Dicevamo - nel numero di Pasqua - che "Rendena" giudicata inizialmente una pubblicazione riservata a pochi - quasi esclusiva - aveva invece rivelato, numero dopo numero, la sua vocazione altamente diffusiva, attenta cioè ad una cultura di valle quanto mai versatile ed adeguata alla molteplicità delle attese. E questo non possiamo che confermarlo!
Se poi - del periodico - ribadiamo la gratuità della sua distribuzione (chi desidera la rivista basta che ne faccia domanda all'Editrice), la sua apertura alle più svariate ed auspicate collaborazioni, la sua tiratura salita ormai - in pochi mesi - alle milleduecento copie per volta, e specialmente la sua assoluta libertà da influssi e condizionamenti ideologici, ci sentiamo di dire d'avere dato a una valle - non sempre corrisposta nelle sue richieste - il periodico che mancava.
In questa luce del resto, e con questa garanzia, anche Claudio Dallagiacoma (il prestigioso fotografo di tante edizioni storiche sulla nostra valle) ha accettato di onorarci del suo contributo con una rubrica fissa e personale - "L'obbiettivo" - rubrica che di volta in volta offrirà, d'una terra veramente privilegiata, le rarità e le preziosità più insospettate.
E questo perché tutti - valligiani ed ospiti - così spesso tentati di dimenticare (se non addirittura di cancellare) un passato glorioso nella prospettiva d'un futuro competitivo e redditizio, comprendano e facciano proprie con una cultura nuova - improrogabile - le parole ormai profetiche del grande Martin Heidegger: "Se nell'ansia innovativa, che pervade questo secolo, la revisione del nostro pensiero, del nostro modo d'agire, del nostro stesso corredo ambientale, non terrà geloso conto del retaggio lasciatoci dai secoli (o ai secoli sopravvissuto) ogni nostra realizzazione, anche la più riuscita, sarà destinata a finire quanto prima nell'effimero squallore di tutte le cose attuate senza un paziente, meditato, autentico amore".
Piergiorgio Motter - editore
di Tranquillo Giustina
Quando l'uomo non c'era
Stiamo vivendo un tempo inadatto a comprendere appieno la grandezza e la maestosità delle Ere geologiche. Coltiviamo una capacità mentale limitata alla fugacità delle cose, alla precarietà degli eventi, alla mutevolezza delle situazioni, alla quotidianità degli interessi, all'impazienza delle novità: una mentalità inabile a rivivere epoche di milioni d'anni durante le quali - in prospettive colossali - la Terra ora generava ora annientava montagne, valli, pianure, coste, distese acquatiche, con le loro vegetazioni e le loro faune. Vicende queste che, a tutt'oggi, rappresentano anche per gli studiosi una remota, spesso impervia, talora congetturata, il più delle volte inenarrabile storia. Inenarrabile nel senso che solo per sommi capi - e a tratti per ipotesi fragilissime - può essere raccontata. Più che raccontata, anzi, affidata alla preparazione culturale, all'attitudine ricettiva, all'ingegnosità immaginativa dell'ascoltatore. Una storia ad ogni modo - e in linea di massima - non disdegnata da quella fantasiosa infanzia ch'è la brama dell'uomo di conoscere il mistero della sua «cosmica dimora».
E per entrare subito nell'argomento - prima comunque di parlare dell'Era Glaciale (o Quaternaria) che determinò lo scavo e la formazione della Val Rendena - diciamo che, nell'arco dei suoi quattro miliardi di anni, la Terra fu più volte attanagliata da immani «glaciazioni» di cui, peraltro, mai saremo in grado di penetrare le esatte cause nè di arguire le possibili, o quanto meno presumibili, fasi conseguenti.
Un'epoca glaciale spaventosa dunque - assicurano gli studiosi - coinvolgente l'intero nostro pianeta avvenne già duemilatrecento milioni d'anni fa. Un'altra (ugualmente violenta e generale) seicentottanta milioni d'anni fa. Un'altra ancora quattrocentoventi milioni d'anni fa. Un'altra infine (dalle dimensioni e dalle modificazioni sempre catastrofiche) duecentottanta milioni d'anni fa, nel passaggio della terra dall'Era Primaria (o Paleozoica) all'Era Secondaria (o Mesozoica). Epoche glaciali comunque lontane, misteriose, difficili - ancorché scritte nei reperti rocciosi - da ricostruire.
Più accessibile invece, alla nostra curiosità e alla nostra indagine, è l'ultima delle grandi glaciazioni (la più breve oltre tutto): quella che passa sotto il nome di Era Quaternaria, o anche Era dell'Uomo.
Fu un'Era divisa in due importanti e complessi periodi: il periodo glaciale vero e proprio (o Pleistocene) con masse di ghiaccio alte centinaia di metri che, in vaste calotte, scendevano dal nord ricoprendo sterminate zone dell'emisfero settentrionale; e il periodo alluvionale (o Olocene) con scioglimenti disastrosi di ghiacci e travolgenti mutazioni delle superfici terrestri dovute all'azione dell'acqua.
Nel corso di tale Era (durata quasi due milioni di anni) i continenti assunsero le collocazioni e le forme attuali. L'Atlantide si spezzò e spofondò. L'area marina di conseguenza aumentò modificando l'umidità dell'aria. Finché a poco a poco (per ragioni non ancora sufficientemente chiarite) la Terra subì un raffreddamento polare. Monti e pianure dal nord fino alle latitudini mediterranee si ricoprirono di elevate coltri di nevi e di ghiacci che, per l'intenso gelo, più non si scioglievano ad alimentare i mari. Dai mari, abbassatisi sensibilmente, plaghe e fondali emergevano consolidando - una volta innevati - la glaciazione in atto.
Fu - come s'è detto - l'Era dell'arcana comparsa dell'uomo. Ma al tempo stesso dell'estinzione di molte specie di mastodonti, e della trasmigrazione in massa di altri grossi animali verso zone più calde.
Venuta meno nelle nostre terre una certa flora tropicale, fece la sua apparizione - nei periodi interglaciali - una flora nuova, quella che avrebbe alimentato la nuova vita animale (vita umana compresa). L'intera regione italiana - uscita dall'acqua - pervenne alla struttura attuale. Le Alpi in generale e le Dolomiti in particolare - cessati gli ultimi impulsi di sollevamento - entrarono nella fase morfologica più vicina a noi, e quindi più esplicabile e in certi punti ancor oggi visibile, mentre il plutone dell'Adamello da una parte ed il Gruppo di Brenta all'altra (a seconda della consistenza delle loro rocce) contenevano ed accompagnavano l'onda continua dei ghiacciai nell'incisione sempre più ampia e più profonda di quella che sarebbe diventata la Val Rendena.
L'Era Quaternaria
Ciò che possiamo innanzituttodire è che la Val Rendena vanta una sua forma tutta particolare. Una forma dovuta agli eccezionali massicci che la fiancheggiano. Alla netta (ed inconsueta rispetto ad altre valli) direzione nord sud. Ai diversi ed evidenti tipi di roccia del suo scavo. E naturalmente alle ininterrotte glaciazioni che furono all'origine di essa. Una forma longitudinale inconfondibile. Venutasi a creare soprattutto durante l'ultimo milione e mezzo d'anni. Nel corso di quell'Era Quaternaria che predispose ed approntò all'uomo - «alla fine giunto» - le condizioni ambientali più confacenti ed idonee.
Non è certo cosa semplice - nè agevole - spiegare, in un contenuto articolo, ciò che fu l'Era Quaternaria. Fu comunque (a dirla in maniera elementare) l'Era in cui per centinaia di migliaia d'anni un notevolissimo abbassamento della temperatura del nostro emisfero causò - attraverso una serie di lente e graduali alternanze - la comparsa di fenomeni glaciali ed alluvionali dalle dimensioni tali da scavare, nelle vive e compatte rocce, impressionanti valli.
Ben cinque furono - nella lunga Era Quaternaria - le sterminate espansioni di ghiacci, ogni volta seguite da un'epoca inesorabilmente e disastrosamente alluvionale. Ebbene a queste espansioni furono dati i nomi di alcuni fiumi e versanti centroeuropei della catena alpina. E ciò perché lungo quegli scavi fu più agevole esaminare i diversi effetti glaciali causati che - per le diverse posizioni vallive - lasciarono segni specifici, inconfondibili più su un luogo che su un altro.
Si ebbero dunque - perlomeno in quel milione d'anni che comprende la seconda metà dell'Era Quaternaria - le seguenti interminabili fasi:
Fu dopo questa ultima glaciazione che si scatenò, violento e travolgente, il periodo alluvionale (o olocenico) di cui parleremo più avanti.
Ma per tornare alle glaciazioni (l'ultima delle quali - quella würmiana - scolpita in stupendi gradoni sui versanti rocciosi della nostra valle) dobbiamo dapprima ricordare che i ghiacci in parola giunsero almeno fino alla metà del 46° parallelo, cioè dalla calotta polare fino all'attuale zona dei laghi alpini. Il lago di Garda, in realtà, altro non era che l'immane scavo operato dalla lingua terminale del ghiacciaio atesino con il visibile accumulo, a sud di esso, di vere e proprie colline di materiale morenico. Analogamente quindi possiamo immaginare come dai così detti «circhi glaciali» delle nostre montagne - partissero giganteschi (con un'altezza di varie centinaria di metri) i ghiacciai del Gruppo di Brenta, della Presanella, e dell'Adamello, i quali - uniti al ghiacciaio dell'Alto Adige che allora scavalcava la «sella di Campiglio» - scendevano verso le Giudicarie.
Certo è che un così colossale ghiacciaio (la Rendena però non era ancora scavata e profonda com'è attualmente) procedeva, a quel tempo, inarrestabile lungo la linea Verdesina - Breguzzo - Roncone - Condino fino al Lago d'Idro e oltre.
Solo con l'ultimo periodo - quello tardowürmiano - l'ormai indebolito ghiacciaio rendenese andò man mano diminuendo di larghezza, di peso, e di pressione, incidendo un solco sempre più stretto e lento nel suo preciso alveo. Al punto che - dopo i centomila anni, circa, della glaciazione würmiana - la fiumana glaciale non fu più in grado di scavalcare la barriera porfirica ergentesi sulla traiettoria Villa - Breguzzo, e deviò verso est entrando nello scavo (da altri ghiacciai tracciato) diretto alle Giudicarie Esteriori.
La Rendena insomma, che da principio era semplicemente la linea di congiunzione di due ammassi montuosi (Adamello e Gruppo di Brenta si toccavano) divenne - ad opera delle glaciazioni dell'Era Quaternaria - il canale di sfogo di tutti i ghiacciai e di tutti i torrenti alluvionali dei due massici. Ghiacciai e torrenti i quali - prima di immettersi nella nostra valle - già avevano operato in proprio nello scavo di valli minori come la Valle di Campiglio, la Val Nambrone, la Val Genova, la Val di Borzago, la Val di San Valentino, a dire le più note soltanto.
Il teatro glaciale e lo scavo
L'erosione dunque e il modellamento della nostra Rendena (quale oggi la vediamo) fu opera esclusiva di quel colossale plastico fiume di ghiaccio che, scavalcando il passo di Carlo Magno (la Val Meledrio ancora non c'era), scendeva con violenza e peso inauditi - sino a novecento chilogrammi per metro cubo - ed andava a sciogliersi oltre le Giudicarie Interiori, sotto il limite di persistenza delle nevi, con una velocità che poteva raggiungere anche il metro e mezzo al giorno.
Grazie all'apporto continuo dei «circhi glaciali» di Nambino, del Monte Spinale, di Val Brenta, di Valagola, del Monte Ritorto, del Monte Nambrone, esso avanzava tra il Gruppo di Brenta e l'Adamello compiendo inesorabile la sua opera di scavo e di rimozione, sgretolando la roccia su cui scorreva e depositandola - in ciotoli, in detriti, in sabbie, in polvere argillosa - parte lungo il tragitto e parte allo sbocco terminale. Accumuli di materiali che - sotto forma di morene laterali, o mediane, o di fondo - non solo accompagnarono ogni avanzamento del ghiacciaio, ogni sua deviazione, ed ogni suo scontro con i ghiacciai laterali, ma rimasero a segnare e a narrare in ammassi enormi di terra e di pietrame le grandiose e possenti vicende dell'Era Quaternaria.
Giunta dopo Mavignola la travolgente colata di ghiaccio si scontrava con quella altrettanto veemente di Val Nambrone, unita alla quale (per la poderosa spinta ad est) avrebbe dovuto abbattersi contro il Doss del Sabiòn attaccandolo e lentamente smantellandolo.
Il Doss del Sabbiòn, invece, fu per il ghiacciaio (dalla glaciazione Donau a quella di Würm) un ostacololo inaggredibile. Nella sua struttura interna infatti (e anche superficiale, tolte alcune sovrastrutture del «Cristallino Antico») esso non era formato da dolomite o comunque da roccia calcarea - come si sarebbe potuto credere - bensì da graniti, da granodioriti, da micascisti, e da filladi varie, e quindi apparteneva (nella sua stessa genesi plutonica) all'Adamello. Sicché il ghiacciaio di Campiglio - Nambrone, dopo millenni di scavalcamento del Doss (ancora tutt'uno con l'insieme Adamello - Presanella) fu costretto ad incidersi un passaggio, anzi una valle tra il Doss e l'Adamello-Presanella, sboccando in quello sterminato profondo scavo prodotto dallo scontro del ghiacciaio della Val Genova con le masse glaciali scivolanti dal Gruppo di Brenta. Si trattava d'uno scontro - in atto da centinaia di migliaia d'anni - che per l'impetuosità del ghiacciaio di Val Genova costringeva i ghiacci del Brenta e di Campiglio verso il versante est (Pinzolo, Vadaione, Giustino, Massimeno), tanto che il tracciato della valle venne a subire in quel punto - oltre a una notevole curvatura - un visibile dissestamento, accentuato dai ghiacci rovinanti dal Bregn de l'Ors e dal Palon dei Mughi.
A rimettere il ghiacciaio in sesto (ovvero sia in direzione sud-sudovest) furono le discese travolgenti di ghiaccio dal Monte Cimbriolo e dal Monte Toff (d'un altezza - a quell'epoca - almeno doppia di quella attuale). Dopo di che il gigantesco ghiacciaio «collettore» proseguiva, fino al punto dove ora c'è Pelugo, senza rilevanti spinte deviatrici.
Solo a Pelugo i copiosi ghiacci piombanti dalla Val di Borzago sulla Rendena causarono un lieve spostamento del ghiacciaio rendenese verso est. Pochi chilometri dopo c'era l'impatto con l'altro imponente ghiacciaio, della Val di San Valentino; impatto che però non determinò alcuna modificazione di percorso essendo il versante est un vero sbarramento, un autentico contrafforte di roccia porfirica che per nulla cedette alle pressioni glaciali. Fu anzi quel costone inattaccabile a costringere praticamente il ghiacciaio - allora altissimo - a infilare e scavalcare le alture di Verdesina, Pozze Buse, e Predamora, per ritrovarsi a scendere dove ora c'è Roncone, proseguendo quanto meno fino al Lago d'Idro.
Solo nell'ultimo periodo della glaciazione würmiana il ghiacciaio rendenese, diminuito di massa e di forza, non riuscì più a salire verso Verdesina (e i costoni di Breguzzo), ma ripiegò per la stretta valle che l'acqua del suo torrente glaciale aveva - nelle lunghe interglaciazioni - già aperto verso Ponte Pià, il Limarò, e le Sarche.
Fu poi l'ampio e ripido versante da Monte Altissimo a Cima Sèra, con la spinta dei suoi impetuosi molteplici ghiacciai, a costringere (come abbiamo detto) l'indebolito ghiacciaio della Rendena verso est, segnando in pratica la fine della nostra valle e l'inizio delle Giudicarie Esteriori scavate fino alle Sarche e oltre dai maestosi e sempre alimentati ghiacciai della Val d'Algone, della Val d'Ambiez, e delle molte circostanti valli.
Il tempo alluvionale
Cessata - con i quasi centomila anni della fase würmiana (cifre, ancorché generiche, sempre indicative!) - l'Era Quaternaria propriamente detta, incominciò anche per la Val Rendena (intorno agli undicimila anni avanti Cristo) il tempo alluvionale, chiamato Olocene, preparatore di quel clima e di quel suolo che avrebbero consentito - favorito anzi - sulla Terra la flora e la fauna del nostro tempo.
Ci fu insomma, con il progressivo rialzo della temperatura (e la conseguente diminuzione delle nevicate), una stagione di scioglimento e di ritiro dei ghiacci: stagione lentissima, nell'ordine di migliaia d'anni. Ciò fino ai novemila anni avanti Cristo quando la Terra ebbe ancora un transitorio ritorno ad avanzate glaciali sparse. Dopo di che - verso gli ottomila anni avanti Cristo - il periodo olocenico entrò nella sua pienezza con una decisa e generale liquefazione dei ghiacci, con continue veementi mutazioni delle superfici dilavate, con diffusione di zone lacustri, con la comparsa addirittura di nuove specie di vegetali (driadi, salici polari, betulle nane, graminacee, muschi). E se determinanti furono - come abbiamo detto - i cambiamenti apportati dai ghiacci, non meno importanti furono quelli dovuti alle acque che per millenni esplicarono la loro attività nei due modi che ben conosciamo: quello distruttivo con il disfacimento di rocce e di terreni elevati, e quello costruttivo con l'accumulo (in regioni più basse) dei materiali trascinanti: erosioni e deiezioni evidentissime in tutta la Val Rendena.
La fase erosiva, che nella nostra valle dovette offrire spettacoli maestosi (le rapide spumeggianti estive della Val Genova non sono che pallidi barlumi), si manifestò particolarmente nei luoghi alti di quel gigantesco bacino idrico che la Rendena effettivamente era. Bacino dove - a seconda della cedevolezza delle rocce - le acque altro non fecero che scavare botri, gole, anfratti, forre, chiuse, pozzi, marmitte a non finire, ampliando e levigando gli scavi in precedenza fatti dai torrenti sottoglaciali.
Furono giorni unici che, nella loro grandiosa e apocalittica bellezza, non saremo in grado nè di figurarci nè di rivivere mai.
Acque continue scroscianti e rimbombanti, il cui fragore cupo e fondo aumentava con l'aumentare del percorso, ampliato ed assordato dal precipitare d'altre acque irruenti. E tutto ciò con un'intensità continuamente diversa nel selvaggio turbinio delle correnti che di balza in balza erodevano e divoravano i costoni. Scene che naturalmente - anche se in maniera sepolta - avvenivano pure sotto i ridotti ghiacciai mentre qua e là la nuova vegetazione faceva capolino preannunciando l'imminenza «stanziale» dell'uomo.
Con il trascorrere del tempo, e con il graduale ritiro delle masse glaciali, i fenomeni e le trasformazioni si ridussero. E come vi furono millenni durante i quali i ghiacciai continuarono, sciogliendosi, a rinnovarsi in quantità sempre minore, e le acque vorticose della Val di Campiglio, della Val Nambrone, e della Val Genova, entravano in Rendena trascinandosi pietre, ciotoli, ghiaie, sabbie, fanghi preziosi (e naturalmente asportandone), così venuta a poco a poco a diminuire la pendenza dello scavo e la velocità dell'acqua, anche la forza erosiva della corrente divenne meno dannosa fino a ridursi a vasti distesi alvei dalle dilaganti curve d'assestamento.
Vennero così a formarsi non poche piane alluvionali, e (allo sbocco delle convalli) consistenti conoidi di deiezione, ovvero sia ammassi a ventaglio di vario pietrame trascinato dai monti: piane e conoidi, in Rendena, particolarmente appariscenti.
Se ben osserviamo, infatti, una piana alluvionale la troviamo tra Carisolo e Caderzone dove il conoide della Val di Casa blocccò a suo tempo la fonda valle. Un'altra piana la vediamo tra Caderzone e Strembo dove pure un vasto conoide (su cui Strembo sorge) chiuse la valle. Altre piane ancora ci sono dopo Borzago, dopo Pelugo, dopo Vigo. La Rendena è veramente una gradinata di piccole piane.
Non mancano poi gli accennati conoidi (ad ogni sbocco di valle minore), alcuni dei quali imponenti. La Val Rendena anzi, tra Carisolo e Verdesina, può vantarne una trentina almeno, a cominciare da quelli evidentissimi di Giustino, di Caderzone, di Strembo, di Mortaso, di Borzago, di Pelugo, di Iavrè, e di Villa. Nessun conoide invece allo sbocco della Val Genova e della Val di Campiglio, e ciò a dimostrazione non soltanto dei due giganteschi ghiacciai che tutto asportavano, ma anche delle susseguenti vorticose acque che ancor più liberavano i solchi vallivi da qualsiasi materiale. Qui vogliamo anzi ricordare come al tempo delle glaciazioni le possenti gelide masse scendenti dalla Val di Campiglio e dalla Val Genova e scontrantisi nei luoghi dove ora sorgono i paesi dell'alta Val Rendena scavarono profondamente la roccia dell'impatto creando un'impressionante voragine lunga fino a Caderzone. Provvidero gli apporti dell'Olocene a ricolmare - lentissimamente - l'enorme fossa. Non per nulla, ancora cinquecento anni fa, zone lacustri e paludose si stendevano tra Carisolo e Caderzone, e la curazìa di Giustino (unica nell'alta valle fino al 1640) era chiamata ufficialmente «la curazìa di Sopracqua», cioè affacciata sul vasto specchio d'acqua sottostante il paese.
Conclusione
D'altro canto (tornando per un attimo all'esteso e profondo lago che l'alta Val Rendena era) non sarà difficile immaginare - con i millenni di apporti alluvionali - il territorio palustre che andò a poco a poco formandosi nella zona tra Caderzone e Carisolo: territorio che si ricoprì naturalmente di canne, di falaschi, di giunchi, d'innumerevoli erbe acquatiche. Basti pensare che il nome stesso di Carisolo è sicuramente da ricollegare all'etimo «carex» (carice o cespo di palude) da cui deriverebbe «cariçeolum» (cariseolum) cioè luogo di vegetazione paludosa.
Piane alluvionali quindi, solchi vallivi laterali, conoidi di deiezione, terreni morenici, laghi di sbarramento, luoghi a ricca vegetazione acquatica, furono solo alcune delle manifestazioni che modificarono la nostra valle nel lungo periodo olocenico. Altre ve ne furono infatti, ugualmente determinanti, tra le quali i fenomeni carsici, le marmitte dei giganti, i laghetti glaciali, gli effetti gelivi sui terreni in quota, le stesse azioni smerigliatrici e levigatrici degli agenti atmosferici: manifestazioni di cui basterà brevemente dire.
I fenomeni carsici (sempre nell'ordine di migliaia e migliaia d'anni) consistevano in questo: la discesa dei ghiacci lisciava i versanti (di roccia calcarea, privi di qualsiasi vegetazione). Ora - nelle fasi interglaciali - le liscie superfici erano interessate dall'inesorabile opera delle acque che erodevano la pietra, con i loro rigagnoli, in profonde tracce. Le superfici venivano così, a poco a poco, sezionate in lunghi parallelepipedi che - con i ghiacci invernali - saltavano in tanti blocchi. Alla nuova ondata glaciale tutti si ripeteva. E i versanti e i fondovalle del Gruppo di Brenta, in verità, rappresentano la testimonianza più spettacolare ed eloquente di tutto questo.
Accennando appena, invece, alle marmitte dei giganti c'è da dire che la Rendena dovette averne veramente in quantità. Esse venivano scavate da acque vorticose sotto i grandiosi ghiacciai: acque che imprimevano un moto rotatorio (se non addirittura circolatorio) a certe pietre dure, le quali - coll'andare dei millenni - letteralmente trapanavano e fresavano le rocce sottostanti sino a dar loro la forma tonda e fonda delle marmitte.
Ebbene per chi ha visto alcune «marmitte dei giganti» della Val Genova non credo sia difficile figurarsi nella nostra Rendena (sepolta ormai dal copioso materiale alluvionale) numerose e indubbiamente «gigantesche» marmitte.
Altro suggestivo fenomeno da conoscere e da valutare «morfologicamente» è senz'altro quello dei laghetti glaciali, del cui incanto non si dirà mai abbastanza. Ogni laghetto - posto solitamente al centro di un piccolo o grande circo glaciale - è lì a documentare lo scavo compiuto dai ghiacci prima di tracimare in una valle. E allora - senza prendere in considerazione i meravigliosi laghi della zona di Campiglio - ricorderemo i laghi cristallini di Garzonè e di San Giuliano, i laghi caratteristici di Valagola, di Vacarsa, e di Lamola, i laghetti e le pozze di Germenega, i laghi di Valbona e di Valsorda, esemplari superstiti di tanti altri laghi scomparsi, alcuni ricolmati di fanghiglie, altri carsicamente assorbiti.
Non va tralasciato, da ultimo, un cenno ad alcuni agenti atmosferici ch'ebbero la loro incidenza penetrante e sottile nella rifinitura dell'attuale valle, vale a dire l'umidità dell'aria, le variazioni di temperatura, le precipitazioni stagionali, le alterazioni dovute al gelo e allo sgelo: fatti che - esaminati nell'arco di millenni - non furono da meno dei ghiacci e delle acque nel determinare sia i cambiamenti che i modellamenti generali della Rendena. Con una particolare attenzione, per terminare, riservata ai venti che sempre, nelle gole delle nostre montagne, furono di una forza abrasiva inimmaginabile. Tale capacità infatti, ancor oggi, nelle zone alte del Brenta si manifesta con l'asporto di minutussime parti di roccia. Dette parti, scagliate energicamente contro altre pareti rocciose, pian piano le zigrinano, le rifiniscono, le sfumano in torri, in campanili, in sfulmini, in guglie, in denti, insomma in quelle incantevoli cattedrali che sappiamo. Sabbie, scaglie, minuscoli detriti che a loro volta cadono al suolo pervenendo alla loro fase estrema, quella che ricolma i baratri e addolcisce di biancore i pendii.
Concludo questi modesti appunti con una sola speranza: che (grazie «anche» a queste righe) qualcuno s'abitui a guardare con occhi più attenti, più esperti, più appassionati, una Rendena così ricca di accadimenti e di sorprese in quel travaglio geologico che dalle vette ai fondovalle non ebbe e non avrà un attimo di sosta mai: tutt'al più guastato o profanato (è dovere e dolore dirlo!) dagli interventi presuntuosi delle impazienti ed inconsulte «morfologie» dell'uomo.
L'obiettivo di Claudio Dallagiacoma
Un'altra amara perdita
Un improvviso furioso incendio - (riportiamo la cronaca del 6 novembre 1976) - ha divorato, nella serata di ieri, l'antico fienile appartenente al palazzo Lodron Bertelli di Caderzone.
Le prevalenti strutture lignee, e la gran quantità di foraggio ripostovi, in un batter d'occhio hanno agevolato, oltre che alimentato, le violentissime fiamme.
Nonostante il tempestivo intervento dei pompieri di tutti i paesi intorno, in brevissimo tempo il fuoco s'è esteso all'intero stabile compromettendo gravemente l'agibilità anche delle sottostanti stalle.
Il bilancio del devastante sinistro - che poteva avere conseguenze drammatiche - è stato pur sempre quello d'un danno incalcolabile al patrimonio storico del paese e d'un grave colpo economico per i proprietari che hanno visto ridotte in cenere, nel giro di poche ore, tonnellate di fieni e tutte le attrezzature agricole ivi riposte.
Non solo, pertanto , un altro angolo del "piccolo mondo antico" rendenese è scomparso (un angolo che i vecchi, d'ora in poi, racconteranno ai giovani come si racconta una fiaba troppo bella per essere creduta), ma un'altra amara perdita s'è aggiunta al lento inarrestabile impoverimento urbanistico di quella Caderzone singolare e a suo modo splendida che tra non molto nè vedremo nè immagineremo più.
Vent'anni dopo.
A quasi due decenni da quel malaugurato evento - grazie al lungimirante programma e al tenace interessamento dell'Amministrazione comunale di Caderzone - dai ruderi cespugliosi e quasi dimenticati di quelle che furono le superbe scuderie dei conti Bertelli, ecco che la "fiaba troppo bella per essere creduta" sta ridiventando, giorno dopo giorno, la realtà più ammirata e più invidiata che, in un domani ormai vicino, la nostra Rendena potrà di nuovo vantare.
Un mondo perduto - Le leggende della Rendena
di William Belli
In una notte d'inverno, due amici, nella loro casa isolata nei boschi di Fai, udirono delle urla tremende e inesplicabili: lo spostamento dei rami fece loro pensare a un animale di taglia enorme ma, passata in rassegna tutta la fauna delle Alpi, orso compreso, non riuscirono a trovare una spiegazione convincente.
Presi dal mistero non scartarono neppure la possibilità di un animale sconosciuto, parente stretto dei dinosauri di Jurassic Park.
L'evocazione dei dinosauri faceva venire a galla antichi terrori, figure leggendarie di creature mostruose che popolavano le Alpi, solo che queste figure si erano trasformate nei dinosauri di Jurassic Park: i mass media avevano colonizzato l'antico paesaggio alpino e ne avevano cacciato le figure di fantasia.
Questo è ciò a cui si assiste oggi: l'antica cultura contadina, con i suoi ritmi, gli ingegnosi strumenti di lavoro, il ricchissimo patrimonio leggendario, sta scomparendo assieme alle parole che la definiscono, quasi cancellata dalla civiltà dei media e dei computer, che omologa spietatamente tutte le differenze, trasformando il mondo in un monotono insieme di pratiche e credenze comuni.
Gian Luigi Beccaria, nel libro «I nomi del mondo, santi, demoni, folletti e parole perdute», denuncia la scomparsa di questa civiltà, degli strumenti di lavoro, delle parole stesse che li designavano, del patrimonio di leggende tramandate da un'oralità ininterrotta.
Il Trentino, come tutta l'area alpina, è particolarmente ricco di tradizioni popolari, comprese le leggende che costituiscono una riserva straordinaria di fantasia, un palinsesto da cui traspaiono tracce di culture antichissime - precristiane - conservatesi quasi intatte nei secoli, di elementi lontani derivati dalle saghe scandinave e germaniche, dei misteri del Mediterraneo greco romano, dei racconti fantastici dell'Oriente.
Tutta questa ricchezza rischia ora di scomparire per sempre, le leggende sono state trasformate in elementi folclorici, buoni per condire qualche attrattiva turistica, ma il loro significato recondito, quello di dare spiegazione a un mondo minacciato e minaccioso qual era il fragile mondo delle Alpi ristabilendo l'equilibrio sempre fluttuante fra il bene e il male, è ormai perduto.
Si recuperano le leggende, ma per inserirle in manifestazioni del tipo «Se in Trentino d'estate un castello», togliendole dal loro contesto, quello di una società agricola sempre in precario equilibrio di sussistenza, e quindi banalizzandole e privandole della loro forza originaria.
Così, al termine di uno spettacolo come quello sulla Danza macabra di Pinzolo, si fanno esplodere incongrui fuochi d'artificio che servono a sciogliere l'angoscia provocata dalla teoria dei morti e dal senso transeunte della vita, togliendo alla rappresentazione il significato più profondo.
La Val Rendena, una delle più appartate valli trentine, ha conservato un patrimonio leggendario di notevole ricchezza, già fissato nel Medio Evo, nel quale sono presenti le principali figure di fantasia del mondo alpino.
Segni del male, manifestazioni di un ambiente ostile, sono presenti dovunque. Le cime inviolate e deserte sono abitate da corvi e cornacchie, a lungo credute le anime dei morti, dagli antichi dèi pagani trasformati in demoni e da streghe che nei sabba scatenano terribili temporali, come quelli che scuotono la cime del Tonale.
Le rocce isolate, come in tutto l'arco alpino, non sono altro che demoni e streghe trasformati in pietra, e la Val Genova ne offre una impressionante varietà da quando, secondo la leggenda, i padri del Concilio vi confinarono tutte le streghe della regione.
Nomi come Preda dela luna, Saltum Malum evocano presenze malefiche mentre il Tof del mal neò ricorda la fine miseranda di un nipote senza cuore, precipitato lungo le scoscese pareti del dirupo.
I laghi celano nei loro abissi draghi malefici e serpenti, come il mostro del lago di Nambino, serpente alato che faceva strage di mandrie e di greggi, ucciso da un cacciatore della val di Sole che ne appese le spoglie sulle volte della chiesa di Santa Maria di Campiglio.
Il lago di San Giuliano, invece, a 2.000 metri di altezza, era frequentato per le acque miracolose delle fonti, rimedio infallibile contro le febbri, e per i sassi raccolti tutto intorno, utilizzati contro i morsi delle vipere. Una chiesa custodita da un eremita indicava il posto dell'ultimo alloggio del santo, inseguito fin quassù e gettato in fondo al lago mentre dei massi di granito conservano le impronte della mano del santo e degli zoccoli del suo cavallo.
La presenza inquietante dell'aldilà è evocata dalle leggende della casa del diavolo, presso Pinzolo, o in quella della povera Giovanna, che, recatasi nel cimitero di Carisolo in piena notte per una sfida spavalda, muore per lo spavento provocatole dal fuso rimasto attaccato alla gonna.
Altri racconti invece rivelano una società poverissima in cui anche il furto di un gomitolo era punito con la morte, come succede alla ragazza bollita viva dal demonio Barzola; in altri ancora si sono sedimentati antichi avvenimenti storici il cui ricordo si è trasformato in leggenda.
Ecco quindi, a Mortaso, la tradizione dell'uccisione di San Vigilio, venuto ad evangelizzare i pagani della Rendena e da questi lapidato a colpi di pane durissimo, che da allora in poi non lieviterà più, e compianto dalla donna pietosa con le parole «El moeur, tas!».
Ecco la leggenda di Carlo Magno, che durante il suo passaggio in val Rendena avrebbe distrutto il castello di un ebreo nei dintorni di Pelugo, sul monte detto Calvario o, più significativamente, Castel Pagan, sostituendolo con un sacello cristiano, avvenimento ricordato in un grande affresco di Simone Baschenis nella chiesa di Santo Stefano a Carisolo.
Documento di vitale interesse nell'economia del patrimonio folcloristico, la leggenda è tutt'ora fonte di emozioni, nella quale verosimiglianza ed immaginazione si alternano in un gioco che riesce ancora a coinvolgere.
Per gentile concessione del periodico "Questotrentino" - Ottobre 1995.
La vecchia corda è un pezzo di solidarietà, un simbolo di esperienze comuni, di responsabilità reciproca e di sicurezza. Le cordate sono formazioni transitorie, occasioni di socializzazione momentanea. Gli scalatori annodano molti legami fra di loro, come molti sono i fili che vengono a intrecciarsi nella corda. Eppure avrei molta difficoltà a cancellare dal ricordo questi incontri col loro aspetto educativo.
Reinhold Stecher
alpinista e vescovo di Innsbruck
Rampagaröl
di Giuseppe Leonardi
Ferant alpes laetitiam cordibus
- L'esperienza alpinistica - ha scritto l'accademico Silvia Metzeltin - non è merce qualsiasi, di cui magari lamentarsi quando poi la realtà dell'acquisto non soddisfa, semplicemente perché è meno rosea di come descritta sul pieghevole pubblicitario. Qualunque forma di alpinismo si svuota quando la si intende come merce, svaniscono quelle che sono le attrattive vere, quelle che rendono l'alpinismo tanto più pieno e ricco di molte altre attività.
In Val Rendéna i valori dell'alpinismo valligiano non sono ancora andati del tutto perduti, nonostante che l'organizzazione corporativa dei servizi turistici sia stata massiccia ed i promotori dell'alpinismo commerciale abbiano piazzato l'offerta professionale, emarginando così la passione spontanea del singolo. Per reazione `l rampagaröl si è ritagliato sulla montagna un suo ambito esistenziale, che gli permette in maniera furtiva e nascosta, sicurezza per sé e compagni, salute fisica e spirituale, solidarietà nel gruppo. Ha ricercato fra le crode, lungo le pareti e sulle vette, le comuni credenze valligiane, le aspirazioni ataviche, gli ideali nella scia dei miti celebrati: appunto l'attenzione verso un'etica dell'andare in montagna, piuttosto che la ricerca di un'epica legata al gesto eroico. Ma ha pure dovuto fare una scelta sofferta, quella della clandestinità, coprendo di riserbo la propria passione. Sono giovani, fuoriusciti dalla banalità del tempo libero ed immersi negli orizzonti suggestivi della montagna, dove spendono, dopo il lavoro, il residuo del loro serbatoio di energia. Sull'esempio lasciato dal maestro Guerèt, i rampagaröi sono ancora lì in prima linea a difendere la sopravvivenza dell'affiatamento (koinè), unico depositario degli incorrotti valori locali di un alpinismo attivo, culturale, rispettoso dell'ambiente.
Negli anni 1960 indossavamo braghe alla zuava rattoppate e maglioni coi buchi, calzavamo scarponi spelati, che si mimetizzavano discreti con la roccia, il giacchettino era di fustagno, il sacco era di tipo militare: la nostra povertà non era una vergogna, perché vergogna era la misèria morale.
Curìvam cuntenç, cu la nossa corda di manìla sa li spali, sü par i sintér tüç infiuré da l'istà.
Saftàvam ca parìvam camuç sa `n da li büsi scundüdi dal Brenta.
A s'farmàvam in du ca la val la uftava, e lì srudulàvam la nossa corda e a s'ligàvam insèma.
Rampagàvam sü par i croz ca `l sul al carazàva di rosa.
Nàvam sü par i canalùn, sü par li vedröti, su par i glaciùn intùrn al Campanil Bass ca `l parìva di or.
Durmìvam, la sira, cui pastùr sa la paia da li malghi ingrustadi di calìn.
Cuntàvam incanté, ün par ün, i dì da li nossi vacanzi passadi in mez a tanç bei sogni plin di speranzi.
La nossa corda la fava sempru al so duér; manegévula la ni ubidiva; e nuaftri - alegri - la purtàvam vulintéra sa li spali, ligéra cume `na gala.
Ma ormai cu l'istà a l'é passà! E anca col dop.
E po' tanç aftri amù.
Quand ca m'gatu cui me cumpagn d'alura a m'vegn sempru da dirghi: - A v'rigurdéf? -
E vardàndusi a s'sintùm cuntenç, parché la nossa gioventù l'é rastàda là, ligàda ai bei ricordi da na corda di manìla.
I rampagaröi dell'ultima generazione indossano tute variopinte, calzano scarpette d'arrampicata, fanno la corda doppia con leggere funi sintetiche e nell'imbrago attaccano attrezzi superleggeri dai colori fosforescenti. Benissimo. Negli incontri sui sentieri e nelle soste nei rifugi ascolto attento i loro racconti mordaci e pungenti e mi compiaccio che fra di noi, giovani e vecchiacci, l'investitura è ancora guadagnata sul campo.
- Eccolo lassù, sulla spalla rocciosa, capocordata in sosta, rivolto all'in giù verso i compagni. Braghe rattoppate, sudore sul volto, dita spelate, corda sulle spalle, fra un tintinnio di moschettoni portati come ferri del mestiere: sulle crode appare così. Possiede dentro il calore del sole, l'ossigeno degli abeti, la sinfonia del vento, l'urlo della tormenta ed il sibilo delle valanghe. Quanto più può vive tra le crode, mangia al sacco e dorme bivaccando: tenta il recupero alla semplicità della vita sulla montagna. Si comporta sui monti come il monello libero, che non gli importa degli abiti stirati e delle mani pulite, delle scarpe lucide e dei capelli lisciati; delle belle maniere e del parlare forbito; tende per vocazione ad un mondo libero ed istintivo, ignorando il galateo inventato dai precettori della gente bene.
Sale i monti per riprendere confidenza con le pietre, che alla sera ricevono il peso della sua stanchezza fisica; per sopportare il gelo che purifica; per amare la neve che ammanta; e al modo dei figli della sua gente per riscoprire la natura in continuazione ed imparare a riamarla pure attraverso il fervore dei germogli e la vita degli insetti e dei vermi che tratta con rispetto. La sua esistenza trascorre in armonia con la gente della valle, e riassume in sé le doti del mondo popolano. Sui monti è figura franca e convincente, tanto ama il paesaggio montano con i suoi cieli, le sue valli, le sue acque, la sua sfolgorante luce delle quattro stagioni. Peregrina durante la settimana nel reticolato delle vie urbane; gli romba attorno l'affanno del giorno lavorativo; affronta torrenti di folla per l'asfalto; gente assortita come capita: poveri e miliardari, seduttori e mercanti, asceti e parassiti.
Allora, quando è libero, scappa via alla ricerca di abissi paurosi, di ghiacciai pensili, di creste a lama di coltello, di cupi diedri, di lunghe fessure a freccia, di corte cenge che si perdono nel gran corpo delle pareti. Alla ricerca del caos armonico che è lassù a testimoniare i sovvertimenti terrestri ed il continuo disfacimento durato secoli, millenni, milioni di millenni. Alla ricerca della guglia, del campanile, del masso erratico, dello spuntone ad alabarda, della placca levigata, dello sfasciume della morena. Quassù egli emerge. Tenta il riscatto della sua condizione subalterna fra la gente con l'aiuto della semplicità e del sacrificio. Affronta tenace la paura di ascendere che lo pungola e lo sfida; vuole tentare, sperimentare, vivere e sentirsi vivo.
Quando soffermo ai piedi delle pareti vede disegnarsi lungo pilastri e crepe, lungo cenge e spigoli una linea sinuosa che lo invita verso l'alto, una via che gli si è palesata naturalmente, la segue fiducioso con la soddisfazione di aver tracciato una nuova via alpinistica. Ed ogniqualvolta giunge esausto sul ciglio estremo della vetta, comprende che la meta non è quella e nemmeno quella là, ma che la sua meta è dentro a lui, autocostruita dal coraggio, dalla fatica, dalla volontà caparbia, da quel volere essere di nascosto fra la sua gente il migliore.
Con la bella stagione lascia l'abitato e sale l'alpe; va alla ricerca di verde da godere, di sole, di aria pura fra crode e dirupi, fra vedrette e camini, su ghiaioni e ghiacciai; alla scoperta di una via da percorrere fra orizzonti lati che la vetta dischiude.
Quando poi scogli calcarei e pilastri granitici si stampano contro un cielo di cobalto ed ombre di alberi spogli di fondo valle affondano nella neve ed il vento gelido agita i vessilli della tormenta; quando la galaverna (brüma) ricopre le distese di pino mugo, la staccionata ed i muretti in pietra a secco lungo il sentiero, il rampagaröl comprime l'ansia di cimentarsi e racchiude nel sacco tanti progetti incompiuti dell'estate trascorsa: di quando corde, piccozze e ramponi giacevano sulla panca del rifugio illuminati dai raggi dell'ultimo sole; di quando soffriva per gli strappi nei calzoni; di quando godeva del risuono dei colpi di martello sul chiodo che vibrava cantando e delle pietre che volavano fischiando nell'abisso; di quando ritornando dalle cime gli scarponi calcavano le pietre dei ghiaioni, i massi muschiosi, i fiori tra l'erba e si bagnavano nell'acqua del rivolo.
`L rampagaröl era grande lassù in alto tra le rocce ancora più grandi, dove conobbe la luce dell'alpe e le ombre delle nuvole in fuga. Ma nell'occhio suo non si è spento il raggio luminoso abbagliante di luce carpita sulle quote alte ed attende fiducioso un'altra primavera, quando col sacco rispolverato tirerà fuori altri progetti per ascensioni nuove ed emozionanti.
`L rampagaröl bisogna compatirlo. É nato con la passione, così, per destino; e la porta nel sangue come una maledizione o una speranza, un male inguaribile o un bene infinito, fino all'ultimo suo guizzo di vita.
- In fondo, ci ha detto Bruno Detassis, in montagna ci si va per essere liberi. Se togli la libertà, l'alpinismo, almeno quello vero, non esiste più.
Prima ancora che l'alpinismo scalasse una cima, lo sci aveva fatto la sua comparsa quale mezzo di locomozione, per quei popoli che vivevano e ancora vivono nei paesi in cui la neve per lungo tempo ricopre ogni cosa.
Lo sci è stato usato pertanto nell'antichità e da secoli il suo impiego è costante nei paesi nordici come mezzo utilitario e non come diporto nel senso inteso dalle masse dei pistaioli aiutati dagli impianti meccanici di risalita.
Fridtjof Nansen (1861/1930), esploratore norvegese e premio Nobel per la pace nel 1922, sostenne che non si può precisare quando gli sci siano stati inventati; sicuramente esistevano oltre quattro mila anni avanti Cristo; lo testimoniano le incisioni rupestri.
In Norvegia arditi sciatori si impegnarono in imprese di guerra al tempo di Re Sverre (1151/1202) e di certo si sa che nella battaglia di Oslo del 1200 gli sciatori vi presero parte.
Sul finire del 1700 l'italiano Giuseppe Acerbo, dopo un viaggio al Capo Nord, diede notizie degli sci usati dai Lapponi, precisando che "incominciano ad esercitarsi in questa faccenda sin da fanciulli"
Ai primi del 1800 a Tromso in Norvegia venne organizzata la prima corsa con gli sci, mentre a Oslo e a Holmenkollen si svolse una mostra-concorso, che mise in mostra ben 48 paia di sci.
Nel 1871 per merito di Henry Duhamel di Grenoble, a Le Praz di Chamonix, vennero usati gli sci per la prima volta.
Nel 1883 venne fondato il primo Ski Club denominato Foreiningen Til Ski dractens fremme di Cristiania, allora capitale della Norvegia e che dal 1925 assumerà il nome di Oslo.
Lo studente Wilhelm Paulcke* di Davos nel 1885 modifica l'attacco a giunco con una tavoletta, in cui far entrare la scarpa, di un paio di sci norvegesi avuti in regalo.
Edoardo Martinòri nel 1886 compie in sci l'intera traversata della Lappònia e, al suo ritorno, introduce in Italia il primo paio di sci, che regala alla Sezione del CAI di Roma.
Nel 1891 Fridtjof Nansen, con cinque compagni, compie con gli sci la prima traversata della Groenlandia in 39 giorni.
Nel 1891 Pilet di Heidelberg sale con gli sci la vetta del Feldberg.
Nel 1891 è costituito lo Ski Club di Monaco di Baviéra.
Nel 1893 lo svizzero Cristofero Iselin di Glàrus con altri compagni scavalca con gli sci il Colle Pragel m 1554: con questa impresa può considerarsi la nascita dello sci alpinismo sulle Alpi; a questa ascensione fecero seguire la salita dello Schild m 2302 e del Langereu m 2528; nello stesso anno nasce lo Ski Club svizzero di Glarus.
Due date fondamentali sono quelle del 1896 quando Wilhelm Paulcke con tre compagni in parecchi giorni attraversò da occidente ad oriente i ghiacciai dell'Oberland Bernese e nel 1898 raggiunse dallo Schuster i 4638 m della Punta Dufour del Monte Rosa.
Dopo il 1898 salire con gli sci la montagna in inverno fu un nuovo modo di riconquistare le vette delle Alpi; tutti i pregiudizi scomparvero a poco a poco e nulla arrestò la nuova disciplina sportiva verso le montagne invernali.
É vero che i primi pionieri dell'alpinismo furono quasi tutti inglesi, ma è altrettanto vero che la conquista delle Alpi con gli sci va annoverata al coraggio e al merito dei valligiani zona per zona.
Nel 1901 il finnico Antron percorre con gli sci i trenta chilometri in 1 ora e 46 minuti e nel 1902 a Modung, Niels Gyestrang salta dal trampolino su una distanza di 41 metri.
In Italia il primo Ski Club nasce a Torino nel 1901 per merito di Adolfo Kind.
A Milano nasce il 12 marzo del 1902, quando Ubaldo Valbusa compie, il 25 marzo 1902, la prima salita alla vetta dell'Adamello di 3554 metri e a Zermatt viene organizzato il 1° corso di sci per guide e portatori con l'ascensione della Cima di Iazzi.
A Genova nasce nel 1903, quando il francese Payot raggiunge sul Monte Bianco il Col du Midi.
Nel 1904 nasce a Milano la Skyatori SEM e a Sauze d'Oulx e a Clavière si svolge la prima radunata sciistica nazionale.
Nel 1904 a Oulx e a Bardonecchia vengono organizzate le prime gare tra reparti Alpini e Cacciatori delle Alpi francesi.
L'ingegnere Harald Smith, campione norvegese, divenuto istruttore del Corpo degli Alpini, rivoluziona la tecnica e al posto del bastone a raspa introduce i bastoncini con l'arresto a Telemark e a Cristiania.
Nel 1909/10 reparti Alpini organizzano a Courmayeur e a Valtournanche corsi di sci per guide alpine e valligiani.
Nel 1911 a Bardonecchia viene organizzata la prima gara italiana femminile vinta da Cristina Silvetti, munita di velo e gonne lunghe.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale (1914) al comando del capitano Wilhelm Paulke venne costituito il primo battaglione di sciatori tedeschi che operò nella Prussia orientale.
Altrettanto fecero gli Stati Maggiori italiani con la costituzione di Battaglioni di Sciatori Alpini che vennero dislocati nei versanti occidentali dell'Ortles, Cevedàle e Adamello. Fra di essi si distinse la Compagnia autonoma poi divenuta Battaglione Sciatori Cavento, comandato dal capitano Natale Calvi.
Nell'ottobre del 1920 viene fondata a Milano la Federazione Italiana dello Sci, oggi FISI.
Nel 1923 viene organizzata la grande marcia sciistica delle Alpi in 40 tappe per pattuglie di Alpini di 5 uomini da San Dalmazzo di Tenda nelle Alpi liguri a Tolmino (dal 1947 è in territorio della Slovenia) e l'ascensione dell'Elbruz m 5629 (la vetta più alta d'Europa) da parte di Leopoldo Gasparòtto e Ugo conte di Vallepiàna.
Nel 1937 Fosco Maraìni supera con gli sci nell'Himalaya del Sikkim alcune cime e colli di 5000 metri tra i quali il Sandòng.
Illustrarono le possibilità sciistiche dello Scalìno e dell'Adamello il Bernasconi, la Val Monastero e la Val Gardena il Vallepiàna, la Val Badia il Kostner di Corvàra, i dintorni di Madonna di Campiglio Weiß e Agostini, quelli di Cortìna d'Ampezzo il Terschak. Giovanni Soncelli tracciò gli itinerari sciistici della Val Nalenco, Giovanni De Simoni quelli dell'Alta Engadina, Gian Luigi Gatti i percorsi delle valli di Livigno, Fraele e Viola. Gunther Langes si dedicò alle Dolomiti, ma sopra tutti emerse Ettore Castiglioni con la sua guida sciistica delle Dolomiti e con le appendici delle sue guide alpinistiche della Collana della Guida dei Monti d'Italia.
Gli anni compresi fra le due guerre, rappresentarono il periodo d'oro dello sci alpinismo e in considerazione del suo sviluppo venne richiamata l'attenzione da parte delle località che cominciarono a intravvedere nella pratica sciistica la possibilità di dar vita economica ad una stagione morta, quella invernale.
Dal 1950 con le grandi costruzioni degli impianti di risalita si diffonde lo sci da pista, che diventa sport di massa in tutto il mondo.
Rimangono però i discendenti della nobile stirpe degli scialpinisti, che continuano imperterriti a valicare passi, vedrette, ghiacciai e a salire vette ed ora perfino a gareggiare in nobili tenzoni agonistiche in velocità contro il cronometro e contro l'altitudine.
Per essi continua a valere quanto scrisse, agli inizi del 1900, il capitano Wilhelm Paulke:
- Chi vuole intrapprendere escursioni con gli sci in alta montagna deve innanzi tutto essere un buon alpinista, deve avere confidenza con le Alpi ed essere familiare con le loro singolarità e con i loro pericoli; deve cioè possedere tutte quelle congnizioni alpinistiche e quell'esperienza che sono necessarie per renderlo capace a percorrere le Alpi per rocce e per ghiacci, da sé, senza l'aiuto di guide.
Solo i caratteri tenaci ed elastici sono adatti alle condizioni, soventi difficili, della montagna invernale.
E quanto scrisse Ettore Castiglioni nella Guida sciistica delle Dolomiti:
- L'alpinista sale la montagna, lo sciatore la discende; meta dell'alpinista è l'ascensione (per abolire la discesa ha inventato le calate a corda doppia); meta dello sciatore è la scivolata: lo sciatore alpinista accoppia i due godimenti.
Domenica 9 aprile 1995, attorno al nesso centrale delle Dolomiti di Brenta si è svolta la quinta prova della terza "Coppa scialpinistica delle Dolomiti", intitolata alla memoria della guida alpina Fabio Stédile di Aldeno ed abbinata alla 21a edizione della "Scialpinistica del Brenta".
Quando al Passo del Grostè a m 2450, nello scenario suggestivo dell'Alpe innevata, alle 9 e 23', dopo l'ascensione della Val Gelàda, giunsero appaiati Enrico Pedrìni e Fabio Meràldi, poi i fratelli Alfredo e Johnny Corsìni, poi Omar Opràndi e Marco Polla e poi di seguito tutti gli altri in lunga teoria, ci furono per tutti applausi ed incoraggiamenti. Mischiati tra la folla, invisibili si agitavano gli Spiriti di Agostini, di Castiglioni, di Catullo Detassis, di Ghiglione, di Langes, di Paulke, di Saglio, riuniti lassù a tifare per quegli indomiti che fasciati da attillate tute variopinte e con le ali ai piedi, tant'era la velocità di ascesa, sfioravano con le lunghe falcate delle gambe il candido manto della neve e col movimento delle braccia ritmavano la danza lieve degli Elfi. Così ascescero quel giorno fino alla Forcella della Cima Grostè a m 2800 e poi si tuffarono come saette, incuranti della loro incolumità, lungo le balconate che precipitano al piano del Campo Carlo Magno, scivolando col ventre a terra sotto il traguardo.
Con l'incessante perfezionamento della tecnica sciatoria di salita e di discesa, con l'appoggio dell'industria di settore, che offre una gamma di materiali di ottima affidabilità per ogni esigenza, questi atleti internazionali delle alte quote innevate possono pretendere a buon diritto di far parte delle prossime competizioni olimpiche invernali.
Stambecchini del Brenta
La terza "Coppa delle Dolomiti" edizione 1995 è stata così assegnata:
Coppie maschili:
prima: Enrico Pedrini (Gs Fiamme Gialle di Predazzo) e Fabio Meraldi (Sc Sondalo)
seconda: Marco Polla e Omar Oprandi (Sporting Campiglio)
terza: fratelli Alfredo e Johnny Corsini (Linea Fondo BS).
La coppia Omar Oprandi - Marco Polla si è laureata campione del Trentino 1995 di scialpinismo, secondi Amedeo Giacomelli e Gian Maria Zanin (Us Dolomitica), terzi Luciano Fosco e Bruno Pederiva (Ski Team Fassa).
Coppie femminili:
prima: Valentina Cecini e Bruna Fanetti (Sondalo SO)
seconda: sorelle Cristina e Karin Pizzinini (SC Alta Badia).
La Coppa delle Dolomiti ha avuto il seguente svolgimento:
1a Prova: 18 febbraio 1995, in notturna "Sellaronda ski marathon", di km 42 e con un dislivello di 2.700 m.
2a Prova: 5 marzo sul Monte Bondone "Trofeo Marcello Pilati": Km 18, dislivello 1.600 m.
3a Prova: 13 marzo "Trofeo Lagorai-Cima d'Asta": km 19, dislivello 1.400 m.
4a Prova: 19 marzo a Predazzo-Bellamonte "Memorial Giampiero Cemìn": km 16, disilivello 1600.
5a Prova: 9 aprile a Campiglio la scialpinistica "Dolomiti di Brenta": km 19, dislivello 1850 m.
Classifica coppie maschili:
Lo scialpinismo è una pratica sportiva relativamente giovane che sta acquistando un sempre maggior numero di appassionati. In tutto l'arco alpino aumentano ogni anno i meeting e le gare di questa disciplina invernale.
Gli specialisti più preparati cercano in queste competizioni il confronto diretto con i propri avversari ed il proprio limite personale.
Il 43° Filmfestival internazionale montagna esplorazione avventura Città di Trento, nella giornata di apertura, ha presentato con successo il film "La Coppa delle Dolomiti", del regista Alessandro Tamanini (Italia) che ha ottenuto il Premio FISI con la seguente motivazione: "per aver saputo raccontare, con le immagini, la passione per la montagna invernale. Quella passione che si esprime nella pratica di una disciplina di grande fascino ed elevati contenuti agonistici. Disciplina che unisce la passione per l'alta montagna con la realtà del confronto sportivo".
Per capire meglio capire questa disciplina abbiamo fatto alcune domande ai tre campioni nostrani: Omar Oprandi, Marco Polla e Bice Bones. Ecco le domande con le risposte.
* Wilhelm von Freichs e Wilhelm Paulke, il 14 sett. 1897 aprono lungo la faccia Sud del Campanile Alto un itinerario di arrampicata elegantissima, molto esposta e di grande soddisfazione.
La neve ormai non cadrà più
Ho riletto, dopo anni, il volume "Lettere di condannati a morte della resistenza europea". Da cinque di esse ho selezionato stralci, nei quali il condannato accenna fra l'altro anche alla Montagna. Sono trascorsi cinquant'anni ed oltre dai tragici eventi della II Guerra Mondiale e per averli vissuti accanto a uomini della Reistenza posso capire quanto sia stato struggente per loro il distacco fisico anche dalla Montagna. Ho voluto riproporlo perché anche loro con tanti altri sono: Caduti della Montagna.
Franz Majer di anni 47, austriaco, giustiziato a Vienna il 26 febbraio 1943, dalla cella 120 del Landesgericht (tribunale mandamentale) scrive alla moglie Karla l'ultima lettera di addio descrivendo fra l'altro il compagno di cella:
... É un uomo buono, modesto e bonario, che ha interesse solo per la sua famiglia, il suo lavoro, il quieto vivere, lo sport e le libere montagne...
Franz Mittendorfer di anni 38, austriaco, arrestato, processato, decapitato dalla Gestapo (Polizia politica nazista) nel Landesgericht di Vienna il 10 novembre 1942, scrive:
... Carissima Ella... nei miei ricordi c'è un episodio luminoso, la gita con gli sci a Mönischkirchen, quasi non mi sembra possibile che tutto ciò sia tanto lontano... la più bella armonia ci univa...
Rudolf Hlohil di anni 34 austriaco, decapitato nel Landesgericht di Vienna il 18 novembre 1942, dalla cella della morte scrive:
... Mia amatissima Finnerle... creati una nuova vita, che ti piaccia e sia degna di te. Ti auguro tanta fortuna ed un buon compagno. Salutami ancora tutti gli amici e tutti gli uomini buoni. Resta fedele alle montagne ed alla natura e salutale per me. In ispirito sarò sempre con te.
Herta Lidner, di anni 22 cecoslovacca, arrestata, decapitata dalla Gestapo a Berlino il 29 marzo 1943, scrive:
... Mammina cara, in ispirito ti abbraccio e mi accomiato qui da tutti i miei cari e dalle mie montagne...
Julius Fucik, di anni 40, cecoslovacco, arrestato dalla Gestapo, processato e decapitato a Berlino l'8 settembre 1943, scrive:
... C'è pochissima speranza che io esca ancora una volta a passeggiare, la mano nella mano, come piccoli bambini per il pendio del fiume, là dove soffia il vento ed il sole batte... Ma di là, sui miei monti nuovi, la neve ormai non cadrà più...
Bibliografia
Lettere di condannati a morte della Resistenza europea a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, prefazione di Thomas Mann, editore Einaudi Torino, 1967.
Era appena finita la seconda guerra mondiale, quando una massa di alpinisti, affascinati dalla "stagione degli eroi" degli anni trenta, si mise alla ricerca dell'exploit: tutti volevano fare il VI Grado e a qualunque costo.
Fu un nobile esempio di riscatto rappresentato da uomini che volevano liberarsi dalle angosce e dalle costrizioni della guerra, che anelavano ad una vita libera, umana e gioiosa: la vita sui monti.
Erano i reduci dalle campagne di guerra contro la Francia, contro l'Albania, contro la Grecia, contro la Jugoslavia, contro la Russia, contro la Libia, contro la Somalia, contro la Cirenaica ed in fine contro l'Italia e la Germania nazifasciste e guerrafondaie.
Quelli che poterono ritornarono a "baita" e ripresero ad andare in montagna: austriaci e francesi, italiani e tedeschi, inglesi e jugoslavi: una brigata internazionale.
Ripresero a percorrere liberi e pacifici le vie dei monti, con le scarpe rattoppate, la corda di canapa, pane nero e patate cotte nel tascapane sdrucito, che tante volte gli era servito da cuscino in guerra o in prigionia, e che ancora serviva fra i ruderi dei rifugi diroccati, si proprio diroccati.
Questi erano stati incendiati, sventrati, spogliati dalla furia della guerra, per ordine dei comandi nazifascisti, che impedirono ai non collaborazionisti di avere ricoveri di fortuna in quota per fare la guerriglia, lontano dalle prime linee della guera di posizione e dai micidiali rastrellamenti delle formazioni della SS e dei Repubblichini.
Con la caduta del regime fascista, dall'8 settembre 1943 e fino al 25 aprile 1945, nei 20 mesi di guerra partigiana, andare in montagna assunse il significato di una scelta di coscienza, di impegno attivo, di resistenza nella lotta armata contro il fascismo ed il nazismo. In quei 20 mesi la montagna divenne il rifugio coatto dei ribelli, degli sbandati, la base operativa delle bande, il terreno della sopravvivenza dei partigiani.
La montagna costituì un mobile fronte conteso, in un territorio impervio, dove veniva sperimentata una nuova guerra e dove la ribellione al regime cominciava a vagire.
La resistenza armata fu la conseguenza di un dissenso e di un distacco dal regime che la guerra fece esplodere e di una ribellione spontanea e popolare, che maturò e prese senso e direzione nell'incontro tra giovani (come me) e vecchi antifascisti (come mio povero padre).
La ricordo la guerriglia dei partigiani. Dal 1943 operò attivamente per assistere i militari "sbandati", abbandonati dal governo Badoglio; bisognava sottrarli alla deportazione in Germania. Scappati da Merano, molti Alpini, in divisa e attraverso i monti, arrivarono anche in Val di Ledro e lì furono vestiti di abiti civili affinchè raggiungessero anonimi le loro valli di Brescia e di Bergamo. Molti di loro aderirono poi alle formazioni armate "Giustizia e Libertà".
Ricordo che la loro non era guerra di posizione e nemmeno di prestigio: la fuga era ammessa, anzi, ne fu la prima regola. Alle azioni di fuoco fulminee nei punti strategici, ponti, nodi ferroviari, gallerie, incroci stradali, depositi di armi e munizioni, seguiva una continua fuga, ma allo stesso tempo un continuo attacco. La loro fuga, spogliata del suo significato vile, divenne tattica, che permise di aggirare l'attaccante.
I ribelli, poi chiamati partigiani, vivevano alla macchia sui monti, rubando (sic) generi alimentari e vestiario civile dove li trovavano per non morire di freddo e di fame. Erano male equipaggiati ed armati, eppure sfidavano il munitissimo esercito regolare dotato di ogni comfort, perfino delle ausiliarie mantenute al seguito. Lo attendevano nelle imboscate su un terreno conosciuto palmo a palmo e per sfuggire al fuoco da terra e dall'alto, eseguivano faticosi sganciamenti e ripiegamenti che duravano giorni.
Furono 20 mesi convulsi nei quali i contrabbandieri, ribelli per natura e di mestiere, lavorarono molto per e a fianco della resistenza, organizzando il contrabbandando di armi e munizioni, l'espatrio di condannati a morte, di aviatori americani ed inglesi (colpiti dal fuoco della artiglieria contraerea) e di famiglie di ebrei in cerca di un rifugio sicuro in un'Europa interamente dominata ormai dai nazisti e dai partigiani.
Ma vi fu anche chi approfittò per scegliere un'altra strada. Nell'Italia, divorata dalla guerra di eserciti e di bande armate, esplose la guerra civile e da quell'ampia zona d'ombra che celò gli occulti sostenitori della resistenza, accanto a questi eroi nascosti, emersero spie, delatori, affaristi (profittatori di regime), come in ogni guerra e tempo.
Nell'estate del 1945, a guerra finita, i rifugi dell'arco alpino erano tutti da ricostruire, da ripristinare; erano bisognosi di suppellettili, di materassi, di vasellame, di legna da ardere: per mangiare un boccone caldo i partigiani, ospiti abusivi, avevano bruciato anche i manici delle piccozze e dei moschetti.
Così, a fianco degli alpinisti reduci, una schiera di reduci divenuti gestori, creò in anni di tenaci sacrifici il miracolo della ricostruzione.
Di questi gestori la pubblicistica di montagna non se ne è occupata. Di essi restano frammenti di ricordi. Il loro riserbo fu allora un'autodifesa contro l'invidia dei concorrenti, contro il fisco predatore, contro l'invadenza degli ispettori (ex miliziani) delle società proprietarie. Nessuno di essi divenne ricco: camparono alla bell'e meglio con la famiglia anch'essa sempre impegnata in duri sacrifici.
Dante Ceschini, classe 1910, arruolato nel 1931 nel 6° Reggimento Alpini Btg Trento, richiamato alle armi nel 1939 con destinazione Africa Orientale nel 10° Reggimento Granatieri di Savoia e successivamente arruolato nel Btg Alpini Uork Amba (decorato di medaglia d'argento al valor militare), fu un esempio di reduce-gestore di rifugio.
- In quell'anno, il 1945, scrive Mario Rigoni Stern, ritornavano a casa quelli che erano rimasti. Come nelle sere d'autunno ritormavano alle stalle le pecore, le mucche e le capre a piccoli gruppi o isolate, così ritornavano dalla Germania, dalla Russia, dalla Francia e dai Balcani quelli che la guerra aveva portato via e lasciato vivi. Chi era stato dalla parte dei fascisti si rintanava in casa e non aveva il coraggio di uscire; quelli che erano stati partigiani passavano cantando per il paese con fazzoletti rossi e verdi attorno al collo, e quelli che ritornavano dalla prigionia sedevano in silenzio sull'uscio di casa a fumare sigarette e guardare il volo degli uccelli.
Nell'ottobre 1945, reduce dalla prigionia in Kenia, Dante Ceschini, giunto a Pinzolo si rimboccò subito le maniche per la ricostruzione. La montagna ce l'aveva nel sangue, e dopo l'esperienza fatta al rifugio Graffer al Grostè, dal 1955 tentò l'avventura della gestione del rifugio alla Lobbia Alta, posto a tremila metri, nel cuore dell'Adamello. Quando vi salì per la prima volta, trovò il rifugio ridotto ad una costruzione in rovina. Mancava di tutto, perfino dell'essenziale.
Poi durante anni di sacrifici suoi e della moglie Giuseppina e con l'aiuto di altri, riuscì a trasformarlo in un rifugio accogliente, sicuro e dotato di comfort. Ebbe, fra altri, in qualità di portatore un certo Marco De Tisi. Di buona famiglia, piantò dalla sera alla mattina un posto di lavoro sicuro, a due passi da casa sua, ed accettò il contratto di portatore della Lobbia: tante lire al chilo. La prima volta, l'ho incontrato, carico di 30 chili, mentre sulla morena riposava un attinmo prima di attaccare il ghiacciaio del Mandròn.
A partire dal 1958, i carichi arrivavano fino alla stazione a monte del rifugio Mandròn; poi venivano trasportati con la cràizera fino alla Lobbia, superando un dislivello di 600 metri lungo il ghiacciaio. Con l'avvento della teleferica del Matteròt, Dante ebbe due collaboratori il fratello Giuseppe Ceschini Mariana, teleferista a valle al Pian di Bèdole e Giorgio Lorenzi, teleferista a monte sul ghiacciaio. Lavoratori premurosi, svolsero il loro servizio con scrupolo e diligenza.
Nel giugno del 1968, trascorsi una settimana di vacanza alla Lobbia. Il mattino sciavo sul ghiacciaio, il pomeriggio davo una mano. Stavo nel punto intermedio aiutando il teleferista allo scarico della roba dalle barelle della teleferica del Matteròt con doppia portante, e al ricarico sull'unica barella del secondo tronco tipo va e vieni che arrivava sul piazzale del rifugio, dove stava Dante. Avevo regalato a Giorgio "Il sergente della neve" di Mario Rigòni Stern. In quel grande racconto della ritirata degli Alpini dalle anse ghiacciate del Don, c'era anche parte della storia sua e dei suoi fratelli. Lo leggeva con interesse alla sera e al caldo nella cucina in compagnia di Dante e Pina.
Poi nella baracca della teleferica, fra un carico e l'altro, gli chiedevo notizie della naia negli Alpini, della maledetta guerra, della campagna di Russia e della prigionia.
Ricordo che il dialogo era difficile, frammentato, contorto, sofferto. Ne ho salvato gli appunti, eccoli:
- Al suo paese viveva con due fratelli più giovani. Di essi era il più forte ed assieme lavorava disboscando i monti circostanti. Ma la guerra che cinquancinque anni fa infuriò in tutta l'Europa, lo strappò dal quieto vivere ed assieme a tanti altri Alpini fu mandato a combattere fuori dai confini d'Italia. Dal suo paese partì per primo, arruolato nel battaglione Val Chiese della Divisione alpina Tridentina. Si fece il fronte occidentale francese nel 1940 e nel 1941 la campagna di guerra in Grecia. Poi le tradotte portarono le Divisioni alpine Tridentina (2a), Julia (3a) e Cuneense (4a) ancor più lontano: nell'immense pianure della Russia. Accanto al suo battaglione Val Chiese, comandato dal ten. col Policarpo Chierici, trovò il battaglione Vestòne comandato dal maggiore Enrico Bracchi, dove c'erano arruolati Modesto e Marcello, i suoi fratelli più giovani. Una guerra immane attendeva quei ragazzi, che non sapevano e partirono ugualmente, piangendo ormai senza lacrime. Una guerra nella quale fu tanto difficile conservare l'onore ed attingere ancora alla gloria. Ma come sempre loro Alpini, andarono a combattere e a morire in onore e in gloria.
Quando nell'estate del 1942, tutti e tre arrivarono nella pianura del Don, sul Mondo era il lutto e la morte falciava vite umane, come i contadini le messi nel luglio favorevole. Nel gennaio del 1943, avvenne la ritirata. La 53a Compagnia pesante del Battaglione Vestòne dalle anse ghiacciate del Don, giunse dopo un mese di marcia a poche centinaia di metri dal luogo della salvezza. Ma ai suoi fratelli, appena ventenni, in quel 29 e 30 di gennaio fu vietato di varcare incolumi il viadotto della ferrovia di Nikolajewka. Da allora Giorgio mai più li ha veduti. Dei tre fratelli si salvò lui solo, perché era il più esperto, il più rotto ad ogni fatica. Internato in terra straniera, rimase ancora mesi e mesi; come bestia alla catena continuò però a lottare per sopravvivere.
A guerra finita giunse finalmente a "baita", dove a sua madre impietrita, narrò l'epilogo dell'ultima strage ed il sacrificio dei suoi due figli. Poi trovò in Rendéna un amico sincero, un Alpino che al pari di lui, nei lontani campi di guerra, aveva conosciuto ogni sorta di sofferenza morale e fisica. Gli diede un lavoro estivo per mantenere la famiglia nel cuore dell'Adamello, fra la vetta della Lobbia Alta e Punta Mitraglia, posta a NE della Cresta della Croce.
Ad oltre tremila metri di quota, in un gelido meriggio bufarato, lo ammirai intento al suo duro lavoro. La sua rassegnata pazienza e fortezza d'animo, fu per me una dura lezione.
All'interno della gelida baracca della teleferica, nell'intervallo fra un carico e l'altro, ricordo che si domandava se là, in terra straniera, sulla loro tomba mano pietosa si accostasse a ravvivare la terra inaridita, o se sul terreno della sepoltura sia passato implacabile l'aratro. Se lo chiedeva tormentandosi e inutilmente.
Al momento di accomiatarmi da lui, ricordo, gli dissi soltanto:
- Addio, Alpino. La tua croce si fa sempre più pesante e solo quando ti sarà piantata sulla tomba si dirà che l'hai portata da vero Alpino. Addio.
Bibliografia
Guerèt Rampagaröl, Giuseppe Leonardi, Editrice Rendena 1993.
Il bosco degli urogalli, Mario Rigoni Stern, Editore Einaudi, Torino, 1970.
Nel luglio 1877, una trentina di soci della disciolta Società Alpina del Trentino diramarono una circolare all'insegna del motto "Excelsior", intesa a costituire una Società degli Alpinisti Tridentini (S.A.T.) con sede in Riva del Garda.
Lo statuto del nuovo sodalizio, preventivamente approvato dall'Imperiale Autorità Austro-Ungarica, fu approvato dall'assemblea costitutiva nella seduta dell'8 luglio nella sala consiliare del Municipio di Riva.
É scritto nell'Annuario di quell'anno:
"L'invito non cadde a vuoto. La mistica parola "Excelsior" si ripercosse di valle in valle e nel giorno indetto molti alpinisti, giovani e provetti, da tutto il paese convennero nella gentile città di Riva, che specchia nel Garda le brune torri della sua rocca. Non erano tutte nuove conoscenze. Molti si erano già incontrati altre volte sugli eterni ghiacciai dell'Adamello e della Marmolada, e si avevano strette le destre sulle cime della Presanella e del Lucco. Ed ora erano qui venuti per fondare questa nuova società che si propone di proseguire animosa lo studio delle patrie montagne, e ravvivare nell'entusiastico cuore dei giovani il vergine sentimento della bellezza della natura, e abituare l'occhio e il pensiero all'attenta e spregiudicata osservazione dei molteplici fenomeni del cielo e del suolo sul quale viviamo".
Il motto Excelsior, già presente negli scritti sociali del CAI, in effetti sottintese un serio obiettivo scientifico, sull'onda dell'ottocentesca fede nel progresso positivo, sintetizzata dal motto "più in alto!", del cui gli alpinisti si sentivano gli alfieri consacrati.
Nella prefazione a "Il Monte Cervino" di Guido Rey, Edmondo De Amicis (l'autore del libro Cuore) scrisse fra l'altro: "...un uomo (Rey) per cui il motto excelsior non fu soltanto il motto dell'alpinismo, ma la norma di tutta la vita...".
Un tema allora straordinariamente di moda in Italia tra gli alpinisti grazie ai successi del fisiologo torinese Angelo Mosso con l'opera edita da Treves "Fisiologia dell'uomo sulle Alpi". In seguito l'opera fu aggiornata e tradotta in inglese e Mosso fu instancabile promotore degli studi sulla fisiologia di alta quota. La capanna Margherita, inaugurata nel 1893 su iniziativa della Famiglia Sella e sempre apertamente sostenuta dalla Regina di Savoia, che le ha concesso il suo nome*, fu ampliata negli ultimi anni del secolo per poter ospitare il Laboratorio Internazionale di Fisiologia, attivo dal 1902.
Nel 1907, Mosso coronò la sua carriera inaugurando l'Istituto di fisiologia alpina al Col d'Olen, a 3000 metri di quota, che divenne una sorta di "campo base" per i test condotti alla Capanna in vetta alla Gnifetti. Il titolo di vanto più in vista resterà comunque per decenni alla Capanna Margherita, grazie al tangibile primato di più alto rifugio del mondo.
Successivamente il medico Filippo de Filippi nella spedizione al Karakoràm del 1909, organizzata dal principe Luigi Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi, difende la finalità scientifica della spedizione e nella conclusione della sua narrazione dell'ascensione di Luigi Amedeo con le guide Joseph Petigax, Henri ed Emile Brocherell del Bride Peak di 7498 m afferma: "Il punto più alto raggiunto da S.A.R. supera di 213 metri la maggiore altezza cui l'uomo era arrivato prima di lui in montagna".
Altri studi si susseguirono di illustri ricercatori che acconsentirono all'uomo il raggiungimento di tutte le più alte vette dei continenti. Ma la conoscenza degli effetti fisiologici della quota sull'uomo furono ancora per anni materia di ulteriore indagine scientifica e riservati ad un'élite alpinistica.
"Molti tentativi sono stati fatti per esporre in un solo libro le principali nozioni di fisiologia e di fisiopatologia in rapporto con l'attività alpinistica: spesso però, per restare nel carattere divulgativo, sono risultati banali ed inutili, oppure, nell'ipotesi più rigorosamente professionale, si sono rivelati invece poco pratici e per lo più non accessibili a tutti. Adesso Melchiorre Foresti*, compagno di tante scalate alpine e di una avventurosa esplorazione patagonica, già primario ospedaliero di radiologia, pubblica "La fatica di salire e la fatica di capire" e questo suo lavoro mi pare proprio che risponda esaurientemente alle aspettative dei molti".
Con questa premessa Walter Bonatti presenta il volume di 176 pagine, scritto con un linguaggio dotto e chiaro, documentato con grafici ed esemplificazioni, corredato da fotografie di effetto, con esempi tratti da esperienze veramente accadute e personali, il tutto curato in un'edizione di classe.
La seconda presentazione è del presidente generale del CAI Roberto De Martìn, mentre la prefazione è firmata da Gianguido Rindi, ordinario di fisiologia umana all'Università di Pavia, il quale fra l'altro scrive: "Gli spunti di garbata satira per i modernismi e le diavolerie insensate del progresso si alternano a timide e preziose citazioni da "buone letture", come si diceva un tempo in base alla vecchia regola, che il medico è anche umanista. Così accanto a Galileo, Montaigne, Göthe, Leopardi, trovi Rilke, Cioran, Dinouart ed Alce Nero".
Il corpo del volume è diviso in due parti: la prima tratta della fisiologia, la seconda della fisiopatologia della montagna.
L'autore ha voluto dedicare la sua fatica "A Catullo Detassis, che amò la montagna e la frequentò in silenzio, con umiltà, lealtà e generosità, conoscenza e rispetto, ed a tutti coloro che si comportano come lui".
All'amico Melchiorre la Redazione di Rendena, a nome anche di tutti coloro, che lo hanno conosciuto, lo hanno stimato e letto in quest'opera, porge un sincero ringraziamento.
* La regina Margherita di Savoia aveva concesso anche a Stefano Yocca di battezzare col suo nome l'elegante cima che si eleva isolata tra la Cima Tosa e la Brenta Bassa, salita il 15 sett. 1885.
* La tratta centrale della via delle Bocchette Alte è stata finanziata e dedicata dai Figli a Mamma Foresti.
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