: era subentrata la nausea per il freddo, gli sforzi compiuti e le contusioni riportate. Solo Mauretta poté buttar giù qualche cosa. E continuavano ancora a chiamare. Ad un tratto dei sassi si staccarono dalla morena soprastante e caddero fermandosi a pochi centimetri da Mauretta; la ragazza spaventata si mise ad urlare. Ma Rita le fece coraggio.

- Non lasciatemi morire per ultima! Ho troppa paura - gridò Mauretta.

- Non aver paura, Mauretta, tu non morirai, tu tornerai a casa. -

Una strana tranquillità si era impossessata di Rita e di Vittorio. A tratti pregavano, parlavano ancora fra di loro. Vittorio fece distendere Rita, che aveva la schiena dolorante ed ella appoggiò la testa sulle sue ginocchia. Scese la terza notte, si scatenò un uragano, cadde la grandine fitta e grossa; ma Rita si assopì tranquilla fra le braccia di Vittorio. Non aveva ancora vent'anni. Vittorio tenne sulle sue ginocchia per tutta la notte la bambina morta, senza dir nulla a Mauretta per non impressionarla; solo la mattina ella se ne accorse.

- Senza Rita io non torno a casa - le disse Vittorio.

Era ormai staccato dalla vita, sereno, quasi sorretto da una forza soprannaturale.

- Pareva tutto spirito - disse poi Mauretta.

Fece ancora coraggio alla sua compagna, poi fu preso dal torpore e si spense serenamente. Sembrava che da quei tre ragazzi morti scaturisse una calma che si impossessò di Mauretta. Riprese a gridare; subito dopo la morte di Vittorio due alpinisti l'udirono e fu salva. Le salme furono recuperate domenica 30 luglio di mattina.

- Ho raccolto una quarantina di morti in montagna, ma tutti avevano sul viso i segni dell'angoscia - disse la guida Bruno Detassis - mai ho visto tanta serenità come sul volto di questi tre ragazzi. -

E la Lumíni:

- Io non sono morta, ma loro sono andati in Paradiso. Io so che in quel crepaccio, mentre i tre poveri ragazzi morivano, c'era il Signore. -

Due pareti di ghiaccio

di Aldo Gorfer

Un anno fa, esattamente alle 13.30 di sabato 29 luglio 1950, un giovane alpinista bresciano, Giovanni Scandoléra, irruppe trafelato al rifugio ai Brentéi, raccontando affannosamente che dalle parti dei Fracíngli provenivano intervallate delle grida di aiuto. Al rifugio era l'ora della siesta, l'ora in cui il sole batte implacabile arroventando le crode. Alcuni escursionisti si intrattenevano nella sala da pranzo, ammirando oltre le vetrate la imponente parete NE del Crozzón. L'allarme piombò sul Brentéi come una saetta, stringendo l'anima dei turisti in una morsa di greve impressione impastata di ansia e di paura per la misteriosa tragedia che si stava svolgendo sulla montagna. Affollarono il parapetto del belvedere, a un passo dall'asta della bandiera e seguirono la rapida marcia delle guide Bruno e Catullo Detassis. Questi si buttarono di corsa oltre la schiena erbosa di un dosso; poi ricomparvero, piccoli punti neri, su per i dirupi del versante sinistro della val Brenta; raggiunsero i cengióni aerei ai piedi del Crozzón ed infine furono inghiottiti dal vallone ghiacciato dei Camosci. Al Brentéi si rimase in attesa; si lanciavano occhiate scrutatrici ai bizzarri spuntoni dei Fracíngli.

Improvvisamente il vento costrinse al galoppo furioso le nubi, che si buttarono a corpo perduto lungo i valloni, scaraventando in essi pioggia, grandine, fulmini. In quell'inferno, sulla vedretta dei Camosci, i fratelli Detassis perlustrarono il ghiacciaio cercando di individuare l'anfratto da dove, tratto a tratto, fra le rabbiose raffiche di grandine ed il rombo dei tuoni, provenivano grida d'aiuto, fioche, rauche, disperate. Scorsero sulla cresta del Passo dei Camosci, un alpinista che con segni, rispondeva alle loro voci. Lo raggiunsero ma questi nulla sapeva e si limitò a dire che aveva risposto loro con segni di saluto. Allora si arrampicarono sulla cresta dei Lastóni dei Fracíngli, esplorando cenge e pareti e, finalmente, dall'alto, le guide udirono la voce: essa proveniva dalla vedretta e compresero che l'eco delle pareti aveva giocato loro una beffa. Ridiscesero sul ghiacciaio e nella ricerca si unirono il giovane Scandoléra e gli accademici Benedetti e Nino Vallát di Trieste. Perlustrarono la crepacciata ed ecco una voce salire dalla voragine:

- Sono dove c'è la piccozza !- sospirò la voce.

Le guide videro l'attrezzo, ancorato di traverso alla spaccatura del crepaccio. Intanto il fortunale continuava ad impazzire e fu in quell'atmosfera di tregenda che Mauretta Lumíni, l'unica superstite della sciagura, venne tirata a forza di braccia dalla bara di ghiaccio, sul cui fondo, battuti dall'acqua, dalla ghiaia e dai sassi, i soccorritori scorsero i corpi dei tre alpinisti uccisi dopo quattro giorni e tre notti di vana attesa. La Lumíni, semicongelata, raggiunse il Brentéi e due giorno dopo poté rientrare in seno alla famiglia, che villeggiava a Córedo. Il giorno successivo le guide ed i portatori Raimondo Albertini, Ernesto e Gilio Alimónta, Umberto Catturáni, Antonio e Giulio Dallagiacoma, Angelo Ferrari Spalla, Gino Gadotti, Aldo Gasperi, Maffeo Gatta, Serafino Serafini e Natale Vidi, recuperarono le tre salme, le composero pietosamente in teli da tenda impermeabili, forniti da Bruno Detassis, e a spalla le trasportarono in val Brenta Bassa. L'avvenimento, riportato dalla stampa, suscitò dolorosa impressione e purtroppo anche polemiche. Per ciò, ad un anno dalla disgrazia, mi sono deciso a salire sulla crepacciata con Bruno e Catullo Detassis per una ricognizione. Subito le Guide mi dissero che i giornali avevano scritto a sproposito della sciagura e che nessun giornalista li aveva mai interpellati per sapere cose precise. Bruno poi mi fece un racconto scarno, conciso, efficace sull'operazione di salvataggio. Poi aggiunse:

- Il crepaccio è il primo della serie, il più esposto e come un imbuto fa da colatoio; è un taglio netto nella vedretta per circa 50 metri; il labbro superiore, fatto a schiena d'asino, è di circa 5 metri più elevato di quello inferiore; di sotto scendono due muraglie di ghiaccio verde-azzurro, dure e lisce; sul fondo, dove giacevano le vittime, il crepaccio è largo 50 cm e dal labbro superiore esso è profondo 14 metri. -

Con parole accorate, infine la Guida ricostruisce il tragico epilogo dell'escursione:

- Scivolati sulla vedretta innevata e dopo un volo sul ghiacciaio che in alto ha un'inclinazione del 40%, sono precipitati uno sopra l'altro nella voragine della crepacciata. Dalla spinta del primo labbro a schiena d'asino, gli alpinisti furono catapultati 5 metri più in basso, sui bordi del labbro inferiore e di qui scaraventati nel baratro. Non potevano né impuntarsi con i piedi, né aggrapparvisi. É stata una fatalità che essi siano caduti nel punto più profondo; il temporale della notte e degli altri giorni seguenti sono stati un colpo mortale per le residue energie fisiche e morali degli alpinisti. Se una guida o un provetto di ghiaccio e di roccia, in condizioni fisiche integre, ha 90 probabilità su cento di uscire dal crepaccio da solo, alpinisti meno esperti e in condizioni fisiche ottimali ne hanno solo 40 su cento. Se infine questi ultimi sono colpiti fisicamente, le probabilità si riducono a zero. -

Tu non morirai

di Mauretta Lumini

Non faró della cronaca; della gita, dell'itinerario, delle circostanze della sciagura e della morte dei tre Amici miei, ha già scritto Carla Goio che era la sorellina adottiva di Rita.

Vorrei invece far rivivere nel pensiero e nel cuore di coloro che li amarono la figura degli Amici scomparsi, così come Li ebbi vicino negli ultimi giorni e presentare il Loro coraggio e la Loro fortezza cristiana a quanti non Li conobbero, ma ne appresero e ne ricordano, con commozione la morte. É passato quasi un anno da allora e ancora mi domando se e fino a qual punto sia possibile dare una spiegazione puramente umana a quanto successo: so peraltro che di fronte ad una sorte che a molti è apparsa crudele, non ho udito da parte dei miei Amici una sola parola di ribellione e nemmeno di amarezza. Attorno a me c'è sempre stata una sovrumana serenità: fiducia fino quando si poté sperare e poi, di fronte all'inevitabile, una forza che solo poteva venire dalla Fede. Se ci sono stati dei momenti d'angoscia, era per il pensiero dei cari lontani che spesso tornavano nei discorsi interrotti dalla preghiera. Sembrerà strano, ma abbiamo anche cantato laggiù e quando le nostalgiche canzoni della montagna si spegnevano sulle nostre labbra, qualcuno riprendeva a parlare e si facevano progetti per il futuro; poi ci si interrompeva per chiamare ad intervalli, nella fiducia che qualche comitiva di passaggio avrebbe udito i nostri richiami.

E le ore passavano lentamente: una notte, il giorno seguente, una seconda notte; mentre durante la prima ci aveva presa una pioggia gelida, quella seconda fu serena, ma fredda: passavano su di noi le stelle, ci illuminò per qualche attimo la luna e restammo sempre svegli, per non farci prendere dall'assideramento, fino all'alba del venerdì. Fu allora che Giuseppe, con voce accorata, propose di scrivere qualche parola di addio alle nostre famiglie (proposta che non potemmo mettere in atto per mancanza di mezzi); poi cominciò a lamentarsi di un forte bruciore allo stomaco; il braccio destro gli si era come intorpidito. Era ormai sicuro della sua prossima morte che vedeva vicina con lucida serenità; si diceva chiamato dal Signore e dichiarava che la morte è spesso un premio. Alle mie proteste rispose, con uno stanco sorriso, che non aveva paura, se io mi fossi salvata, avrebbe pregato per me. Poco dopo si accasciava lentamente e moriva con i cari nomi del papà e della fidanzata sulle labbra. Così si avvicinava la terza notte e malgrado il buon volere di Vittorio che faceva di tutto per incoraggiarci, le speranze si facevano sempre più fievoli. La terza notte piombò improvvisa con una tempesta violenta: pioggia e grandine cadevano su di noi e nel buio fitto non potevo vedere i miei compagni. Mi giungevano appena le voci, attutite dal frastuono del temporale. Allora ebbi paura della morte imminente, gridai:

- Non lasciatemi morire sola. -

Mi rispose flebile e accorata, ma tranquilla, la voce di Rita:

- Non sei sola, sei con noi, Mauretta; e poi, tu non morrai. -

Rita, che nascondeva la sua sofferenza, per far sereni anche noi, che sorrideva pregando e cercava anche di scherzare per darci coraggio; come la ricordo ora, con l'unico rimpianto di non averla avvicinata di più, per imparare dalla sua soave fortezza! Ancora per un poco i due cugini parlarono, con voce sempre più sommessa, poi non udii più nulla. Dopo un poco Vittorio si mosse e per quanto la mia mente si rifiutasse di crederlo, dovetti rendermi conto che la mia compagna di studi, la mia dolce e tanto cara amica ci aveva lasciati. Così restava solo Vittorio con me. Ma anche lui era affranto dalle lunghe fatiche e la morte della cugina lo aveva addolorato in modo indicibile. Pure trovò ancora la forza di dirmi le più buone parole dell'amicizia, poi il tremendo disagio di quelle ore senza fine ebbe il sopravvento sulla sua anima generosa e sulla sua forte natura. Ansimava forte; si mise semidisteso, fece ancora qualche movimento, poi più nulla. Anche lui aveva abbandonata questa terra per raggiungere la cugina e l'amico nel "Regno dei giusti". Allora appoggiai la testa al ghiaccio in attesa della morte che la serenità e la grandezza d'animo dei miei Amici mi aveva insegnato ad affrontare con meno paura e continuai a gridare meccanicamente, anche per sentirmi meno sola, finché i miei richiami furono uditi.

Morti credendo nella vita

di don Onorio Spada

Rita morí sui monti che intensamente amò, perché amava lassù imparare la lotta contro i pericoli, e abbracciare orizzonti di cielo al di là dei quali sapeva incontrarsi con Dio e ridiscendere più forte e più amante. Tornavamo dall'aver ascoltato, in casa di amici "l'Incompiuta" di Franz Peter Schubert. Maria Rita, pensando, come spesso le succedeva, ad alta voce, per un insopprimibile bisogno di sincerità e di comunione, mi fece osservare che, a parer suo, l'incompiutezza non era tanto nel disegno tecnico della sinfonia, quanto nello spirito dell'autore che non aveva saputo liberarsi dalla propria terrestrità e così raggiungere un campo più largo e sicuro. Così come è spesso di noi, aggiungeva riecheggiando i versi di una poesia che l'aveva colpita: vorresti il cielo e l'amore, ma le tue mani sono di terra, e il cuore di carne.

Non che Rita si rassegnasse a questa posizione di passività quasi impotente. Per lei era indiscusso che le difficoltà esistono per essere superate. E così aveva orientato la sua vita su due direttrici di conquista: dominio interiore e responsabilità sociale. Sapeva troppo bene che la prima di queste direttrici era il fatto indispensabile per raggiungere l'altra; ma alla sua travolgente vitalità non era del tutto facile quel sereno controllo dei pensieri, delle parole e degli atti che si impone per arrivare ad una cosciente personalità; e d'altra parte si ribellava per istinto all'idea di diventare una "ragazza per bene", inappuntabile come un manichino o una bambola. Un giorno, aveva allora sedici anni, capì che la natura non va soppressa, né violentata, ma corretta ed educata, e che la sua esuberanza era un dono magnifico, una sorgente inesauribile di ricchezza per sé e per gli altri. Le parve allora che il mondo fosse suo: la sua squisita sensibilità, la sua viva intelligenza, la sua completezza fisica dovevano diventare strumento di bene. Dire tutte le tappe, spesso angosciose, di questo camminare verso una personalità umana e apostolica, non è possibile. Molti la ricordano nella sua attività al Reparto Guide alla Sezione di Trento della Gioventù Studentesca, della quale fu anche vicepresidente, e al tempo dei Comitati Civici, dattilografa, telefonista, spedizioniera, e perfino attacchina e oratrice propagandista nei comizi; ultimamente nelle pause dello studio universitario, s'era fatta promotrice ed animatrice di un circolo giovanile per lo studio dei problemi sociali.

Tutta questa attività non era peraltro in lei frutto di quel senso di proselitismo che quasi guarda più alle cifre che alle anime, che si cristallizza negli schemi e s'impoverisce nella lettera degli statuti e diventa spesso quello zelo amaro che, lungi dal conquistare, irrita e porta gli altri ad irrigidirsi nelle proprie posizioni. La sua giovinezza in ribellione sentiva prepotentemente quanto le anime, specie dei più lontani, abbiano bisogno di amore: e pur non essendo inflessibile nei principi, era evangelicamente comprensiva con gli erranti. In una parola, l'apostolato non era per lei una sovrastruttura, un distintivo o una divisa, ma semplicemente la proiezione della sua personalità umana e cristiana.

Terminato poi il trambusto del lavoro esterno, rientrava nella famiglia, dove con la sua serena vivacità riempiva la casa; tornava allo studio che non vide mai fine a sé stesso, ma come mezzo per educare l'intelletto, aumentare le proprie cognizioni, disciplinare la volontà e raggiungere una posizione sociale che le consentisse di rendersi maggiormente utile. Sentiva ancora che anche il divertimento non è solo un diritto, ma anche un dovere; anche questo quindi non fine a sé stesso, ma mezzo per poter tornare alle proprie occupazioni con nuove energie. Temo ora, al termine di questo rapido profilo, di averci tracciato lo schema della figliola, studentessa perfetta. Sarebbe fare torto a Maria Rita, e lei per prima protesterebbe ricordandomi che amava definirsi la mia pecora nera. E tale effettivamente si riteneva; e non ebbe forse mai, e fu gran bene, la coscienza del suo effettivo valore.

Quando nell'estate del 1948 corse rischio, al mare, di annegare per salvare una sua compagna, fu molto meravigliata che qualcuno avesse potuto vedere in ciò dell'eroismo. Perché, e so di poterlo dire, fu una ragazza di assoluta spontaneità. E nessuno è veramente spontaneo se non abbia un equilibrio interiore. Morí invece sui monti che intensamente amò, perché amava lassù imparare la lotta contro i pericoli, e abbracciare orizzonti di cielo al di là dei quali sapeva incontrarsi con Dio e ridiscendere più forte e più amante. Un giorno d'inverno, mentre si scendeva insieme, con gli sci, da Passo Rolle, prima di rituffarsi nelle piste aperte in mezzo al bosco, disse:

- Vorrei poter portare a casa tutto questo cielo e questo candore.

E mi parlò del papà e della mamma, di Carla e degli altri e aggiunse: - Vorrei amare tutti. -

Oggi Rita sorride a tutti, dal Cielo.

Famiglia e società

di Franco De Marchi

Questo fu il binomio attorno al quale gravitarono il pensiero e l'opera di Vittorio Conci, alle soglie dei più impegnati traguardi della vita:

- La vita deve avere un significato anche se una morte improvvisa avesse da stroncarla in fiore. -

Esattamente un anno fa esprimevo questo concetto a Rita. Due mesi dopo per lei e per suo cugino Vittorio, mio carissimo amico, una tragica fine eternò il significato che alla propria vita essi seppero dare. Per questo Vittorio è oggi più vivo di prima. Ho scorto nella sua persona un valore immortale, che mi parla oggi con la forza di un programma, umano e ideale insieme e mi impone alla coscienza indelebilmente. Se la sua vita non fosse stata stroncata tragicamente, questo valore non sarebbe emerso così nitido e convincente ai miei occhi. Ventiquattro anni: forte e sano d'animo e di corpo, amava lo studio ed il lavoro, lo scherzo ed il riso, la famiglia e gli amici, la bellezza della natura; amava la vita in tutto ciò che ha di bello e di buono. Si era laureato in legge due anni fa all'Università del Sacro Cuore, dove studiò con la serietà di chi vuole prepararsi per la vita. Quando frequentava l'Università a Milano ritornava il più presto possibile a Brescia, dai suoi. La sua casa era il ritrovo degli amici, la sua mamma era la mamma di loro: ascoltavano le canzoni della montagna, leggevano pagine del vangelo, parlavano di politica e di problemi sociali. La montagna era la sua passione: quando poteva partire all'alba, sacco in spalla, era felice.

- Niente mi fa bene come la montagna - mi disse più volte.

Chi ha conosciuto Vittorio lo ha sentito raccontare di Molláro, un piccolo paese della val di Non nel Trentino. Vi ritornava ogni estate, ogni vacanza, sempre con nuova gioia alla vecchia casa patriarcale, dove si radunava intorno al nonno tutta la famiglia e dove venivano a trovarlo gli amici. Gli piaceva la vita semplice della campagna, fermarsi a chiacchierare coi contadini del paese, che lo amavano; soprattutto era felice di trovare lassù la cuginetta Maria Rita, la compagna inseparabile dei suoi giochi di bambino, di gite e di allegria, la sua amica e confidente, più cara di una sorella, quella creatura luminosa che pareva fatta apposta per portare a tutti la gioia; egli la proteggeva e la consigliava come un fratello maggiore e Rita con la sua anima esuberante, lo trascinava verso le vette. "I popi", li chiamavano in famiglia, "sempre uniti per la vita e per la morte", come scriveva, quasi presaga, Maria Rita nella sua ultima lettera al cugino.

- Com'è bella la nostra vita di famiglia - diceva Vittorio alla sua mamma poco prima di morire; e sognava anche per sé una famiglia così, semplice e buona, una famiglia di montanari. Oltre la famiglia, sentiva dei doveri verso la società, per la quale cercò di crearsi una buona cultura politica e sociale; frequentava assiduamente l'ambiente della Fuci; perciò dava con entusiasmo lezioni di diritto ai lavoratori nella scuola gratuita delle Acli; perciò lavorava con l'amico Fiorílla in DC*, senza ombra di ambizione personale, e portava il suo equilibrio sereno, il suo buon umore giovanile anche nelle adunanze degli anziani.

Al partito Conci e Fiorílla erano noti come i due inseparabili, andavano perfettamente d'accordo nelle idee, si sostenevano a vicenda: tanto che furono eletti insieme vice segretari della sezione cittadina.

- O tutti e due, o nessuno - avevano dichiarato i due amici al congresso. Vittorio discuteva volentieri dei problemi che lo appassionavano: al partito, in casa, per la strada, ma non conosceva intransigenza o animosità; sapeva rasserenare gli animi dopo una la discussione più accanita. Tanti gli volevano bene. La politica lo interessava molto. Ma che lo appassionava era il problema sociale, che gli era diventato un assillo, quasi una sofferenza e si palesava in ogni suo discorso.

Il professore Giorgio La Pira non aveva scritto invano in quella primavera "L'attesa della povera gente" e "Giustizia sociale, diritto al lavoro, disoccupazione, case, pieno impiego": tutto il suo cuore era là. Se i poveri avessero tanti amici come lui, il comunismo sarebbe un vocabolo vuoto. Non era spinto dalla febbre degli ambiziosi che vogliono salire per quella via, né dal veleno della rivendicazione di chi è vittima di un disordine sociale. Per lui non era che la logica attuazione dei suoi principi cristiani; impegno interiore di carità pensata e generosamente voluta; perché non altrimenti egli sapeva concepire la società che come un'organizzazione dell'amore al prossimo. Un'anima superficiale non ha crisi di fede, perché per essa la fede non costituisce un interiore problema di coerenza. Vittorio l'ebbe questa crisi, viva, prolungata. Eppure, proprio in questo periodo mi mostrò una così chiara e precisa conoscenza del corpo mistico di Cristo che ne rimasi stupito. La crisi non lo allontanava dalle fonti della verità, ma ve lo spingeva. Ve lo spingeva soprattutto un bisogno di lealtà e di coerenza. Quando la nonna lo precedette, di qualche mese, alla visione di Dio, Vittorio ritrovò sé stesso nello spoglio di ogni presunzione umana, nella semplicità di chi si vede viaggiatore verso la casa del Padre. Ritrovarsi e ritornare alla Comunione frequente fu tutt'uno. La sua religiosità era essenzialmente santificazione del suo dovere. Gli mancavano gli entusiasmi verbosi dei giovani; invece la sua attività convergeva a fare della sua professione un esercizio di carità, un mezzo di redenzione morale e sociale. Qui trovo tutta la sua modernità, la sua peculiarità più attraente. Il suo concetto (me lo rivelava nei suoi colloqui e nelle sue lettere) era questo:

- Cristianesimo è carità: ma oggi Carità significa sforzo di costruzione d'un ordine sociale nuovo, intrinsecamente morale. In questo sforzo collettivo ciascuno ha un suo posto ed un suo compito. L'ordine nuovo non si fa né coi comizi, né con le chiacchiere politiche: ma santificando ciascuno la propria professione, mettendola al servizio della società per una giustizia più alta e più cristiana. -

L'amico Manóni, suo collega d'ufficio, mi assicurò che questi propositi erano tradotti nei fatti fino all'evidenza. Iddio credette bene di non lasciarcelo qui a lavorare per una società nuova. Volle soltanto che ci servisse da indicatore. Ce lo tolse tragicamente, lo chiamò a sé sui monti che egli amava, dove non sai se sia la terra che si immerge nel cielo o il cielo che poggia sulla terra. Sta di fatto che i tre amici ce l'hanno reso più eloquente, più desiderabile il cielo. E meno triste la terra perché ha saputo fiorire anime degne di Paradiso. Nel lavacro del battesimo noi schiudiamo gli occhi al sole, mentre le acque della grazia spengono le tracce del peccato originale. La furia della tempesta, l'incessante grandine, la sfibrante umidità del ghiacciaio, purificarono dalle macchie personali Vittorio, per lasciare del suo cuore soltanto quello che poteva contenere di divino. Dopo aver lottato con tutte le sue forze per salvare i suoi compagni e sé stesso, egli si abbandonò al Signore. "Ave Maria, gratia plena", mormorò più volte, in quelle tragiche giornate, finché a Gesù parve che anch'egli fosse ridotto ad essere soltanto "gratia" per poterlo inondare di luce e sommergere d'eterno amore. La storia si costruisce spalancando l'anima a Dio.

Dalla lotta partigiana all'impegno societario

di Amelia Conci

Nel fuoco delle parole di Giuseppe la speranza di:

- un ordine sociale, dove un più elevato costume morale, e più cristiane istituzioni, avrebbero permesso agli uomini di vivere secondo giustizia. -

Lo chiamavano Peppino: un bel ragazzo alto, bruno, con occhi neri vivaci. Aveva nel cuore, dicevano gli amici, il fuoco dell'Etna, ma la sua volontà era salda come le rocce delle Alpi. Era infatti di padre siciliano e di madre bresciana. La mamma, soave eppure forte, doveva restare nel cuore del figliolo, come un ricordo caro, velato di tristezza. La perdette a 9 anni quando più si ha bisogno di una carezza materna. Ma dal duro colpo, il carattere ne uscí temprato e dotato di un precoce senso di responsabilità. Fu educato lontano dal babbo nel collegio Arici che oggi è fiero di questo suo alunno. Sopravvennero i rischi e le dure necessità della guerra (la casa abbattuta da un bombardamento, lo sfollamento a Nave) poi la lotta partigiana alla quale Peppino partecipò con l'entusiasmo dei suoi 18 anni. Anche lo studio costò fatica a Peppino e non fu senza sacrificio suo e dei suoi che egli poté iscriversi alla facoltà di legge a Milano. Vita dura, ma illuminata da una fiamma viva: la fede. La sua fu una fede vissuta: la sua purezza illibata, il generoso dono di sé, il suo sacrificio quotidiano nella lotta per il trionfo dell'idea cristiana:

- Se crediamo, dobbiamo accettare il Vangelo in pieno, diceva, con tutte le conseguenze. -

E un'altra volta, a proposito del grande mistero del dolore:

- Se il Signore ce lo manda vuol dire che, per noi, il dolore è necessario, è anzi un bene, anche se non comprendiamo; perché una cosa è certa: che Dio ci ama di amore infinito. -

Apparteneva con tutta l'anima all'Azione Cattolica; subito, appena giunto a Brescia, egli vi si iscrisse nella Parrocchia di San Lorenzo e per tutto quell'anno, che doveva essere il suo ultimo, vi lavorò con ardore. Anche la politica per lui era strumento di apostolato. E penso che questo sentissero le folle che egli riusciva ad entusiasmare: in lui vi era carisma, che gli attirava la simpatia e il rispetto. E nella provincia bresciana oggi ancora lo si piange.

- Per Giuseppe Fiorílla - scriveva subito dopo la sua morte l'amico professore De Zan - il problema massimo fu sempre questo: ordinare la sua vita secondo il fine soprannaturale, divenire un tralcio vivo della vite di Cristo. -

Per ciò che riguarda l'attività politica, scrive ancora De Zan:

- La sua adesione alla Democrazia Cristiana fu per lui un impegno religioso, prima ancora che politico. Gli parve il terreno più propizio per realizzare quelle istanze sociali che giudicava preminenti nella morale cattolica. E nel partito non s'acquietó mai nel solco già fatto delle tradizioni, non subì le lusinghe dei provvisori successi personali, ma vi portò intatta, la sua ansia di perfezione e di conquista. Nella propaganda che egli esercitò a lungo con encomiabile zelo in tutte le zone della provincia, egli soleva spesso superare il ristretto fatto politico con una più universale visione degli avvenimenti umani. E nel fuoco delle sue parole trapelava la speranza di un nuovo ordine sociale, ove un elevato costume morale e più cristiane istituzioni, avrebbero permesso agli uomini di vivere secondo giustizia. Eppure questo ragazzo così profondamente cristiano non rinnegava la vita, il senso umano della vita. Anch'egli amava la montagna che trasforma, fortifica la volontà, purifica i sentimenti e, trascinato dall'entusiasmo del suo amico Vittorio, si era iscritto con lui alla scuola di roccia e faceva progetti di gite. Gli lucevano gli occhi a parlare di montagna. Laureato da pochi giorni faceva piani per l'avvenire tanto più belli e luminosi, poiché in quegli ultimi mesi la sua anima pura si era aperta all'amore: un amore che lo illuminava. La vita si spalancava piena di speranze alla sua fidente giovinezza. E proprio allora la sua esistenza fu troncata. Eppure Peppino ha speso bene la sua breve giornata. La sua vita e la sua morte debbono essere per tutti un richiamo duro, ma provvidenziale. Quante speranze inespresse, quanti desideri inconclusi avrà portato via con sé Giuseppe nella sua lenta agonia. I giovani cattolici raccoglieranno quelle speranze per lavorare anche per lui, per vivere anche per lui. -

Testimonianza

Da Brescia, 30 agosto 1950

La perdita dei cari amici Vittorio e Peppino è stata per tutti un richiamo fecondo. Vorrei che qualche cosa di loro, oltre al ricordo e all'esempio restasse tra noi che abbiamo voluto loro bene.

Da Milano, 4 agosto 1950

Rita e Vittorio mi hanno ridonato la fede. Sono tornato alla luce spinto dal
dolore; ora li sento vicini a sorvegliarmi, e li troverò sempre presenti nella preghiera, e li ritroverò viventi sulla montagna. Ogni mia ascesa spirituale è a loro dedicata.

Da Brescia, 18 agosto 1950

Ero sceso da quelle cime alcuni giorni prima nauseato dal chiasso, dalla superficialità, dal paganesimo sfacciato che ha invaso anche la montagna; ora quella montagna la sento purificata dal sacrificio e dalla serena morte dei tre giovani amici.

Da Trento, 28 ottobre 1950

Il suo ritratto è qui sulla mia scrivania; quando ritorno la trovo sempre sorridente, e spesso, anche quando non riesco a sorriderle, lei mi aiuta fissandomi a lungo fino a farmi tornare serena.

Da Bolzano, 13 agosto 1950

Sento un gran vuoto, e la mia giornata passa col pensiero sulla montagna dove sono rimasti...Signore, dacci la forza di ringraziarti per la loro morte così bella.

Da Trento, 8 dicembre 1950

Voglio sempre più bene a Rita, e forse Lei non immagina quanto mi sia di aiuto ogni giorno il suo vivo ricordo. É come se ora dovessi lottare anche per lei nel campo sociale: l'ideale era ed è comune, e così lavoro in nome suo.

Dalla Vedretta dei Camosci, 10 agosto 1950

Zita Lorénzi, assessore regionale, sale al rifugio ai Brentéi e alla fine della giornata scrive sul libretto di guida di Bruno Detassis:

- Con le esperte e valenti guide Bruno e Catullo Detassis, accompagnata dal servizio fotografico e giornalistico del quotidiano "il Popolo Trentino", ho effettuato un sopralluogo alla vedretta dei Camosci, per perlustrare l'insidioso crepaccio, nel quale perirono i due nipoti del senatore Enrico Conci e della onorevole Elisabetta Conci e l'amico dott. Giuseppe Fiorílla. Per l'amicizia che mi lega alla famiglia Conci esprimo la più viva riconoscenza alle valorose Guide, che per prime sono accorse premurose sul luogo della sciagura e che si sono prodigate per organizzare le squadre di salvataggio e di recupero delle salme. -

Da Valgrande, 4 agosto 1950

Vittorio è passato primo come sempre in cordata, ha fatta la strada e me la mostra, mi incita a salire verso la Vetta. Un tabernacolo sui monti: una tenda di sasso vivo custodirà il vostro ricordo. Sorgerà sulla balza rocciosa del rifugio XII Apostoli, che trae la strana denominazione dai dodici speroni di roccia, coronanti in cerchio il sommo canalone dalla Val di Sacco. Nata tra le pietre sarà fatta di sole pietre, solitaria nella conca immensa, dominata dalla Tosa, in atmosfera solenne di trasfigurazione, dove l'uomo riprendendo il senso reale delle proporzioni di fronte ai giganti della natura abbandona il proprio nulla nella immensità del soprannaturale e nell'umiliarsi fino all'annientamento, si eleva alla visione e al godimento di Dio.

Sul monte si ascende per pregare. Inebriato ancora dalla luce della trasfigurazione di Gesù, l'Apostolo Pietro disse:

- Maestro è per noi un gran piacere restare qui: innalziamo tre tende, una per Te, una per Mosè e l'altra per Elia. -

Ecco noi pure facciamo una tenda, sicura come la pietra, un sacro rifugio per ospitarvi Gesù: perché fra queste rocce tre voci chiamarono, invocarono gli uomini che non poterono udire, invocarono Dio, e Lui le udí e accolse Giuseppe, Rita e Vittorio. Abbiamo fissato le tre voci, le tre eco, dentro alla tenda di roccia e dalle tre croci esse chiamarono alla Grande Croce in perenne colloquio. Verranno gli amici tutte le volte che il manto bianco si sarà sciolto lungo i canaloni e nella Vostra tenda invocheranno il gaudio della trasfigurazione e saranno tutti uno, loro e Voi, stretti più che in ricordo in realtà di vita. Parrà loro di sentire i vostri Spiriti, alleggianti d'intorno, comporsi solenni nelle tre nicchie e come mute preghiere convergere ai piedi del sacerdote, per fondersi in unica invocazione: accogli Iddio, nel Tuo infinito amplesso, tutti quelli che compaiono inghiottiti dalle immensità inebrianti della Tua Creazione.

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Una tenda di sasso vivo

di Giampaolo Mosca

La Cima dei XII Apostoli (2.699 m) è un grosso testone roccioso che si eleva fra la notevole spalla di Colmàlta ed il Passo dei XII Apostoli, punto culminante della cresta che divide la val di Nardís dalla val di Sacco. L'escursionista può raggiungere la vetta con facilità dalla cresta SE e scendendo una decina di metri sotto il valico, sul versante S, può ammirare una bancata rocciosa sulla quale l'erosione ha modellato una dozzina di significative protuberanze ben allineate. É da esse che l'estro fantasioso popolare ha tratto l'oronimo onomatopeico di XII Apostoli dato alla cima e al passo. La storia alpinistica narra che la cima è stata raggiunta la prima volta nell'estate del 1910 e che la guida Clemente Maffei Guerèt lungo la faccia di NE, che domina il rifugio, ha tracciato due vie di IV Grado. Dal 1952 la stessa parete accoglie al suo interno la cappelletta scavata nella roccia. Opera di semplice ingegneria mineraria, è il prodotto finale dell'applicazione di un'intuizione geniale. Sobria e suggestiva si evidenzia come manufatto tipicamente alpino di notevole rispetto ambientale, non riscontrabile in tutto l'arco delle Alpi. Appartata e discreta non intacca l'armonia dell'anfiteatro naturale dolomitico ed assolve mirabilmente con i bracci poderosi, scavati a forma di croce, il compito di rappresentare icasticamente il significato cristiano del sacrificio dei caduti della montagna. Un manufatto esemplare dell'ingegno e del lavoro montanaro. Gli aspetti tecnici sono:

L'appuntamento

di Giuseppe Leonardi

Dall'anno 1952 una folta schiera di alpinisti ripete al Rifugio dei XII Apostoli un tacito appuntamento, fissato per l'ultima domenica di luglio di ogni anno. Dal rifugio si incamminano lungo un sentiero scavato nella roccia ed arrivano all'imbocco del cunicolo, attraverso il quale accedono alla Cappelletta. Lì dentro rinnovano il ricordo dei tre alpinisti morti nella crepacciata della vedretta dei Camosci, accomunati in un ricordo universale di quanti sui monti hanno perduto la vita. Dall'anno 1963, ininterrottamente, il Coro della Sosat accompagna coi canti la cerimonia religiosa. Due lastre di marmo sono appese all'inizio del cunicolo:

Dal sacrificio dei giovani
Vittorio Conci - Maria Rita Franceschini - Giuseppe Fiorílla
l'idea del tempio che affratella i Caduti della Montagna
di ogni nazione.
Promotore colui che sino all'estremo servì
l'ideale della fraternità universale:
Alcíde Degasperi

- Sull'altare di pietra il sacrificio del primo caduto della montagna si unisce e dà un valore eterno al sacrificio di tutti i fratelli caduti. L'abside naturale con la visione inebriante di cime vicine e lontane si trasforma in un amplesso infinito del Padre comune che ha creato il cielo e la terra. Così il monumento, tra le nostre care Dolomiti, si apre a precipizio sulla Val di Nardís con quattro fornici a forma di croce, segno di pace e fraternità, acceso dal sacrificio dei tre giovani amici, alimentato dal ricordo di tutti i caduti. Sopra l'orrido crepaccio della morte s'innalza così il piccolo tempio, consacrato dalla presenza di Dio, alla resurrezione e alla vita. E la campana benedetta l'annuncia a tutte le vette vicine e lontane, elevando i pensieri degli uomini alle sublimi altezze del Vangelo. -

Così si espressero i promotori il 28 settembre 1952 ad ore 11:30, giorno della benedizione. In occasione della commemorazione di domenica 28 luglio 1954 per incarico del Santo Padre Papa Pio XII, il prosegretario dalla Città del Vaticano Montíni, così telegrafava:

- Lodando paterna cristiana commemorazione Caduti della Montagna nel monumento internazionale Gruppo di Brenta, Sua Santità invoca eterna pace anime ardimentosi estinti, esorta loro emuli a spirituali ascensioni e invocando su di essi perenne divina assistenza invia di cuore implorata apostolica benedizione. -

Ma chi ebbe l'idea della cappella scavata nella roccia viva? Dal 1950 subito dopo la disgrazia, l'allora cappellano parrocchiale di Pinzolo don Bruno Niccolini assunse l'incarico della realizzazione della cappelletta e andò a confidarsi con Leone Collini, costruttore di opere civili e pubbliche. Questi gli disse:

- Invece di costruire all'esterno, facciamo una grotta all'interno della roccia, in modo che sia riparata naturalmente e che i fedeli raccolti vedano la corona di vette che la circondano attraverso dei finestroni naturali a forma di croce. -

Leone Collini oltre che con l'idea geniale sostenne don Bruno con i mezzi tecnici e finanziari. L'opera fu realizzata col concorso spontaneo di un gruppo di montanari animati da tanto entusiasmo ed abnegazione. Di questa ne furono protagonisti entusiasti soprattutto i minatori che, una volta tanto, si trovavano impegnati nella realizzazione di un'opera di alto significato spirituale. Fu inaugurata l'ultima domenica di luglio del 1952. Monsignore Giuseppe Bonomíni, già cappellano militare della Divisione Alpina Julia in Grecia, poi dell'ospedale militare di Brescia, dove venero accolti i reduci feriti e congelati della Campagna di Russia, infine cappellano a Bolzano presso il IV Corpo d'Armata, membro di merito dell'Ordine del Cardo (sodalizio internazionale di spiritualità e solidarietà alpina) e presidente dell'Associazione Nazionale delle Chiesette Alpine, offrí il calice ed i paramenti. Da Roma, il presidente del Consiglio dei Ministri Alcíde Degasperi *, impossibilitato a muoversi, inviò il suo Segretario particolare. Questi, la vigilia, si presentò a Pinzolo in casa Collini con un vestito blú da cerimonia e con le scarpe mocassino. Leone, vedendolo, chiamò la figliola Rosalba e le disse:

- Procura al Segretario un paio di scarponi, di braghe, una giacchetta e una camicia e digli che domani ci sono 6 ore da camminare. -

Naturalmente glielo disse in lingua familiare.

In occasione della 4a commemorazione avvenuta il 31 VII 1955 don Bruno Niccolini fece stampare un opuscolo ricordo. Un copia la donò al Collini con questa dedica:

Al Carissimo Amico Leone
con animo profondamente grato
per la comprensione e l'aiuto
con cui mi ha sempre seguito.
Don Bruno

Postfazione

I sagrestani si arrovellano con chiodi, cordini, funi e scale per addobbare gli archi, le colonne, i diedri, le facce, i pilastri, gli scudi, i timpani e le volte del tempio. Così l'arrampicatore.

Ma solo il ministro sale i gradini dell'altare per celebrare il rito. Così l'alpinista.

Note

Vecchio maestro

di Giuseppe Leonardi

- Grandi cose succedono quando l'uomo e la montagna s'incontrano - ha scritto il poeta inglese William Blake e tante belle "cante" di montagna nacquero negli anni del primo Novecento quando un intellettuale trentino abbracciò le sue montagne e le valli con la sua gente e le propose:

- Vecchia terra, se credi, ti aiuto a cantare, a cantare meglio, perché tutto il mondo tu possa incantare. -

Quell'uomo voleva dimostrarle, in segno di riconoscente affetto, che dopo l'inutile strage della Grande Guerra, dopo i lutti, dopo le sofferenze, la prigionia, l'esilio, l'internamento, dopo le incursioni armate dispensatrici di morte e di odio, c'era ancora un Popol tenace e pacifico che poteva, nonostante tutto, esprimersi liberamente con l'arte del canto.

Quell'uomo, colto e generoso, aveva della sua gente una convinzione profonda:

- I figli della montagna, basta una spina per farli morire, basta un fiore per farli cantare. -

E con tenace impegno si mise al servizio della sua gente e divenne già nel 1935 l'armonizzatore, capofila e indiscusso della coralità trentina.

Luigi Pigarelli nasce a Trento il 15 dicembre 1875 e vi muore il 25 aprile 1964, all'età di 89 anni. Fu magistrato di professione e, per passione, compositore ed armonizzatore-arrangiatore di partiture di canti popolari, che per pudore firmava con lo pseudonimo di Pierluigi Galli.

Visse il periodo fecondo della società della Mitteleuropa della fine dell'Impero d'Austria, quando fra Trento e Rovereto si consolidò un sodalizio di cultura letteraria e sociale, non intesa come professione, ma come laboratorio di impegno collettivo nel travaglio di un'autocoscienza spirituale, che tendeva a sviluppare per il Trentino un nuovo progetto di autonomia amministrativa e di organizzazione sociale. Fin da giovane percorse un cammino di studi fecondi, trovandovi punti di sicurezza e di riferimento col partecipare all'attività e all'impegno di un cenacolo di intellettuali, nel quale confluivano dirigenti commerciali, geografi, giornalisti, letterati, maestri di musica, pittori, quali, tanto per nominarne alcuni: Luciano Baldessari, Cesare Battisti, Nicola d'Atri, Vittorio Casetti, Fortunato Depero, Vincenzo Gianferrari, Marta Krause, Attilio Lasta, Lino Leonardi, Gino Marzáni, Umberto Moggióli, Gisella e Remo Salvétti, Emmanuele Sannicoló, Riccardo Zandonái.

Pigarelli è tra i promotori della Società degli Studenti Trentini, fondata da Cesare Battisti nel 1904, centro di cultura italiana con forti venature irredentistiche e partecipa ai congressi: ad Arco nel 1900, dove viene nominato presidente Gino Marzani, studente in legge a Graz; a Trento nel 1902 e nel 1903 a Cles. Al congresso del settembre 1901, che si tiene a Rovereto, l'amico compositore Zandonai presenta l'Inno degli studenti trentini*, che aveva musicato su parole di Guido Mazzoni, l'illustre professore fiorentino amico di Giosuè Carducci.

Il Trentino nel ventennio tra il 1890 ed il 1910, vedeva le minoranze intellettuali impegnate a guidare il ceto urbano e le masse contadine valligiane per strade differenti, anche se per tanti versi parallele nel comprendere come la dinastia imperiale degli Absburgo non potesse durare a lungo.

Il primo partito fu l'Associazione Nazionale Liberale fondata nel 1871. Nel 1894 anche il socialismo si costituì in partito, seguito nel 1904 dal movimento cattolico che formò l'Unione Politica Popolare e, l'anno seguente, il Partito Popolare Trentino.

Da una parte si mobilitava il polo dei cattolici, rappresentati dal vescovo Celestino Endrici, da monsignore Guido De Gentili e successivamente da Alcide Degasperi e da Enrico Conci. Avevano la convinzione di poter mantenere in vita con le loro iniziative sociali a favore dei contadini e degli artigiani (le Società di smercio e di consumo, le Casse rurali di risparmio e di credito e le Cantine sociali), uno spaccato della società e della civiltà rispettosa dell'assolutismo della monarchia imperiale, nella quale si riconosceva o più semplicemente ne viveva. Il programma s'ispirava al principio della coscienza nazionale positiva, cioè alla difesa della nazionalità nell'ambito della legislazione dell'Impero absburgico.

Dall'altra il polo dei liberali e quello dei socialisti, promotore Cesare Battisti, consapevoli di essere portatori di una cultura progressista e laica, che si ispirava al romanticismo tedesco e ai principi libertari della rivoluzione francese.

Mischiato fra i due poli l'Irredentismo (movimento minoritario di annessione del Trentino al Regno d'Italia anche con l'intervento bellico) rappresentato e sostenuto soprattutto da liberali nazionalisti e da socialisti, che facevano riferimento all'etnia italiana delle popolazioni trentine e al loro patrimonio linguistico e culturale.

Queste composite minoranze intellettuali vedevano nell'unione con l'Italia la possibilità di staccarsi da un impero che socialista o liberale non era immaginabile si potesse allora configurare.

L'8 agosto 1914, Cesare Battisti, Guido Larcher, rappresentante della Lega Nazionale, e Giovanni Pedrotti della SAT, stilano un appello al re Vittorio Emanuele invocando l'intervento dell'Italia nella guerra contro l'Austria per l'annessione del Trentino.

Fin da giovanissimo Pigarelli studia e si abbevera alle fonti della cultura, si afferma come brillante studioso bilingue e si diploma al ginnasio statale di Trento. Inoltre, studia musica da autodidatta, si cimenta anche nella composizione con brevi pagine cameristiche. Nel 1901 termina di comporre una graziosa gavotta intitolata Charitas, stampata nello stabilimento Scotoni & Vitti, e messa in vendita al prezzo di una corona a beneficio dei bambini poveri e scrofolósi. La pubblicazione di altre sue composizioni viene salutata come evidenti migliori promesse del suo certo temperamento artistico.

Nel 1896 Pigarelli si iscrive alla Società Filarmonica di Trento, mentre frequenta la facoltà di giurisprudenza presso l'Università di Graz, dove confluiscono gli studenti trentini. Nel 1900, a soli venticinque anni, è eletto segretario della Filarmonica, dove vi promuove nuovi metodi organizzativi. Della stessa sarà più volte presidente fino al 1958, fatte salve alcune interruzioni negli anni politicamente difficili della prima guerra mondiale e del ventennio fascista, quando le sue convinzioni personali di assoluto distacco dalle questioni politiche potevano nuocere alla Società.

Ma Pigarelli trovò la sua via più congeniale nella schietta rielaborazione di semplici espressioni dell'anima musicale popolare, abilmente adattate per l'esecuzione a più voci virili. Già verso il 1908/10 per iniziativa dell'Accademia Austriaca delle Scienze di Vienna, era stata iniziata una raccolta metodica di poemi e canti popolari e al professore Ive dell'Università di Graz era stata affidata la direzione. Del Comitato trentino facevano parte i professori Onestínghel e Bertagnólli, mentre la parte musicale venne affidata all'universitario Pigarelli.

La dichiarazione di guerra del Kaiser Franz Joseph von Absburg alla Serbia del 1914, fu l'inizio della Grande Guerra, la conseguenza tragica dell'assolutismo imperiale, la fine della dinastia absburgica, il tramonto di ogni possibilità di collaborazione tra i popoli.

Le ricerche nel campo della musica popolare rimasero interrotte, ma per Pigarelli non furono infruttifere.

Su di una cartolina spedita da Vienna il 12 ottobre 1901 da Lino Leonardi e diretta alla sorella Irene a Borgo Sacco, Pigarelli viene ricordato come amico.

Nel 1902 Pigarelli consegue l'abilitazione di magistrato e a soli 27 anni entra a fare parte del corpo prestigioso della magistratura trentina. Durante la Grande Guerra è processato per sospetta collusione con l'Irredentismo trentino. Dopo la guerra tiene rapporti di stretta amicizia con Giannantonio Manci.

Pigarelli era fraterno amico di Lino Leonardi, che a sua volta era amico di Giambattista (Tita) Piáz, la celebre guida alpina di Pera di Fassa. In una lettera dal Vajolét del 25 agosto 1921 diretta al Leonardi, che gli raccomandava un suo amico (Pigarelli), Tita Piáz rispondeva con la sua ben nota perentorietà:

- Carissimo Dottore, per me eistono in via di massima due classi alpinistiche che guido: a) Coloro che non pagano nulla; b) Chi paga ciò che vuole la prestazione, né più, né meno. Nella prima c'entrano gli amici e molte volte gli amici dei miei amici, poi tutti coloro che vengono a me armati di molto entusiasmo e pochissimo denaro. -

E Piáz conclude:

- Io non comprendo assolutamente perché Lei trovi tante difficoltà a venire da noi e perchè trasporta la data della Sua venuta continuamente ad un altro anno. Creda che tanto a mia moglie che a me farebbe un vero regalo, non sia così prezioso e venga il prossimo settembre. Affettuosamente Tita. -

In una cartolina del 18 agosto 1923, il Piáz insiste ancora per avere il Leonardi in Val di Fassa:

- Caro Dottore, non dimentichi le promesse fattemi!. -

É difficile datare l'amicizia di Lino Leonardi con Gianbattista Piáz, ma risale probabilmente a prima della Guerra Mondiale e si era forse rinsaldata nel lager di Katzenau (1914-1917) dove si trovarono internati con la sorella Maria Piáz. Dopo l'uscita dal campo di concentramento, Maria da Beneschau (Benesov, a sud di Praga, sulla linea di Tabor e Budweis) scrive l'8 marzo 1918 al Leonardi che si trova a Budweis in Boemia:

- Carissimo Dott. Leonardi, oggi per caso ebbi questa cartolina e sapendo che Lei è ammiratore delle nostre torri (del Vajolét) gliela spedisco, sperando in un giorno non lontano che potrà salirle assieme a Tita. Noi la ricordiamo sempre. -

Il ricordo dei sacrifici fatti e l'orgoglio di possedere la trentinità nel cuore, spinse poi Leonardi e Piáz ad associarsi con tanti amici per iniziative di volontariato, di apertura sociale, sempre nel segno di una solidarietà e di una concordia che continuò anche in tempi calamitosi, come quelli che poi seguirono con la dittatura fascista.

Il rapporto di amicizia con il Leonardi favorisce l'incontro di Pigarelli con Tita, il diavolo delle Dolomiti, con le Torri fassane e con l'inizio della saga canora delle "cante" popolari.

Nell'agosto del 1924, Gisella e Vittorio Casetti sono a Cavalese in villeggiatura e con l'aiuto di Francesco Thaler e Luigi Pigarelli organizzano un soggiorno per gli amici Nicola d'Atri, giornalista e Riccardo Zandonai, che stava istrumentando il secondo atto dei Cavalieri di Ekebù. In quell'occasione Tita Piáz fa visita allo Zandonai. Questi il 14 agosto 1924 scrive all'amico Lino Leonardi (non intervenuto perché si stava sposando):

- Ieri ho avuto la visita di Piáz. Ci aspetta per salire il Vaiolét. Caspita! Mia moglie ha avuto un gran brivido! Simpatico il Piáz. Gli ho promesso che andremo volentieri a trovarlo. -

L'11 dicembre 1926 Riccardo Zandonai, da Pesaro, in una lettera indirizzata al maestro di musica Vincenzo Gianferrari, scrive nel post scriptum:

- Mi ricordi, la prego, all'amico Pigarelli. -

A partire dall'anno 1926, freme nell' animo del giudice Pigarelli un fervore musicale senza soste per la realizzazione di un'idea, di un progetto di riscatto del suo popolo con la valorizzazione del canto popolare.

Grecia capta ferum victorem coepit, come dire il Trentino sottomesso conquistò il feroce vincitore. A questa realizzazione Pigarelli giunse applicandosi allo studio sistematico di recupero e di trascrizione della peculiare tradizione viva del canto corale spontaneo, in riferimento a gruppi di persone riuniti a cantare senza uno spartito e senza la conduzione ufficiale di un direttore. A distanza di anni riprese a valorizzare le passate ricerche iniziate a Graz.

Gira per la valli del Trentino per ascoltare i cori spontanei, che costituivano allora la più frequente e consueta espressione della tradizione orale popolare. Avverte che essa attinge sia al bacino musicale mediterraneo, che a quello dell'Europa continentale e si pone nell'ascolto per poter meglio evidenziare il legame culturale tra i territori della vecchia monarchia absburgica e quelli della monarchia sabauda; tra il collettivo nordico e l'individuale italico; tra conservazione ed innovazione; tra cristalizzazione e riproposizione. Il tutto espresso in un legame dialettico fra oralità spontanea e coralità, fatta di disciplina, di equilibrio, di omogeneità, di senso del collettivo nella rinuncia alla sopraffazione individualistica per amore del risultato d'insieme. Pigarelli comprende la forza latente di quello spontaneo sviluppo dell'animo popolare. E mentre fino a quegli anni egli aveva usato la sua vena musicale per qualche canzonetta a sfondo patriottico con carattere più o meno satirico, con la forza del suo esprit compila, con lo speudonimo, la prima serie di armonizzazioni di canti trentini.

Attorno agli anni 1925, dal cumulo delle più disparate esperienze, nasce in sordina a Trento il coro della SOSAT, sezione operaia della SAT, che si esibisce pubblicamente dietro un paravento nel salone delle feste del Castello del Buonconsiglio il 25 giugno 1926, in occasione di un convegno sul sacerdote e sociologo Edmondo De Amicis, omonimo del grande scrittore.

Nel 1934, in occasione del congresso per le arti popolari che si tiene a Trento, Pigarelli compila una scelta dei più tipici canti popolari fissando, con la sola frase melodica senza accompagnamento, la forma musicale originale più autentica e genuina. Il manoscritto viene spedito al Comitato centrale di Roma; dallo stesso non si seppe più che fine abbia fatto. Quel lavoro rappresentò senz'altro la più seria ricerca di musicologia fatta dal Pigarelli, che di questa si avvalse nel comporre le numerose trascrizioni corali pubblicate nel 1935.

Pigarelli in questa sua passione impersona una coerenza estrema. Riesce a conciliare prima gli studi, poi la professione di magistrato e la vocazione musicale, che lo portano a considerare il salvamento dell'oralità popolare, come un impegno sociale, quasi la giustificazione della sua stessa esistenza.

Il 24 febbraio 1935 Vittorio Gianferrari scrive allo Zandonai:

- Carissimo Riccardo, ti sono tanto grato per la buona e bella lettera. Ho già spedito, dopo interessamento del Dott. Pigarelli, partitura e parti a (Remy) Principe (violinista). -

A partire dal 1938, dopo lo scioglimento della SOSAT per ordine del partito fascista (16 ottobre 1931), Pigarelli ed Antonio Pedrotti si impegnano a coordinare, a spronare, a perfezionare il piccolo gruppo dei fratelli Pedrotti che danno vita, con i cantori della SOSAT, ad un nuovo coro. Fu proprio sotto la loro guida illuminata che il Coro della SAT raggiunse successivamente le vette della fama e della celebrità. Da allora il coro della SAT ed il risorto della SOSAT (aprile 1945) cantano da decenni al mondo intero le armonizzazioni di Luigi Pigarelli.

In questo 1996 il Coro della SOSAT festeggia il prestigioso traguardo dei settant'anni e si fregia del merito di essere stato nel 1926 il primo coro al mondo di Canti della montagna.

Buon compleanno Coro della SOSAT, augura il periodico Rendéna, nel ricordo deferente del vecchio maestro Luigi Pigarelli, che rese grande il suo piccolo mondo di origine, avvertito come espressione e punto di riferimento di quei sentimenti e valori che costituivano le cose preziose della sua terra.

Angelo Manaresi, presidente generale del CAI, nella prefazione ai Canti della Montagna dal repertorio del Coro della SOSAT stampato nel 1935 con le foto di Enrico Pedrotti, fra l'altro scrive:

- Canzoni dell'Alpe che sanno di Patria, di Famiglia e di Dio, che hanno il profumo del pane casalingo, il tono acceso dei fiori di montagna, lo slancio delle Dolomiti scagliate verso il Cielo. Canti dell'alba e del tramonto, canti paesani schietti, semplici, umani, che passano di padre in figlio e scendono, con le acque dei fiumi, a dire al piano la gioia la sofferenza dell'Alpe. Ottima iniziativa, dunque, questa della SOSAT, di divulgare il nostro patrimonio di canzoni. La gloriosa sezione operaia del Club Alpino di Trento, custode di una fiera tradizione patriottica, animatrice di passione alpinistica fra i giovani delle officine, dei campi, degli studi, ha delle canzoni, fatto spettacolo d'arte incomparabile ed oggi tutte le raccoglie in veste fresca e smagliante. -

Per evidenziare ancor più il legame con il suo mondo, che non tradì mai, aggiungo due aneddoti, conosciuti solo dagli intimi, che caratterizzarono la personalità del magistrato, formato ad un alto senso di giustizia.

Il primo.

Erano gli anni 1936/38 del maggiore consenso degli italiani verso il regime fascista, quando un milite (il corpo della milizia svolgeva mansioni di guardia forestale, caccia e pesca) aveva colto sul fatto un vecchietto, che con una rete (redesína) tesata su di un ruscello cacciava piccoli uccelli da cuocere in padella. Sprovvisto della licenza apposita, alla vista dell'arrivo del milite, il malcapitato se la diede a gambe levate. Allora il milite estrasse la pistola d'ordinanza e lo fulminò con un colpo mortale alla schiena. Il milite fu denunciato e dovette comparire quale imputato di omicidio in Corte d'Assise a Trento, dove Pigarelli presiedette il collegio giudicante. Il pubblico ministero, esponente del partito fascista trentino, sostenne la pubblica accusa e con abile oratoria evidenziò la gravità della violazione della legge venatoria dello Stato, la ferma volontà del milite di reprimere il reato, il tentativo del reo di sottrarsi all'arresto con la fuga e chiese l'assoluzione dell'imputato. Terminata la requisitoria, il giudice Pigarelli si alzò dallo scranno di legno intagliato per ritirarsi in camera di consiglio e imprudentemente mormorò sottovoce:

- Per quatro oséi, non se cópa nissún - (per quattro uccelli non si accoppa nessuno).

Rientrato nella Corte, Pigarelli poi pronunciò - In nome del Re d'Italia - una sentenza di condanna severa ed esemplare.

Per quella dichiarazione, Pigarelli fu poi punito con un provvedimento disciplinare, per non aver rispettato il regolamento giudiziario, che vieta l'anticipazione della sentenza.

Il secondo.

Quinto anno della Seconda Guerra Mondiale. Dall'8 al 10 settembre 1943 le armate tedesche assaltano le caserme. I soldati italiani presenti nel Trentino vengono disarmati, fatti prigionieri e deportati in Germania. Il 10 settembre il Führer Adolf Hitler decide di costituire la Zona di Operazioni dell'Alpenvorland, nella quale venivano incluse le Province di Bolzano, Trento e Belluno. Il Trentino così diveniva di fatto, per 600 giorni una provincia del III Reich. Contro i nazisti si formarono dei focolai di resistenza. L'organizzazione dei partigiani clandestini più efficiente fu quella comunista, che ebbe tra i suoi capi il medico Mario Pasi (nome di battaglia Montagna), medaglia d'oro della Resistenza, che venne trucidato dai nazisti il 10 marzo 1944. Tra le altre vittime Ancilla Marighetto (Ora) e Clorinda Menguzzato (Veglia), ambedue di Castel Tesino, le più giovani medaglie d'oro tra le donne della Resistenza. Il 18 giugno scatta un'operazione delle SS (Schutz-Staffeln, squadre di sicurezza) nel Basso Sarca e sono uccisi undici partigiani e arrestati tre. A Trento sono arrestati Giannantonio Manci, considerato il capo della resistenza trentina, Giuseppe Ferrandi e Gino Lubich. Il 6 luglio Manci, dopo essere stato sottoposto a torture e pressanti interrogatori, si suicida (medaglia d'oro) gettandosi dal IV piano del Corpo d'armata di Bolzano per non tradire i compagni. Fra questi milita Luigi Pigarelli. Si forma allora una catena clandestina di solidarietà per sottrarlo alla cattura e viene nascosto a Tiarno di Sotto in Val di Ledro in casa dei panificatori Casári. Per nove mesi lavorando di notte si guadagnò da vivere facendo il garzone del panificio. Fu lì che sentii per la prima volta cantare nella clandestinità La Montanara.

La guerra terminò. Pigarelli fu reintegrato nei gradi della magistratura e successivamente nominato procuratore della repubblica e consigliere di cassazione.

Fu collocato in pensione dopo 47 anni di servizio.

Ma l'attività di Pigarelli si è svolta anche oltre il campo della musica popolare. Fu critico musicale dal principio del Novecento nei quotidiani locali, a cominciare dall'Alto Adige, e diede alle stampe alcuni saggi in occasione di Strenne di beneficenza. Della sua vasta cultura e fine sensibilità di musicista poterono godere i frutti specialmente la Società Filarmonica, di cui per molti anni fu attivo presidente, restandone sempre la vera anima, finché il clima politico non volle mettere alla testa uomini più graditi. Seguì i propri ideali artistici con incrollabile fermezza, e nelle controversie che subì la Filarmonica cercò sempre di far trionfare la verità per quanto è concesso alle forze umane. Passò i suoi ultimi anni godendo dei continui e meritati successi delle sue versioni corali.

Morì alla veneranda età di 89 anni, sussurrando alcune battute delle canzoni, che avevano dato gioia a tanti, il 25 aprile 1964. Il pianoforte di casa sua rimase muto: sul leggio lo spartito della Marcia del Kaiser di Richard Wagner attese invano di essere interpretato.

Elenco dei Canti armonizzati o ricostruiti da Luigi Pigarelli:

  • Ai preat
  • Attraverso valli e monti
  • Bombardano Cortína
  • Cara mama, mi vói Tòni
  • C'ereno tre ssorelle
  • Come porti i capelli bella bionda
  • Compagno fucile
  • Doman l'è festa
  • E adéss che sem chi tuti
  • E col cífolo del vapóre
  • El barcaròl de Brénta
  • El canto de la sposa
  • E ma prima che te töghia
  • Éra séra
  • Éra una notte che pioveva
  • Gran Dio del cielo
  • In cima ai monticelli
  • Il fiore di Teresìna
  • Il povero soldato
  • Il testamento del capitano
  • La domenica
  • La Gigia l'éi maláda
  • La montanara
  • La mattina
  • La Paganella
  • La pastóra
  • La smortína
  • La vilanéla
  • Le donne son false
  • L'è tre mesi che t'ho scritto
  • Le lamentazioni di Fiemme
  • Montagne mie vallate
  • Meneghína
  • Monte Caníno
  • Né diséva i nossi veci
  • Nenia di Gesù Bambino
  • O Angiolína
  • Oi biondinéla
  • Oggi è nato in una stalla
  • Quando le rose bianche
  • Quante stelle vi è nel cielo
  • Quel oselín dal bosch
  • Serenáda
  • Sui monti fioccano
  • Su la più alta cima
  • Sul ciastél de Mirabél
  • Sul cappello che noi portiamo
  • Sul ponte di Bassano
  • Tanti ghe n'è
  • Valsugána
  • Varda la luna
  • Vuoi tu venire in Mérica
  • Note

    La "Società degli Studenti Trentini" ricorda con una lapide affissa in via Belenzani a Trento, i soci caduti per la redenzione:

    Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa, Giulio Avancini, Guido Bettinazzi, Giovanni Briani, Ezio Bonfioli, Carlo Ciurcenthaler, Remo Galvagni, Mario Garbari, Federico Guella, Mario Maddalena, Vittorio Manfrini, Giulio Micheloni, Paolo Oss-Mazzurana, Guido Petri, Ernesto Paisser, Mario Perotti, Guido Poli, Mario Soini, Luigi Temani, Girolamo Tevini, Silvano Vois, Guido Zanoni, Mario Zuccoli.

    Montagna e Musica

    di Giuseppe Leonardi

    Come può il sentimento della montagna, con l'infinita diversità delle sue sfumature, assumere un'espressione musicale? E come, in effetti, le Immense Cattedrali della terra hanno ispirato i musicisti?

    Il filosofo Friedrich Hegel, vedendo le montagne, scrisse semplicemente:

    - Ciò è! Le ossa della Terra sono là, concrete immobili dinnanzi a noi, e sembrano offrirsi in modo perfetto alla percezione dei nostri sensi e, attenzione prego, alla trasposizione nell'arte.

    Quale? - mi domando - Pittura, letteratura o musica? -

    La pittura: sembrerebbe la più adatta alla riproduzione; il pittore può trasportare in modo reale e concreto l'aspetto della montagna.

    La letteratura: lo scrittore trasforma colori e forme in parole ed invece di spandere sulla tela porpora, scrive la parola porpora. La musica: ma è possibile che alcuno sostenga che un sòl diesis di basso possa corrispondere alla fessura del Pedertích, o che una armonia di ritmi, di note e di timbri sia adatta a rappresentare lo strapiombante spigolo del Crozzón?

    Da questa scala di valori, sembrerebbe che l'arte della pittura sia la migliore a riprodurre la montagna, che poi venga la letteratura ed infine che la musica sia la meno adeguata.

    Ma non è così giacché si tratta non di rappresentare la montagna, ma di evocarla. E per dimostrare ciò mi aiuto con lo scrittore Dino Buzzati, che si domanda:

    - Di che colore? Si può trovare un aggettivo per definire la tinta della Schiara, che al sottoscritto, ogni volta che ci fa ritorno e la rivede, provoca un trasalimento interno, risollevando ricordi struggenti? No, un aggettivo preciso non esiste. Più che di un colore preciso, si tratta di una essenza, forse di una materia evanescente che dall'alba al tramonto assume i più strani riflessi, grigi, argentei, rosa, gialli, purpurei, viola, azzurri, seppia, eppure la montagna è sempre la stessa, così come una faccia umana non cambia anche se la pelle è pallida o bruciata. Inafferrabile è il colore delle Dolomiti, col quale i pittori, per quanto bravi, non ce l'hanno mai spuntata. Perché quando un artista è riuscito a fissare sulla tela la luce vera che in una cert'ora mandava la montagna, andava perso tuttavia tutto il resto: la struttura, i lineamenti, la somiglianza insomma; e il risultato si riduceva a un appunto coloristico, a un abbozzo insufficiente. E quando l'artista riusciva a prendere la somiglianza, a definire cioè la forma in modo persuasivo, il colore gli sfuggiva. -

    E a ciò aggiungo uno scheggione dell'ultimo pezzo scritto della sua vita:

    - Oggi che, quando salgo dalla pianura, e vedo apparire in fondo alla valle le cime amate, e all'improvviso risplendono al sole le pareti con quel loro colore indicibile, che nessuno è mai riuscito a descrivere bene, e balenano sulle ultime creste le candide cornici di ghiaccio, come miraggio irragiungibile. -

    Quindi Buzzati sostiene che né la pittura, né la letteratura sono strumenti validi per ritrarre e descrivere compiutamente la montagna.

    Il critico Bertrand Kempf sostiene invece che:

    - L'arte della musica ha trasmesso vibranti emozioni evocanti la montagna e che l'artista di fronte ad una montagna può scegliere tra due atteggiamenti: il primo è di precisione, verismo, studio sottile dei particolari, minuzia; il secondo è quello di tracciare sulla tela, sulla carta o sul pentagramma delle linee fluide, delle impressioni; può usare sia la descrizione, che l'evocazione.

    Infatti in pittura le opere più riuscite non sono realizzate in forma miniaturistica, ma al contrario disegnano montagne imprecise e stilizzate: così per Leonardo da Vinci nella "Vergine delle Rocce", per Benozzo Gozzoli nella "Madonna della Cintola", per Duccio di Boninsegna ne "L'Angelo annuncia la Resurrezione a Maria", per Albrecht Dürer ne "L'Eremo Fenedier" e per Peter Brügel il Vecchio nei "Cacciatori della Neve", dove il paesaggio doveva essere sufficiente a rivelare ciò che esso suscita nell'animo. -

    Così negli anni 1960/80 ha affascinato la leggerezza diafana e la vaghezza meditativa dell'arte dell'eclettico Paul Gayet-Tancréde de Samivél, che la espresse spoglia e irreale, per trasmettere emozioni legate alla tranquillità e alla luminosità del mondo alpino, e per esprimere il rispetto e l'amore per la natura e la montagna.

    Altri critici sostengono che la letteratura, anche se descrive meno, evoca meglio. Sir Leslie Stephen, alpinista estremamente abile, presidente dell'Alpine Club e redattore capo dell'Alpine Journal e il celebre pittore Loppé compirono insieme l'ascensione al Monte Bianco e riferirono ambedue la loro versione del paesaggio. Quella dello scrittore è la migliore. Ad esempio mediocri sono le analisi di un Victor Hugo; al contrario le immagini sfumate e tracciate da un Guido Rey, il poeta del Cervino, ci rendono più vivo l'aspetto delle cime. Il seguente aneddoto, citato giustamente dal Rey, sembra si adatti bene alla dimostrazione. Un cieco si era fatto issare sulla vetta del Cervino; quando le sue guide gli annunciarono che aveva raggiunto il punto culminante fu sconvolto da una grande gioia. E Rey conclude:

    - Avrei voluto vedere il paesaggio illuminato nei suoi poveri occhi spenti. La visione immateriale di questo cieco era forse più bella dello spettacolo di neve e roccia, giacché egli aveva nel suo spirito una vera vocazione della montagna. -

    Concludo con quanto scrisse ancora il Kempf:

    - La musica è fatta più per suggerire che per dipingere e questo crea la sua supremazia tra le arti; essa strappa l'individuo a sé stesso e lo ricolma di un fremito sacro. Lo trasporta in una terra promessa da cui ritorna trasfigurato. Il musicista vuole trasmettere all'ascoltatore le impressioni, le emozioni che egli ha provato di fronte alla natura. In questo campo il potere della musica è illimitato. "Una notte sul Monte Calvo", "Nelle steppe dell'Asia centrale", sono pezzi più espressivi di qualsiasi dipinto, anche se non sono imitativi, né descrittivi. Ludwig van Beethoven ha avuto cura di precisare, all'inizio della "Sinfonia pastorale", che essa era più espressione di sentimenti che una pittura: "Mehr Ausdrück...als Mahlerei". -

    L'ascolto di questi temi, a me, ha rivelato tutta una serie di immagini della montagna conosciuta e praticata. É musica che, dal contesto minerale delle altitudini, delle grandi pareti, delle vedrette, dei ghiacciai, mi trasporta nell'aura musicale delle vette.

    George Sand pretendeva attraverso le sonorità della "Sinfonia pastorale" di vedere apparire, come in un miraggio, un paesaggio montuoso dell'Engadína, mentre l'opera evoca più similmente la foresta viennese che l'ha direttamente ispirata a Beethoven.

    Così certi suoni, certi temi hanno risvegliato in me in occasione di vari concerti miraggi indelebilmente uniti alla montagna: der Hirt an den Felsen di Franz Peter Schubert; Ouverture del Guglielmo Tell di Giacomo Rossini; la Sinfonia fantastica di Hector Berlioz; la Valchiria e il Tristano ed Isotta di Richard Wagner; eine Alpensinfonie di Richard Strauß, ed infine il film Fantasia della Walt Disney Pictures con musiche di Ludwig van Beethoven, la Sinfonia n. 6 Pastorale (in 5 tempi), e di Modest Petrovic Mussorgskij, il poema sinfonico Una notte sul Monte Calvo.

    Arte e natura, musica e montagna: grandi temi, una relazione tra due mondi, tra due avventure dello spirito che coinvolgono la voglia del Bergvagabund, escursionista alpino alla ricerca di montagne e di emozioni.

    Antesignano dello spirito di conquista nel segno dell'arte, è stato lo spirito di Emile Javelle, un giovane irrequieto di Basilea, fra i più istruiti della Svizzera e insegnante di letteratura francese a Vevey. Il Monte Bianco riempie i suoi sogni e legge gli scritti del primo salitore Horace Bénédict de Saussure. Quindici anni durò la sua intensa delirante attività alpinistica, una continua sublimazione e consumazione di tutto sé stesso. Il male che lo minava già all'inizio della sua dedizione alla montagna, lo seguì e lo condusse a morte a soli 36 anni il 24 aprile 1883. Alpinista fino allo spasimo aveva lasciato un testamento in questa invocazione, contenuta nella relazione della sua prima ascensione alla Tour Noir:

    - Uomini, fratelli miei, che verrete quassù; anch'io, anima vivente e amante, ho visto una volta quello che vedete voi; anch'io ho palpitato d'emozione contemplandone la misteriosa bellezza... Oh! voi che ancora godete della luce del sole, pronunciate il mio nome; fatemi rivivere per un istante nel vostro pensiero! Rocce, voi che esisterete per tanto tempo, lasciate durare questo ricordo di me quanto più a lungo possibile!. -

    Questo suo testamento spirituale ebbe due esecutori: lo scrittore svizzero Charles Gos e Andrè de Ribaupierre, che suonò sulla vetta del Cervino la Ciaccona* di Bach. L'eco riprese e rimbalzò il nome di Javelle di roccia in roccia, di parete in parete, di guglia in guglia, fino alle cime più lontane e diafane della grande catena alpina.

    La prima volta della musica nelle Dolomiti, fu per me, l'11 luglio 1987 col Concerto del Centenario per onorare i cent'anni della prima salita dello studente bavarese Georg Winkler sulla torre orientale del Vajolét, che prenderà il nome di Torre Winkler: Ciampedié in concért, la meravigliosa terrazza al cospetto del Catinaccio, ultima propaggine orientale della lunga e spettinata cresta delle Cigolàde. L'Orchestra Cameràta Musicale Padana (10 violini, 4 viole, 2 violoncelli, 2 contrabassi, 3 trombe, 2 oboi, 1 fagotto, 1 timpano) e il Coro Euridìge Bologna (30 elementi) si esibirono in concerto a duemila metri con alle spalle lo scenario dolomitico dei Dirúpi di Larséch del Rosengárden. Il direttore Pierpaolo Scattolín diresse musiche di: Johann Sebastian Bach, di Antonio Vivaldi, di Georg Friedrich Händel.

    La seconda volta fu per me nel luglio del 1990. Nella conca del Lago Coldài, rigorosamente in tight come se si trovassero al Conservatorio, gli orchestrali del Petrónius Brass Ensemble di Bologna eseguì brani di Johann Strauß, Georg Friedrich Händel, Johann Sebastian Bach e Gustave Cherpentier. La proposta di realizzare un vero concerto sinfonico tra le crode era nata nella Sezione Velio Soldan di Pieve di Soglio. C'era mestizia nei volti presenti quel 23 luglio, quando si volle ricordare Eliana De Zordo, figlia del gestore del rifugio Coldài, scomparsa durante un tentativo di scalata in Patagónia.

    La terza volta fu il 26 luglio 1992 sulle sponde del laghetto del Soràpiss, accanto al rifugio Vandelli, per interessamento di Carla Ballancin del Cai di Pieve di Solìgo. Quel meraviglioso anfiteatro naturale, dotato di un'acustica straordinaria, ha reso ancora più possenti le esecuzioni dell'Orchestra dell'Accademia di Feltre e della Corale Barbisàno, composta da una cinquantina di elementi. Fummo tutti presi da commozione per il suggestivo Signore delle cime di Bepi De Marzi e per il gran finale con il Gloria di Antonio Vivaldi.

    La quarta volta fu il 17 luglio 1994 nei pressi del laghetto della Croda da Lago, vicino al rifugio Palmiéri; vari solisti si sono dati appuntamento al cospetto delle Dolomiti che circondano Cortina formando per l'occasione un'orchestra battezzata Dolomia. Ha partecipato anche il Coro dei Laghi, proveniente dalla valle di Revine. Nel raccoglimento, abbiamo ascoltato brani musicali di Joseph Haydn, Jules Émile Fréderic Massenet, Gustav Cherpentier e Richard Wagner.

    La quinta volta è stato sabato 1 luglio 1995 ai Brentéi, nell'alta val Brenta dove si è svolta l'apertura della manifestazione estiva 1995 denominata I suoni delle Dolomiti, ideata e promossa dall'APT provinciale di Trento. Al cospetto della parete di NE del Crozzón grande è stata la suggestione della musica sugli oltre trecento alpinisti saliti lassù e che si sono trovati riuniti con musicisti, critici e studiosi, accomunati da un'antica passione: camminare e sostare, fare e ascoltare musica. Mauro Loguercio, violinista solista di estrema chiarezza e profondità ha suonato la Ciaccona di Johann Sebastian Bach ed il possente Coro della SOSAT ha tenuto un concerto di "cante" di montagna.

    Il giorno dopo mi sono offerto di accompagnare spontaneamente il Loguercio dal rifugio ai Brentéi al Sella-Tuckett, lungo il sentiero SOSAT, che abbiamo percorso nel silenzio delle crode. Giunti ai piedi del Castelletto Inferiore abbiamo pranzato nel rifugio e fatto una siesta sulla terrazza a sbellicarci dalle risa, scherzando a crepa pelle sul quel tipo ameno e patetico di ricercatrice universitaria di ermeneutica, che il giorno prima, assieme agli altri critici, intrattenne per oltre un'ora prima del concerto oltre trecento persone, dicendo fra l'altro che il punto d'incontro tra musica e montagna si realizza alla fine nell'operare, nel fare, fare musica e montagna e poi, terrorizzata per la discesa a piedi in val Asinélla, è stata fatta scendere con l'elicottero della Elicampiglio.

    Dopo il concerto ai Brentéi, mi sono accompagnato ai Suoni delle Dolomiti lungo altre valli, al cospetto di altre cattedrali dolomitiche, nell'intimità di altri rifugi, come suggeriva il programma durato due mesi.

    Peccato che venerdì 18 agosto, le guide incaricate, autentiche pusillanimi, abbiano fermato il violinista svizzero Paul Giger in val Nambrón, per quattro nuvole in fuga ed una sospetta pioggia, che non è caduta. Un gruppo di ecursionisti lombardi ha ovviato al mancato concerto al rifugio di val d'Amola, con una propria performance canora, accompaganata da un simpatico chitarrista, del tipo Bergwanderer.

    É stato riprogrammato dall'APT capofila del Trentino per l'estate 1996 il festival I Suoni delle Dolomiti, con l'inserimento della novità dei Trekking musicali da rifugio a rifugio in compagnia dei musicisti.

    Ouverture a Madonna di Campiglio sabato 6 luglio con un convegno internazionale sul rapporto tra musica e montagna e con un concerto del Coro della SAT, domenica 7 luglio al rifugio Sella-Tuckett, ai piedi del Castelletto Inferiore, il talamo delle Dolomiti di Brenta.

    * Ciaccona: composizione musicale per danza, a ritmo ternario moderatamente mosso, in voga nei secoli XVI e XVII; è celebre quella di Bach, per violino.

    Il re di Genua

    di Giuseppe Leonardi

    Giusti cent'anni fa, nel 1896, moriva il re di Genua.

    Da 32 anni (1864) erano state conquistate le cime dell'Adaméllo (Julius von Pajer e Giovanni Catturáni) e della Presanélla (Douglas William Freshfield, Beachcroft, Walker, Francois Devouassoud e Bortolo Delpero).

    Da 22 anni (1874) era stata costruita dalla SAT la casína di Bedolé (chiamata dai teutoni die Hütte des südtiróler Alpenvereins), poi intitolata a Nepomucéno Bolognini, socio fondatore.

    Da 21 anni (1875) il Bolognini aveva scritto:

    - la coda del ghiacciaio della Lóbbia viene quasi a toccare quella del Mandrón e la Lóbbia Bassa, da essa circondata, erge nel mezzo la cima nuda e brulla. -

    Da 18 anni (1878) era funzionante il rifugio Mandrón eretto dalla sezione di Lipsia del Club Alpino tedesco:

    - costrutto di massi di granito sovrapposti, esso si compone di una cucina e di due stanze, una per i viaggiatori ed una per le signore, ed è fornito di letti e stoviglie per una numerosa comitiva. -*

    Da un anno (1895) accanto al rifugio Mandrón funzionava l'albergo-rifugio Lepziger Hütte, dotato di ogni confort.

    Già dal quel 1896, anno di lutto per i montanari abitatori, la val Genua era una celebrata località alpina per merito degli scritti dell'ufficiale cartografo boemo von Pajer e dell'esploratore londinese Freshfield, e per merito anche delle fotografie di Giovanni Battista Unterveger che la risalì (1875) fotografando, spingendosi sui ghiacciai contermini, e portando seco una tenda trasportabile che gli serviva da camerín oscuro.

    Fu un re di cui molti ignoreranno persino l'esistenza e che pur tuttavia fu, com'egli medesimo ci teneva a dire, il più alto re d'Europa. Sicuro, perché, come scrisse allora Bruno Speráni* abitava:

    - a 4000 e tanti piedi sul livello del mare alla Cascina Ragáda in Val di Genova, che è uno dei più strani e caratteristici luoghi alpestri, con orridi specchi alternati da piani erbosi splendidamente verdi, ornati di piante rigogliose: e questi contrasti formano la sua affascinante e rinomata bellezza. -

    Nei suoi tempi Luigi Fantóma, nato a Strémbo il 14 aprile 1819, di professione taglialegna, arrivò più volte a Tione, capoluogo del distretto, portandovi in trofeo gli orsi, che egli aveva ucciso, sia maschi, che femmine e orsetti. E poiché la cassa provinciale pagava al cacciatore la somma di 15 bávare per un orso maschio e 20 per una femmina, egli incassava ogni anno un bel gruzzolo (il cambio dell'epoca era di lire-oro 4,50). Perfino sul passaporto e sul porto d'armi le autorità politiche avevano annotato il titolo di re di Genova, col quale era conosciuto generalmente. Inoltre egli si dichiarava, con tutta franchezza, il primo cacciatore d'Europa. Poiché se altri lo poteva uguagliare per abilità, nessuno ebbe l'avventura di uccidere tanta selvaggina pregiata. Nel febbraio 1882 a Milano il pittore Vespasiano Bignámi gli fece il ritratto e così lo descrisse: - a 63 anni d'età era di statura giusta, capelli e baffi corti e grigi, l'occhio piccolo, vivo, in dentro; i suoi lineamenti sono decisi: ha l'aspetto sano, il piglio franco e gentile, un'aria di soddisfazione; ha la gola grossa dal lato destro e la voce se ne risente; restarono famosi il suo piccolo cannocchiale da campagna di forma primitiva, nonché un vecchio portafoglio legato da una cordicella, dal quale traeva le carte necessarie per confermare le sue narrazioni. -

    Non ebbe figli dalla moglie Giovanna, la bionda regina; ed egli allora adottò un orsacchiotto, catturato appena nato, che colmava di carezze e che affidava alle cure di Giovanna durante il tempo in cui peregrinava per la caccia. Ma una sera, di ritorno da una battuta, andò subito (com'era suo costume) a far visita al suo Tuch (così lo aveva chiamato) e lo trovò morto, strozzato dalla funicella che lo legava al palo. Ebbe uno scoppio di collera selvaggia che passò come il temporale sul capo, allora biondo, della sua Giovanna! Nel 1896, l'ultimo della sua vita, fu fotografato da Enrico Unterveger (figlio) davanti alla sua residenza in Genua coll'inseparabile primitivo cannocchiale, assieme alla sua Giovanna. Il fotografo confidò poi allo Speráni che - il Fantóma, durante il tempo di posa, continuava col gomito destro a spingere indietro la moglie, volendo egli restare in primo piano, come si addiceva, difatti, ad un re, fosse pure della sola Val Genova. -

    Fiero del suo titolo, scolpì in epigrafe in prossimità della sua cascina a destra della strada, di fronte al rifugio albergo, sul cocuzzolo di un grosso masso, libero dall'erba,

    Lovigi
    F, re di
    Genova
    1852

    Morí, all'età di 77 anni, il giovedì 1 ottobre 1896 alle ore 9 di sera nella sua cascina di Ragáda, distrutta da un incendio alla fine degli anni 1920.

    Dopo la morte si trovarono fra le sue carte le ricevute dei compratori di selvaggina e si potè fare un sommario inventario delle stragi da lui compiute in val Genua: 50 orsi e quai 700 camosci, oltre ad un numero sterminato di pernici, galli cedroni ed altri animali.

    Fu un povero re, che per sete di denaro, assecondato dalla legge del governo absburgico, praticò una caccia distruttiva per la fauna nobile che arrecava, è ben vero, qualche danno ai pastori di allora.

    Non si meravigli il lettore che a ricordarlo sia un vecchio irriducibile ambientalista. Questi sa che la storia lo costringe ad accettare anche i misfatti aberranti, ma pure lo lascia libero di affermare che non li condivide. Un vecchio saggio ha scritto che chi vuole, cancellare dalla memoria i delitti del passato, è destinato a ripeterli.

    Dalla lettura di notizie assunte e pubblicate dallo studioso di faunistica Agostino Bonómi* si può sapere:

    - che il numero degli Orsi uccisi nel Trentino negli ultimi tre quarti di secolo (1825-1900) ammontava a circa 200, cifra abbastanza rilevante, se si pensa alla zona alquanto angusta in cui viveva l'animale;

    - che nel Trentino il cacciatore percepiva dall'autorità un premio di 30 fiorini per un orso maschio e di 40 per una femmina, come da decreto aulico vigente fino al 1918;

    - che l'orso agli inizi del 1800 era ancora padrone incontrastato delle nostre regioni e che la guerra accanita, senza soste che l'uomo mosse al plantigrado giunse a limitarne assai il numero e a confinarlo entro poche e remote località.

    - che la caccia al povero orso fu continuata con alacrità anche sotto il Regno d'Italia e se non avesse a subentrare un divieto assoluto e prolungato di caccia, o meglio l'erezione del Gruppo di Brenta, locus classicus, e ultimo rifugio della fiera, in Parco di Protezione, in un tempo non lontano potremmo elencare questa bella specie di selvaggina fra quelle estinte, come già avvenuto per il lupo, la lince,il cervo, lo stambecco. Il centro di diffusione degli orsi è oggi (leggasi 1935) la Val di Tovel, donde si spargono poi in Val di Sole, Rendéna, Giudicarie e Val di Genova, poi per il Tonale in Valcamonica. -

    A cent'anni dalla morte del re, in questo 1996, nelle anguste tane sprimacciate di foglie e di erbe secche, in non sturbato rifugio fra la val di Tovel e lo Sporeggio, resistono gli ultimi 4 o 5 esemplari ancora in libertà di orso formicario, "Ursus arctos".

    Si sa che quando fiutano la vicinanza dell'uomo, quatti, quatti, spulezzano via tra il folto della selva e stanno rimpiattati di giorno nei luoghi più inospiti ed inaccessi.

    Invece, ad oriente, nell'altra sponda nonesa, domenica 14 aprile 1996, è stata la prima all'aperto per Cora e Cleo, le due piccole orsacchiotte nate nel recinto del Santuario di San Romedio nella valle di Sanzeno.

    Curiosità ed entusiasmo ha destato la prima apparizione pubblica, dopo il parto avvenuto circa alla metà di gennaio. Visibilmente emozionati sono apparsi pure i Frati dell'antico romitorio.

    - Sono anni che non si registrano nascite tra gli orsi liberi, questo sì che sarebbe un grosso evento - ha commentato il veterinario Alessandro Mosna.

    La salvaguardia dell'orso bruno trentino è contenuta in una mozione del Consiglio centrale del CAI, approvata all'unanimità il 2 marzo 1996 con questo comunicato che riporto integralmente:

    "Il Consiglio centrale del Club alpino italiano riunito in Milano il 2 marzo 1996, rilevato il pericolo di estinzione dell'Orso Bruno Trentino, presa visione della mozione approvata dal Convegno delle Sezioni Tosco-Emiliane-Romagnole del Cai il 12 novembre 1995 ed alla Società Alpinisti Tridentini il 7 luglio 1995, inoltrata alla Provincia Autonoma di Trento il 15 gennaio 1996 avente per oggetto il rinsanguamento di tale popolazione nel Parco Naturale Adamello-Brenta, auspica che si dia concreta attuazione a tutte le iniziative aventi per obiettivo la salvaguardia della specie."

    Altra notizia, riportata dalla stampa con grande risalto, è recente (Alto Adige 12 maggio 1996) e sensazionale: a Sesto Pusteria sono due gli orsi avvistati e che girano nel cuore delle Dolomiti di Sesto. Heinrich Aukenthaler, direttore dell'Associazione Cacciatori dell'Alto Adige, è soddisfatto, persino emozionato ed ha affermato:

    - Ce lo aspettavamo, già lo scorso anno abbiamo iniziato a tenere gli occhi aperti e a dare precise istruzioni ai nostri guardiacaccia; siamo tutti contenti del ritorno dell'orso. L'arrivo del grande plantigrado, l'Orso Bruno, è stato salutato da tutti noi come un evento di straordinario interesse faunistico e culturale e la grande differenza rispetto al passato e che stavolta i cacciatori, assieme alle associazioni ambientaliste, possono rappresentare un ruolo davvero positivo nella difesa della specie, come già accaduto in Carinzia. Considero il ritorno dell'orso il segno importante di una riconciliazione con la natura. Per quanto ci riguarda quindi faremo il possibile per dare il massimo dell'informazione ai nostri iscritti e per sensibilizzare la popolazione. -

    Quindi un ritorno gradito per molti fra chi abita ad est della regione Trentino-Alto Adige. E all'ovest? Vigiarùm!

    Bibliografia

    L'angolo della poesia: Grazia Binelli

    Versi di Pinzolo

    La poesia dialettale giudicariese ci porta un nome nuovo, di grande intensità e forza. Gli accenti di "buciàti" (ciottoli) sono quelli di Pinzolo, già tanto vivaci e suasivi nelle poesie e nelle commedie dialettali di Carmelo Binelli: un "parlar pinzolèr" che Ugo Bonapace ha fissato nella sua "raccolta" del 1985, ma che esterna tutta la sua duttile potenzialità soprattutto nella voce dei poeti. Grazia Binelli viene da una tipica famiglia di Pinzolo. Le vicende familiari l'hanno portata a Faenza, in Val Camonica, a Torbole ed infine a Rovereto dove abita dal 1987. Il suo impegno sociale e di lavoro si è dipanato come maestra di scuola elementare in varie sedi, acuendo ed affinando il suo spirito di osservazione e la sua squisita sensibilità. Dopo i suoi primi tentativi con la penna a diciott'anni, ritrova la poesia negli anni '90 "quando - dice lei stessa - ho avuto più tempo per ascoltarmi...". Ecco l'essenzialità delle sue composizioni liriche: "sapersi ascoltare"! E Grazia Binelli ode ed ascolta in sé le voci delle sue montagne, della natura, delle cose, delle persone, del cuore, voci insistenti che le portano alle labbra emozioni e sentimenti da esprimere mediante quel linguaggio dialettale che le aveva aperto le vie di comunicazione negli anni della fanciullezza e dell'adolescenza. Nella raccolta di liriche - molte delle quali già premiate a livello nazionale - trova anche l'espressione in lingua italiana, ma la "Grazia da Pinzöl" è molto più vera, più convinta e più convincente di quelle espressioni in cui il vocabolo dialettale diventa immagine incisiva edaccento suadente ed indimenticabile. E così "buciàti" non ha niente a che fare coi "ciottoli", "cun tèc" non vale certo "con te", "sgulàr dalónc", è diverso da "volare lontano", "póstuli" è assai lontano da "impronte", "na càspa di sul" è più incisiva di "una manciata di sole", "na grignàda" non trova riscontro in "una risata", "e làsu ca `l vént - al me spatücia - `l cör - par rubàrghi - al tò saór" quanto è più suasivo di "e lascia che il vento - mi azzuffi - il cuore - per rubargli - il tuo sapore"... e gli esempi potrebbero correre all'infinito.

    L'Autore sembra tornare - da lontano - alle sue origini, alla sua terra, alla sua gente. Precisi, delicati quadretti d'un mondo certamente legato al passato, ma in cui traspare la piena attualità dei sentimenti umani che non hanno tempo perché eterni come eterno è il cuore dell'uomo.

    La conclusione di queste righe non può essere che la stessa con cui l'Autore ha chiuso il suo volume: "Vurìa aver lasà - 'n fiór - na mìgula di sul - a chi ca - m'à `ncuntrà".

    Per noi un felice e piacevole incontro.

    Mario Antolini Musón

    (da Vita Trentina del 14 aprile 1996)

    Grazia Binelli, buciàti. Poesie in dialetto di Pinzolo. Editrice Rendena, Tione, 1996. Collana di poesia "Gli avornielli". Formato 12x22. Pagine 100. Lire 15.000.

    Ciao Casteléto!

    di Grazia Binelli
    Slancià
    cumi `na tór
    ti tài l' cél
    cui tö spìgui.
    `N tòc dal mé cör
    al sa `mpagnà
    lasù ...
    `Ntali nòt di luna
    al ràmpaga
    suléngu
    su par i tö caminéti
    sa li tö plàchi...
    Al canta
    sa li céngi
    cun li s-ciablìni
    chi à fàt al nìu
    `n li tö crèpi.
    `Na làgrama di nùstalgìa
    la slüs
    su `nti `n fiurilìn
    scundù tra dö sàs.
    Ciao Casteléto!
    Tè e mè
    - cròz cu `nti `n anima -
    in stù cél
    màsa zilèst
    ca l'inurbìs
    al cör.

    Conosciuto da vicino

    di Giuseppe Leonardi

    "...E se la vita continua" è l'ultimo tiro di corda narrativo offerto da Cesare Maestri, presentato in chiusura alla mostra del libro, collegata al Filmfestival montagna esplorazione avventura "Città di Trento" già entrato, a buon diritto, nella pubblicistica di montagna. Sul geniale sestogradista (questa qualifica gliel'ho data per primo nel 1970) ho scritto in varie occasioni, sempre documentandomi al punto che non so quanti siano coloro che hanno letto tutte le oltre quattrocento pagine de "La conquista del Çerro Torre: ritagli di stampa" (formato 30x21x3). Mai ho avuto rimproveri da chichessia e non cambierei una virgola, anche dopo la lettura della sua ultima fatica letteraria. Quattro giorni ho impiegato a leggerlo: con attenzione, calma e appuntandolo con decine di NB). Le duecentocinquanta pagine, impeccabili, potrebbero avere un sottotitolo: "La Saga dei Maestri, da Toni ragazzo del '98, a Carlotta campigliana doc". Nel libro scorre, pagina su pagina, la storia di cinque generazioni, narrata coi fatti in mano e con parole scritte che esplodono talvolta con la forza dei colpi di martello sui chiodi. Talvolta si dipana con un soave lirismo emotivo, in un condensato di verità storiche ed alpinistiche. Bene ha fatto l'Autore a non fare i nomi dei calunniatori, dei detrattori, degli invidiosi, ben conosciuti dagli addetti alla storia alpinistica internazionale, informando il lettore della zizzania che si coltiva nel mondo dell'alpinismo di punta.

    Personalmente debbo ringraziare il Cesare per avermi messo in ordine la sua vicenda affettiva, alpinistica, familiare e sociale e per avermi ricucito lo strappo provocato negli anni ruggenti della dissacrazione.

    Grazie.

    Perché fatti accennati, aneddoti riferiti, vicende sussurrate, avevano per me necessità di essere compulsate e assimilate nell'ordine storico e su di un documento indiscusso, perché tale ora resta nella mia biblioteca il libro. Mi compiaccio perché il Superman della Famiglia scavalcamontagne, divenuto sul campo e per l'investitura di un accademico il Ragno delle Dolomiti, ha saputo vivere per trentacinque anni al limite dell'impossibile alpinistico e prima di dirci definitivamente Ite missa est ha tessuto una Ragnatela di accadimenti che nella storia dell'alpinismo trentino, europeo ed extra, sono parte integrante dell'Alpinismo mondiale. E sono contento per quanto, verso la fine, ho letto "...Mi convinsi una volta di più di essere un uomo privilegiato che aveva vissuto la propria vita pienamente, senza mezze misure o tentennamenti...". Di ciò gliene dò pienamente atto. Se venissi pressato per salvare del Suo libro solamente tre righe, come un aforisma, sceglierei quelle frapposte nell'ultima sua vicenda esistenziale, che avrebbe stroncato le gambe a chiunque, con conseguenze fatali: "...Da sempre sapevo che sarebbe stato inutile cercare gli appigli oltre la lunghezza delle braccia...". E qui mi fermo, perché la Saga va assimilata, memorizzata, meditata anche quando scrive: "...E allora, soffrendo di un dolore sconosciuto, realizzi che la tua stagione è finita, che la vita cambierà completamente e che presto sarai dimenticato..."

    Io mi auguro invece che un regista della caratura di un Mario Brenta e che un produttore dotato di mezzi come la RAI, realizzi per il surnomato "Ragno delle Dolomiti" un documentario-verità da portare al Filmfestival di Trento, come accaduto in passato per: S.A.R. Luigi Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi, Patrik Berhault, Riccardo Cassin, Zeno Colò, Mauro Corona, Gino Daguin, Ardito Desio, Bruno Detassis, I Girardelli, Heinrich Harrer, Andreas (Anderl) Heckmair, Lynn Hill, Edmund Hillary, Andreas Hofer, Hans Kamerlander, Maurice e Katia Krafft, Georges Livanos Le Grec, Heinz Mariacher, Fratelli Pedrotti, Gaston Rebuffat, Celina Seghi, Alberto Tomba, Luis Trenker, Adolf Vallazza, Maurizio Zanolla Manolo. Il materiale cinematografico ed iconografico abbonda dappertutto, fuori che in "... E se la vita continua", dove tutto è affidato allo scritto, quasi che l'autore volesse non distrarre minimante il lettore. Ben fatto, Cesare.

    Cesare Maestri, ... E se la vita continua, Baldini & Castoldi Milano, Lire 24.000

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    Questa pagina e stata aggiornata: 29 giugno 1996
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