Rendena undiciRendena - Quadrimestrale di cultura, d’attualità, e d’informazione editoriale. Numero 11 - Luglio 1997 - Copyright © Ediren di Piergiorgio Motter - 38079 Tione (Tn) - Tel. 0465/321220

Associato Uspi - Unione Stampa Periodica Italiana - Autorizzazione Tribunale di Trento n. 898 del 13 marzo 1996 Direttore: Piergiorgio Motter - Direttore Responsabile: Valter Paoli.

Il periodico, libero strumento di confronto, è aperto a tutti i lettori su problemi ed analisi della Rendena riguardanti l’ambiente, la società, la storia, la letteratura, la tradizione, l’arte.

Collaboratori:
Giuseppe Leonardi - Daniele Ribola - Dante Ongari - Sergio Trenti - Cesare Maestri - Tranquillo Giustina
Antonio Scarazzini - Claudio Dallagiacoma - William Belli - Rudy Cozzini - Giampaolo Mosca
Massimo Dalbon - Luisa Pedretti Romeri - Luigi Loprete - Claudio Betta - Grazia Binelli - Luciano Colombo
Mino Bordignon - Giuseppe Ciaghi - Terri Maffei Guerét - Aldo G.B. Rossi - Giovanni Cristini - Silvio Tardivo
Erminio Rizzonelli - Aldo Collizzolli - Mario Cossali - Laura Paissan - Sergio Pedrocchi - Danilo Mussi
Matteo Maturi

Pubblicazioni della Editrice Rendena:

Tranquillo Giustina, Il deserto armonioso, 1986
Tranquillo Giustina, Marco da Caderzone, 1987
Tranquillo Giustina, La bianca fioritura, 1987
Alberto Mognaschi, Bondo e Breguzzo nel 1800, 1988
Tranquillo Giustina, L'arazzo e la spada, 1988
Tranquillo Giustina, La luce d'Arianna, 1989
Tranquillo Giustina, I principi mandano araldi, 1989
Dante Ongari, Padre Fabian Barcata, Artista di guerra in Giudicarie, 1990
Tranquillo Giustina, Il silenzio del fiore, 1990
Tranquillo Giustina, La Rendena dei malefici, 1991
A cura di Fiore Bonenti e Alberto Mognaschi, 1992Proverbi a Bondo e Breguzzo, Epatta Lunare,
Alberto Mognaschi, Bondo e Breguzzo dalle origini al 1700, 1992
Tranquillo Giustina, L'ultima estate, 1992
A cura di Giuseppe Leonardi, Detassis, 1992Gigante della Montagna, Guardi il Brenta e pensi a Bruno
Douglas William Freshfield, Le immense cattedrali, Introduzione di Tranquillo Giustina, 1993
A cura di Giuseppe Leonardi, Gueret Rampagaröl, 1993
Tranquillo Giustina, Il cielo non finisce mai, 1993
Rendenarte, Artisti e poeti in Val Rendena, 1994
Alberto Mognaschi, Canzoniere di Bondo e Breguzzo, 1994
Adi Battista Mussi, Memorie di guerra prigionia e liberazione, 1994
Loreto Leone - Silvana Parolari, Coscienti sulla strada, 1994
don Celestino Lorenzi, Rendena Arte e Vita, 1995
Pasquale Pizzini, Pagine sparse, Vicende e storia di Roncone e delle Giudicarie, 1995
Don Santo Amistadi, Notizie intorno ai sacerdoti e religiosi nativi di Roncone, 1996
Fiore Bonenti, Glossario dialettale di Bondo e Breguzzo, 1997
Paolo Cominotti, Par quatru cunomichi, Poesii in dialet da Pinzöl, 1997
Ruggero Dorna, Luigi Loprete, Danilo Mussi, I segni dell’anima, 1997
 
Gli avornielli, collana di poesia
 1 - Tranquillo Giustina, Il cuore e la rondine, 1994
 2 - Grazia Binelli, Buciàti, poesie in dialetto della Val Rendena, 1996
 
Excelsior, collana di narrativa
 1 - Tranquillo Giustina, La primavera di Dio, 1995
 2 -Giustina, 1996 Nepomuceno Bolognini, Fiabe e leggende della Rendena, Introduzione di Tranquillo
 3 -1997 Emanuele Mussi, Altri Tempi, Storie del Passato per i nipoti del 2000, Inverno - Primavera,
 4 - Nepomuceno Bolognini, Leggende del Trentino, Introduzione di Tranquillo Giustina, 1997
 5 -1997 A cura di Giuseppe Leonardi, Guerèt Rampagaröl, Diario della Guida alpina Clemente Maffei,
In preparazione
 6 - Grazia Binelli, Tant par ciaciaràr, Racconti in dialetto, 1997
 7 - Emanuele Mussi, Altri Tempi, Storie del Passato per i nipoti del 2000, Estate - Autunno, 1997
 8 - Tranquillo Giustina, La veste viola, 1997
 9 - Nepomuceno Bolognini, Le Maitinade, Introduzione di Tranquillo Giustina, 1997
10 -1998 Douglas William Freshfield, Le torri irraggiungibili, Introduzione di Tranquillo Giustina,
11 -seconda Douglas William Freshfield, Le immense cattedrali, Introduzione di Tranquillo Giustina, edizione, 1998

Sommario

Editoriale - di Piergiorgio Motter
Prima che sia troppo tardi - di Tranquillo Giustina
Associazione Astronomica Madonna di Campiglio - di Matteo Maturi
I doni di Nepomuceno Bolognini - di Danilo Mussi
La felicità delle cartoline - di Aldo G.B. Rossi
A ricordo di un vero amico: Giorgio Binelli
Quella famosa rapina avvenuta a Campiglio - di Luciano Colombo
La Via Crucis di San Vigilio a Sorano - di Giuseppe Ciaghi
Sergio Trenti - Conosciuto da vicino - di Giuseppe Leonardi
L'obiettivo di Claudio Dallagiacoma - Il mio bel San Giovanni - di Tranquillo Giustina
Collegamento sciistico? - di Luisa Pedretti Romeri
Guerèt Rampagaröl - Prefazioni alla seconda edizione del volume
- Quanto rimane- di Silvia Metzeltin
- Guerét nomade d'alta quota - di Giuseppe Leonardi
 
Editoriale
La nuova emergenza

L’odierna ideologia del facile e comodo benessere ha contagiato, come un’illusoria epidemia, anche il campo del sapere.

Il sapere per molti sta diventando un prodotto d’agevole consumo, un affare da pagine gialle, un’opportunità da enciclopedia a dispense. Non solo, ma un tale concetto di cultura allegra e disimpegnata sembra destinato ad affermarsi sempre più, stante il complice silenzio steso sulla cultura vera, sofferta, sacrificata, quale fu nei secoli sempre. E sempre sarà.

E’ il grande inganno del nostro tempo quello di considerare il sapere un bene quasi negoziabile, proposto da quei supermercati dell’istruzione e dell’erudizione che sono i mezzi multimediali. Questa infatti - tra le molte emergenze che affliggono e degradano la nostra società - è la nuova emergenza, la più pericolosa, la più deleteria, classificata (alle soglie del duemila) come un vero e proprio "analfabetismo": l’analfabetismo ambientale di chi - imbottito e soddisfatto di effimere nozioni e di generiche informazioni rinnega, o addirittura ignora, la cultura elementare, semplice, sorgiva, genuina della sua terra, del suo passato, della sua tradizione, in una parola della sua identità: quella cultura senza la cui base è inimmaginabile ogni altro profondo e ben agganciato arricchimento conoscitivo.

In questa luce - e in questa prospettiva - «Rendena undici» ancora una volta può dire d’aver tenuto conto, nella sua impostazione del dovizioso e inesauribile entroterra culturale della valle, presupposto primo per un valido sicuro cammino intellettuale, preservato dalle fatue virtualità e pianificazioni correnti.

Dalla presentazione della seconda edizione di «Guerèt Rampagaröl» alla palpitante cronaca di Luciano Colombo, al partecipe elzevìro su Pinzolo di Giuseppe Ciaghi, all’omaggio elegiaco di Aldo G. B. Rossi per le «cartoline dolomitiche» di Giovanni Cristini, allo stupendo «obiettivo» su Massimeno di Claudio Dallagiacoma, al fraterno «Sergio Trenti» di Giuseppe Leonardi, al ricordo di Giorgio Binelli, al pressante documento tecnico (e non solo tecnico) di Luisa Pedretti Romeri, alla coinvolgente offerta scientifica di Matteo Maturi, alle preziose collaborazioni di Danilo Mussi e di Tranquillo Giustina, Rendena undici ritiene d’aver assolto in pieno il suo compito, affinchè - alle inevitabili emergenze della nostra terra - non s’aggiunga l’emergenza nuova di cui s’è detto, quella culturale.

Piergiorgio Motter Editore

Pelugo, 14 luglio 1997

 
Prima che sia troppo tardi.
di Tranquillo Giustina

Vi fu un’età dell’oro anche per la Rendena.

Un’età di giorni sereni. O - se preferiamo - serenanente abbandonati alla terrena sorte. Quando l’uomo, consapevole del proprio limite e della propria fragilità, costellava i luoghi della sua vita, e della sua fatica, di piccoli "sacelli" che gli ricordassero presenze sovrumane, incurvate su di lui. Quando, lungo la ragnatela dei suoi percorsi, egli poneva il conforto delle croci, dei cippi sacri, delle memori edicole, delle cappellette votive, a rasserenare il suo nebbioso pellegrinaggio con un po’ di Cielo. Quando attraverso quei georgici sentieri - quasi a una luminaria di "lampade fornite" - ininterrotta si rinnovava la parabola delle veglianti vergini in attesa dell’ora nuziale.

In realtà ancor oggi - pur con le poche testimonianze rimasteci - la saga d’un crocifisso campestre, il pallore d’un affresco devozionale, il rudere d’un pio tabernacolo, continuano a rivelare il modo indubitabile con cui l’uomo - sempre - cerca di sollevare lo sguardo al suo mortale destino, di dare perciò speranza al suo dolente esilio, di redimere la sua perdurante preistoria.

Sono gli umili ma eloquenti "segni dell’anima", tuttora presenti in questo nostro tempo di materialistici trofei. E ognuno di codesti "segni" (anche il più primordiale, anche il più logorato, anche il più derelitto nell’odierno assalto di tanti altri segni) grida l’innato umano desiderio di pulsare con il palpito puro ed alto dell’universo.

Profonde, solenni, maestose, a tal proposito risuonano (e sempre risuoneranno) le parole di Plutarco, il sommo sapiente dell’antichità: "Noi siano disposti ad avere città senza mura, città senza leggi, città senza scuole, città senza commerci, città senza memorie storiche, città senza feste, città senza monumenti, ma non mai città senza simboli consacrati alla Divinità. Guai a noi se ciò dovesse accadere! Sarebbe come finire prigionieri, anzi schiavi, di una città senza sole".

Un’opera encomiabile quindi - e un’occasione culturale quanto mai opportuna - è stata offerta dall’editore Motter di Tione con la pubblicazione del recente e compiuto "studio" sul capitello rendenese delle quattro facce che, per intere generazioni, fu scrigno di memorie, monito di fiducia in Dio, conforto nelle prove della vita, nonché "gioiello monumentale" di valle. Poiché forse è giunto il momento - nell’arida saturità di tanti moderni apporti edilizi - di ricominciar ad accorgerci di queste singolari preziosità; di tornar a soffermarci estasiati a tante meraviglie di religiosità popolare; di voler finalmente considerarle nella loro autentica ed inesauribile valenza storica, artistica, e trascendente. Guai a noi - potremmo aggiungere, rifacendoci ancora a Plutarco - se, per ammirare gli attuali prodigi viari dell’asfalto, dimenticassimo gli incanti e le dolcezze dei sentieri antichi. Guai a noi se, per godere le dilaganti proposte turistiche d’una accanita urbanizzazione, rinnegassimo i doni limpidi e semplici della nostra primigenia tradizione. Guai a noi se, per gloriarci delle superbe storie del passato, stimassimo non degne d’attenzione e di riguardo le umili indicazioni d’un’epigrafe, d’un dipinto murale, d’una sperduta reliquia di pietà agreste.

Bene perciò hanno fatto gli autori (in questa particolare luce) a richiamarsi, nel contesto dell’opera, anche ad altri capitelli, attestazioni di sofferti valori di fede e di sacrificio; fari costantemente accesi - negli immancabili momenti oscuri - della cristiana certezza d’un Infinito in ascolto.

Mai dunque saremo grati abbastanza a coloro (e sono l’architetto Ruggero Dorna per l’accurata competente indagine tecnico-estetica sul manufatto, l’instancabile ricercatore Danilo Mussi per la paziente esposizione e documentazione delle cronologiche fasi operative, e l’artista "rendenese" Luigi Loprete che ha saputo calare il discorso nelle vibrazioni e nelle soavità dei magistrali affreschi del Pupin), mai - dicevamo - saremo grati abbastanza a loro che hanno voluto con tanta chiarezza (e ricchezza iconica), farci conoscere e dettagliatamente apprezzare la validità d’una memoria unica nel cospicuo ventaglio annalistico della nostra valle.

"Un saggio fuor d’ogni dubbio - così conclude la sua acuta prefazione Piergiorgio Motter - che costituirà documento indispensabile ad ogni futura rivisitazione. E, per il quale, quanto mai vere ed appropriate avverto le righe con cui Nepomuceno Bolognini, oltre un secolo fa, chiudeva uno dei suoi più esaurienti scritti sulla Rendena: ‘Ho pensato che forse un giorno potrà riuscire utile l’avere riunito e conservato queste testimonianze di storia e d’arte, che purtroppo per la solita deprecabile incuria sono in via di sparire del tutto’. Righe che - nel pubblicare questo nuovo libro - sento di poter apertamente ed ambiziosamente fare mie".

Righe, in verità, a pieno titolo fatte proprie da un editore che da anni pone sugli scudi - prima che sia tardi - la valligiana profusione di cultura e di grazia a chi ancora non ne ha notizia e a chi, forse, la sta dimenticando.

 

 

Associazione Astronomica Madonna di Campiglio
di Matteo Maturi

Quando il Sole cala e le cime si tingono di rosso, il blu del cielo incomincia ad acquistare una tinta violetta che successivamente lascia il posto alla profondità del cosmo. Magicamente appaiono migliaia di stelle, tutte simili ma immensamente diverse l’una dall’altra.

La grandiosità della volta celeste si sposa magnificamente con le montagne, che stagliandosi sul fondo del cielo sembrano congiungerci con questi mondi così distanti.

Cime incantate, boschi secolari, paesaggi incontaminati, ecco la val Rendena, un teatro ideale per entrare in contatto con ciò che va oltre i confini della Terra. L’assenza di luci, l’altitudine e l’aria trasparente di questi luoghi permette di osservare grandi quantità di galassie, nebulose, comete, pianeti e tutto quello che compone il nostro Universo.

Non tutti, come noi, hanno la possibilità di godere di uno spettacolo unico e grandioso semplicemente affacciandosi alla finestra.

L’uomo è sempre stato attratto dal cielo, forse affascinato da quel velo di mistero e dal senso di potenza che esprime. I primi studi astronomici furono intrapresi già migliaia di anni prima della nascita di Cristo. Babilonesi ed Egizi utilizzavano i moti celesti per regolare la semina e la raccolta nei campi, come anche le popolazioni precolombiane; i Cinesi hanno svolto un’attività scientifica rigorosa, gli Arabi catalogarono migliaia di stelle, assegnando a quelle più luminose nomi che sopravvivono ancora oggi (Aldebaran, Alnitak, Algol, ...).

Diversamente da questi popoli gli Europei hanno avuto un interesse meno spiccato per l’astronomia. Ciò è dovuto alle concezioni filosofiche che la scienza ufficiale seguiva dogmaticamente: la Terra è al centro dell’Universo, la volta celeste è perfetta, incorruttibile ed immutabile, ed è costituita da diverse sfere cristalline.

Solo attorno al 1500 ci furono i primi tentativi per cambiare questa cultura. Ovviamente, l’impresa era ardua, dato che si andava contro la potentissima Chiesa e a tutti gli intellettuali del tempo. Il primo a tentare fu Copernico che "spostò" il Sole al centro dell’Universo. Ma il personaggio che segnò la definitiva svolta fu Galileo Galilei.

Galileo acquisì le raffinate tecniche olandesi di lavorazione ottica, poi perfezionò il progetto del telescopio e per primo puntò il suo strumento verso il cielo, per cercare di svelarne i misteri. Iniziò così la sua avventura nel Cosmo, osservando stelle che nessuno aveva mai visto prima e assistendo a fenomeni planetari tanto sconosciuti quanto affascinanti e sconvolgenti.

Con il suo nuovo strumento, vide che la volta celeste non era poi tanto perfetta. La superficie lunare appariva irregolare e corrugata, con catene montuose e crateri. La fulgida Venere non era un punto perfetto ma un corpo sferico che vibrava di luce riflessa e che, come la Luna, mostrava le fasi, a volte era a falce, altre era quasi piena, ecc.. Giove si mostrava come un dischetto accompagnato da una corte di satelliti (detti satelliti Medicei). A queste osservazioni il mondo scientifico e religioso reagì duramente accusandolo di eresia e condannando il telescopio come uno strumento immondo capace solo di deformare la realtà.

Dopo Galileo la scienza progredì a una velocità sempre crescente. Pensate che attualmente con un binocolo è possibile fare le sue stesse osservazioni (basta sapere dove guardare!).

Questo incredibile viaggio, questa avventura dell’intelletto umano continua ancora oggi. Siamo giunti a visitare la Luna, i pianeti principali del Sistema Solare, abbiamo osservato con telescopi potentissimi, quasar, stelle strane che variano di luminosità, temperatura, colore e dimensione, addensamenti di gas enormi e variopinti, galassie lontanissime nello spazio e nel tempo e moltissimi oggetti dalle caratteristiche "stravaganti".

Oggi presumiamo che l’Universo sia nato dal Big Bang, l’enorme esplosione di non si sa che cosa, dal quale si è generata una grandissima quantità di idrogeno. Col passare del tempo questo gas si è condensato, dando origine alle stelle.

E’ così che da cinque miliardi di anni a questa parte una stella rossa di dimensioni medie, situata nelle periferie di una galassia all’interno di un piccolo ammasso di galassie, riscalda nove pianeti, uno dei quali, di colore azzurro-bianco, è sede di una civiltà di creature pensanti.

Da questa brevissima storia si capisce che, dell’Universo, l’uomo sa tanto ma ancora poco e che di pianeti come la terra ce ne potrebbero essere a migliaia.

Ecco il fascino dell’astronomia, una materia vastissima che affascina con i suoi misteri e i suoi incredibili spettacoli.

Cerchiamo di partecipare a questa avventura intellettuale, ammirando quello che il cielo ci offre. Noi "Rendeneri" siamo favoriti per questo. Il nostro cielo non è soffocato dalle luci cittadine, ci basta solo aspettare una notte illune per alzare gli occhi ed ammirare "l’altra metà del paesaggio".

Per qualsiasi informazione su qualsiasi corpo celeste potete rivolgervi all’Associazione Astronomica Madonna di Campiglio, che sarà lieta di rispondere a tutte le vostre domande e di fornirvi di materiale utile ad approfondire le proprie conoscenze in ambito astronomico.

Buona visione a tutti!

 

I doni di Nepomuceno Bolognini
di Danilo Mussi

Quanto tempo! Troppo ce n’è voluto prima che ad un grande personaggio si sia pensato di rendere giusto merito. Manca poco alla commemorazione dei cento anni dalla sua morte e finalmente qualcosa e qualcuno si sta muovendo per riscoprire la figura di Nepumuceno Bolognini, poliedrico protagonista di un importante periodo storico-culturale della nostra terra.

Industriale, combattente, patriota, avvocato, alpinista, scrittore, ricercatore ed etnografo, il Bolognini si trovò ad affrontare nel corso della sua vita tante di quelle vicende che avrebbero dovuto annoverarlo senza difficoltà tra i grandi del suo tempo. Ma fu, purtroppo per lui, rincorso nel contempo da una serie di sfortunate vicende che ogni volta lo reclusero dietro la porta del quasi anonimato, se non addirittura dell’ostracismo. Furono pochi coloro che poterono ai suoi tempi apprezzare la sua opera ed anche quando ciò fu fatto e gli fu reso onore, tutto questo durò ben poco. Un velo nero già coi primi anni del secolo andò velocemente ad oscurare tutto il suo lavoro tanto che del Bolognini molti ancor oggi, anche nella valle che lo vide nascere e che egli tanto amò, molti sono ancora coloro che non sanno neppure chi sia.

E pur tralasciando la grande energia spesa per un ideale patriottico che coinvolse migliaia di trentini ai suoi tempi e pur tralasciando la instancabile azione promossa e volta alla creazione e alla nascita della Società degli alpinisti tridentini, pur validissime ma cronologicamente inserite nel suo tempo, non possiamo assolutamente trascurare la grande azione di conservazione di quel patrimonio popolare che sono "gli usi e costumi" ed anche "le leggende" della nostra Regione.

Studio che il Bolognini prese tenacemente a perseguire dopo aver sperimentato troppe volte la difficoltà di ottenere successi negli altri campi da lui solcati. Fu questa l’occasione per lui di unificare l’amore per la montagna, per la ricerca popolare, per la scrittura, per gli ideali patriottici anche, per la sua terra, per la sua gente. Fu forse un ritorno all’essere fanciullo.

Ora un approfondito esame di quelle vicende che l’accompagnarono per tutta la vita, viste sotto un giusto ed equo profilo è quello che si è accinto a compiere Tranquillo Giustina, un altro rendenese come lui appassionato amante della sua terra. Con una serie di scritti (non ancora conclusi) ha preso ad esaminare attentamente l’evoluzione e la crescita del Bolognini.

La recente edizione di un secondo volume (dopo quello uscito lo scorso anno con le "Fiabe e leggende della Rendena") contenente ora quelle "leggende del Trentino" che già a suo tempo il Bolognini pubblicò a puntate negli Annuari della SAT, avvia una collana che, sotto l’impulso di Piergiorgio Motter dell’Editrice Rendena di Tione animato da una forte volontà di rivalutazione e riqualificazione del nostro illustre pinzolese, trova fortunatamente la generosa e gratificante penna del Giustina a integrare questa riedizione che nulla varrebbe senza questa giusta riscoperta dell’autore.

La prefazione che precede questo nuovo volume (come già lo fu quella relativa al primo), è un lungo elogio, è un’osannante discorso, una lode senza freni che non scivola mai comunque nel vanto, ma che invece riporta al suo reale valore quel tributo che al Bolognini spetta e che per troppo tempo gli è stato negato.

Leggende semplici, nostrane, popolari, ma raccolte e descritte con uno stile letterario incantato, magico. "Pagine inimitabili! Poesia assoluta" la chiama il Giustina citando chiari esempi. E sicuramente non sbaglia. L’attenta lettura di quelle brevi storie ci mostra - come scopre il curatore - quel nuovo modo di sapere che coinvolse il mondo letterario d’allora: quello della cultura popolare. Un mondo nuovo disprezzato dai grandi letterati del suo tempo, ma che velocemente contagiò molti altri costituendo un filone nuovo che oggigiorno riesce tanto più importante quanto più genuino fu lo studio di base.

Fu un lavoro quello del Bolognini attento e certosino condito da ricordi personali, da altri meticolosamente raccolti ed annotati, da storie, modi di fare e di dire, azioni e tradizioni antiche e nel contempo ancora valide e contemporanee (almeno ai suoi tempi). Un mondo folclorico che preziosamente andò ad arricchire le pagine degli annuari della Società Alpina del Trentino e che la Casa Editrice Forni di Bologna pensò bene di ristampare nel 1979 dimenticando però - purtroppo! - di completare quella che poteva essere un’ottima occasione di recupero non solo di un’opera, ma di un mondo particolare, con l’attenta analisi di colui che ne fu il creatore.

Ma difficilmente avrebbe potuto trovare ciò che invece l’Editrice Rendena di Tione con questa nuova edizione ha potuto trovare in Tranquillo Giustina. Un’attento analista che non si è limitato ad analizzare l’opera in se stessa, lo scritto o il mondo che vi è rappresentato, ma ha esteso in modo scrupoloso l’indagine con una completa sezionatura della personalità e della vita del suo autore. Uno studio che è partito dall’infanzia, dalle prime sue imprese volte alla ricerca - o meglio alla concretizzazione - di un ideale che sentiva profondamente anche suo, e poi via via lungo il percoso di una vita segnato da scelte non certo volute spontaneamente: la conduzione dell’azienda paterna, l’abbandono dell’attività di avvocato osteggiata e troncatagli dall’autorità austriaca e le ostilità della sua stessa gente derivanti proprio dall’azienda paterna che assunse lavoratori stranieri anzichè attingere in valle.

Ma ciò che esce da quest’analisi è proprio il riscatto che il Bolognini riesce ad ottenere - purtroppo solo ora! - con la più completa rivalutazione dell’opera letteraria da lui compiuta. Opera letteraria che la cultura italiana e tirolese di allora considerava di seconda importanza tanto che per riprendere delle parole dello stesso Giustina: "per quella letteratura - quanto mai gentile nei temi e negli ammaestramenti - non solo il Bolognini non fu considerato, ma fu (dalla presunzione dei dotti) relegato tra i cultori d’un insignificante sottobosco creativo". Ma proprio di tale cultura che invece stava già più lontanamente (con i fratelli Grimm, Tommaseo, Berchet, Pitrè, Mannhardt e più di tutti il russo Lev Nicolaevic Tolstoj) acquistando quella giusta importanza che oggigiorno le compete, il Bolognini divenne l’antesignano locale o meglio per usare parole del curatore della riedizione "fu - nel Trentino - il divulgatore commovente di quel movimento letterario d’avanguardia - il "folklore" - che veramente appassionò l’Europa, e rappresentò per la prima volta (in forma scientificamente proposta) un nuovo sapere, o (ad essere più precisi) un nuovo godimento del sapere, quello della cultura popolare".

 

Così ora, piano piano, tutta l’opera del Bolognini riemerge nella sua piena validità attraverso questa serie di volumi che raccogliendo in una collana tutti i suoi scritti suddivisi secondo un percorso congegniale che valorizza appieno dapprima l’animo leggendario e fiabesco della sua valle, poi in questo secondo volume quello del resto del Trentino per continuare poi più avanti con le celebri maitinade e poi gli usi e costumi del Trentino, i proverbi ed i modi proverbiali per terminare infine con gli altri suoi scritti meno conosciuti. Ed ad introdurre ogni volume nuove impressioni, nuove lodi, nuovi brani di confronto e di studio sul personaggio, sulla sua vita, sulla sua opera.

E’ un maestro di scuola il curatore di questa riedizione, una persona quindi che ben capisce i ragazzi ed il loro animo fanciullesco, animo che non si perde, ma che rimane insito e reconditamente intriso nella vita anche dell’adulto, e che l’opera del Bolognini riporta a galla perfezionandone il ricordo e stuzzicando questo lato bambino che è rimasto in noi! Lo afferma nell’introduzione al primo volume dell’opera laddove dice "Arde anzi in questa riproposta - ma potremmo dire, per molti, riscoperta - dell’opera più "rendenese" del Bolognini, la speranza che altre le sue opere, portate a conoscenza dei lettori, rendano giustizia ad un personaggio che fama e riconoscenza ben maggiori avrebbe dovuto ricevere per quanto il Trentino raccolse perchè non andasse perduto, ed esaltò perchè anche altri l’amasse, ed impreziosì con il cuore in mano nel commosso "passato remoto" capace di trasformare il lettore - come per incanto - in fanciullo eterno".

Ed è il Giustina anche poeta e narratore e quindi in grado anche di capire la poesia degli scritti del Bolognini, che attentamente vaglia e studia, evidenziando quei passaggi così carichi di vena poetica e di fatata immagine che sovente l’autore inserisce nella sua opera. "Pagine inimitabili! Poesia assoluta! afferma aggiungendo poi come "egli - oltre tutto - seppe usare la lingua italiana con una chiarezza e con una melodiosità, seppure non con la stessa perfezione ortografica, di un Nievo. Di un Fogazzaro. E oserei dire di un Manzoni." E più avanti ancora dice: "Poesia risuonante nella poesia. Parole palpitanti, religiose, quasi bibliche! Portate dal Bolognini ai significati supremi quando, inebriato della sua valle, con vibrazioni immortali scriveva".

Ma come il Bolognini anche il Giustina è un rendenese, ammaliato dalla bellezza di una valle (oggi purtroppo continuatamente minata e snaturata da mire speculatrici) che al Bolognini fu sempre sì cara, tanto che egli stesso arrivò ad affermare "e mi occuperò specialmente di quelle della mia Rendena: mia, voglio dire, nel senso che essa mi fu culla, e perciò credo e crederò sempre cosa giovevole il raccogliere e l’annotare tutto quanto riguarda la mia vita intima passata e presente dei nostri montanari per investigarne poi la storia recondita e lontana, e dedurne previsioni per l’avvenire".

Tutte queste affinità tra autore e curatore ben permettono un buon connubio tra introduzione e testo, tra la vita, l’analisi del personaggio e la sua opera letteraria. Un binomio, una scelta, un incontro che l’editrice Rendena di Tione è riuscita a valorizzare appieno con questa riedizione.

E quindi dopo le "Fiabe e leggende della Rendena" ora arrivano le Leggende del Trentino". Diciannove leggende che interessano varie località trentine e che spesso s’attengono al tema dominante (o comunque sempre presente) delle montagne. Montagna sì cara al Bolognini che fu propugnatore proprio della Società Alpina del Trenino, montagna intersecata con il tema folclorico e popolare al quale tanto teneva. Così "fra le spaccature delle rupi scoscese sovrastanti al bruno Castello di Mezzocorona" narra del basilisco "mostro orrendo e spaventoso"; e così "s’arrampicava su pel monte Casale con ventidue zig-zag" la stradicciola che portava in Giudicarie testimone di un triste delitto; ed è ancora "fra i boscosi monti dell’Anaunia" che si svolge la storia di S. Romedio e di San Zeno e nella"valletta solitaria e remota, quasi in fondo alla valle di Concei" che s’attua la cruenta battaglia tra veneziani e bresciani alla fine della quale "il mormorio straziante dei moribondi si confonde con quello placido e dolce dei ruscelli che corrono giù per le chine del monte".

Più determinante l’apporto della montagna nelle leggende della "Rocca Pagana" la quale "erge superbamente la vecchia e calva cervice al di sopra delle nere boscaglie della Valle di Ledro" e di cui "le sue dirute e brulle pareti calcaree nulla hanno di singolare e di pagano per darsi ragione del nome che porta", o del Monte Tombea dal quale "si gode una vista stupenda, che va a perdersi fra i meandri delle sottostanti vallette e nelle lontane rupi e nei ghiacciai della Valle di Fumo", o della "Marmolata" del quale narra "dalla bocca di qualcuno di questi montanari la leggenda che originò il ghiacciaio ed il deserto odierno" ed ancora del Vajolon dice "il quale con altre cime e costiere forma la catena che separa la valle di Fassa da quella della Val d’Adige che sta poco sotto a Bolzano verso oriente, è solo conosciuto con tal nome nella predetta Valle di Fassa, mentre nell’opposto versante dai tedeschi del Tirolo è denominato Rosengarten, giardino delle rose, ed è invece un giardino di guglie e di cime aspre e dirupate".

E se non è la montagna è l’ambiente circostante, è la natura a far da primadonna o sono gli stessi suoi abitanti I montanari" - come li chiama egli stesso - che sempre vi compaiono. "Una grande prateria e tutt’attorno la selva di conifere spiega le sue ombre e i suoi misteri" dice parlando di San Lugano; "in quest’ultimo tratto del suo corso scorre su di un letto profondo racchiuso fra rupi altissime, che in alcuni luoghi s’avvicinano e s’intersecano a segno che per poco tu ne sia lontano non t’accorgi della profonda spaccatura, mentre avvicinandosi e spingendo lo sguardo in quelle voragini non vi è dato scorgervi l’acqua, e solo un sordo mormorio ne manifesta la presenza" dice collocando topograficamente il  Ponte della Mula". Ed ancor meglio descrive la zona che immette a Vulsana "nell’Alta Val di Sole, ove sbocca la valletta che vien dal Tonale, col suo rabido torrentello e la bella strada militare, s’allarga un romantico bacino, non ampio, ma che colle sue linee variate e bizzare rompe la monotonia della valle sempre ristretta che corre da oriente ad occidente fra due linee di monti, col torrente Nosio e la via carrozzabile nel fondo e i paeselli ridenti sulle chine".

Ma la raccolta non esula da riproporre due leggende legate ancora una volta alla "sua" valle Rendena: "La discesa del Re" narra quella legata alla credenza - non del tutto sfatata - del passaggio di Carlo Magno in val Rendena arrivando dalla Val di Sole attraverso Campiglio, mentre "Nel regno dei demoni" racconta dei demoni che animano le fantasie dei nostri "montanari"; Zampa-de-Gal, Schena-de-mul, Calcaròt, Coa-de-Caval, Manaròt, Belajal ed altri scaturiscono parte dalle sue ricerche, parte dalla sua stessa infanzia. Ed ancora in questi la sua involontaria ma spontanea capacità di inserire la montagna e la natura nei suoi scritti.

E le leggende in fondo custodiscono una verità storica deformata dal tempo, ingigantita e mutata dalle voci ricorrenti, una realtà purgata dai fronzoli e mantenuta nel suo spirito base, tanto da assumere spesso connotati irreali con la trasfigurazione dei posti, delle persone, delle cose. Nascono così i mostri arcani e reconditi spettri delle nostre paure, e così pure i diavoli, le streghe.

Ma non si mutano grandemente i fatti più salienti e dominanti nella storia di certe località, fatti e avvenimenti cruciali, battaglie, agguati, delitti, soprusi, tanto da entrare vivamente nella storia o persino nella toponomastica. Così le leggende illustrate in questo secondo volume dell’opera omnia del Bolognini illustrano ad esempio il Passo della Morte che ricorda un efferato delitto avvenuto sopra le Sarche, o la Valle dei Morti sopra Concei luogo di una battaglia tar veneziani e bresciani, la Rocca Pagana presso Storo che ricorda una lotta tra popoli pagani e barbari,  El Prà de le pegre tra la Val di Ledro e la Valvestino che narra la disgrazia (evento soprannaturale per la leggenda) accaduta a dei pastori lì recatisi a pascolare abusivamente i loro greggi, la località detta Aguai che così chiamasi a ricordo dell’agguato teso dai Fiemmani contro i barbari invasori, Il Ponte della Mula così detto dalla fuga a dorso di mulo del Barone di Castel Cles inseguito dagli sgherri del conte di Castel Tono, El Prà de Vedes che narra dell’uccisione del signore del castello di Vulsana in val di Sole, ed ancora la già citata calata di Carlo Magno attraverso Campiglio e la Val Rendena o la liberazione da parte del popolo del principe Vescovo di Trento dalla prigionia dei signori di Sporo e la sua riconoscenza col dono della grande Croce d’oro di Flavon.

Fatti realmente avvenuti, mitizzati, trasformati, mutati in leggenda dai nostri "montanari" che li hanno conditi con l’immaginario collettivo e l’irreale, abolendo quel confine naturale tra il vero ed il fantastico.

E nelle stesse leggende si avverte anche lo spirito cristiano e religioso che determinò il crearsi di molte di loro. Così le storie agiografiche di S.Romedio e di San Zeno martiri cristiani e di San Lugano santo anacoreta, i castighi divini come nel caso della punizione inferta ai pastori lodroniani della Valvestino, o quella data alla vecchierella avara che raccoglieva erba sulla Marmolada, diventano motivo di riflessione e di dedicazione a Dio.

Alla fine del suo lungo travagliato peregrinare, a compimento della sua poliedrica vita, a parziale riscatto del suo patriottico ideale, ed al" rientro dell’uomo alla sua spiritualità" il Bolognini ritrovò alfine nelle lettere e nei brani popolari la sua più gratificante redenzione. E con la fondazione della Società Alpina del Trentino a Madonna di Campiglio il 2 settembre 1872, e l’uscita degli Annuari sembrava aver trovato - finalmente - uno scopo preciso alla sua esistenza. Ma la gratificazione del suo animo non trovò di pari grado il rientro nel consenso della gente che ancora provava difficoltà nel recepire questo splendido dono che egli faceva loro. Solo ora a distanza di tanti anni capìta l’importanza di questa letteratura culturale folcloristica, capìta l’importanza di ritrovare le perdute tradizioni e l’ossatura della nostra formazione popolare, la gente apprezzerà maggiormente i suoi scritti, la sua opera, il suo generoso e ineguagliabile dono, il suo - ma sicuramente oramai anche nostro - animo fanciullo.

 

La felicità delle "Cartoline"
di Aldo G.B. Rossi

La scomparsa di Giovanni Cristini è ancora così recente, che non si può parlare di profondo rimpianto per la sua persona, ma è doveroso richiamarsi a una ferita viva che richiederà lunghissimo tempo per rimarginare, se mai sarà possibile, completamente.

Io, che ebbi la fortuna di scrivere e pubblicare con lui nel 1985 (per Istituto Propaganda Libraria di Milano) le "Cartoline dalle Dolomiti del Brenta - poesia a due voci", lo voglio ricordare nella pienezza della sua personalità prorompente, sempre pronto a porgere una parola buona, a concludere un discorso o una lettera con una battuta sapida di umorismo.

Le cartoline nacquero dalla fortunata concomitanza di diverse circostanze in origine del tutto indipendenti l’una dall’altra, come Cristini acutamente racconta nella bella prefazione al volume: la visita di Cristini a Campiglio al fratello Piero, ottimo alpinista, le prime liriche scritte in questa occasione, dopo un lungo silenzio di poeta, l’incontro con me a Milano a un premio letterario, nel quale egli era giurato, lo scoprire che anch’io avevo scritto poesie su Campiglio e che, guarda caso, in questa località alpestre abitavo nella medesima palazzotta frequentata d’estate dall’amatissimo fratello Piero.

Le nostre liriche risultavano poi sufficientemente omotetiche per ispirazione e per stile, in modo da suggerire un ulteriore sviluppo di questo colloquio poetico a distanza e da proporre la tipica definizione di "Cartoline", che corrispondeva anche ad una concezione in understatement della propria opera, che poi, certamente per la sua parte, modesta non era affatto.

Nacque allora l’idea della plaquette, alla quale Cristini si dedicò con quell’entusiasmo, che era una delle linee di forza principali del suo carattere e vide la luce così questo volumetto rosso accattivante anche nella sua grafica curata, e nei disegni di Adriano Vignola, aderentissimi al testo e pur vibranti di un fremito personale. L’ditore fu l’Istituto di Propaganda Libraria di Milano, a iniziare una collana all’insegna del giglio rosso, simbolo della bellezza solitaria e inaccessibile della montagna. Il percorso editoriale delle "Cartoline", fu certamente irto di difficoltà, come sempre, ma Giovanni le risolveva una ad una, vivendo l’avvenimento con una grande gioia che era alimentata da più motivazioni ognuna già di per sé rilevante.

Il poter appagare, anche se per brevi periodi, l’amore per la montagna, che da buon bresciano aveva connaturato, l’incontro "ravvicinato" con il fratello Piero, il minore di una numerosa famiglia, la nascente amicizia con il sottoscritto, che diverrà poi un fortissimo legame d’affetto, basato su stima, simpatia e lealtà reciproche, l’amore per la moglie e i figli esaltato da un breve soggiorno alpino e non ultima la soddisfazione di aver ripreso in mano la penna, dopo un lungo silenzio, per scrivere versi che per l’originalità del taglio, il nitore della forma, la profondità dei significati, stanno al vertice della poesia contemporanea: versi che, rotto l’incantesimo, troveranno ampia e significativa prosecuzione nel successivo volume "Week-end in terra straniera", edito con successo a breve distanza e in altri inediti, ci auguriamo, di prossima pubblicazione.

Concluderò questa mia testimonianza evocando la presentazione a Madonna di Campiglio del volume alla Sala Congressi nelle due serate esclusive del 31 Luglio e dell’8 Agosto 1988.

La plaquette, che ebbe una vasta risonanza critica a livello nazionale (come risulta dall’elenco in calce di "citazioni - stralcio" delle recensioni inerenti) e che non ebbe il riconoscimento di un premio letterario proprio per la sua atipicità, fu accolto con entusiasmo a Campiglio, ove l’Azienda di Soggiorno riservò due serate al massimo livello in piena alta stagione, riuscendo ad inserire la poesia della propria montagna nel contesto di una fittissima serie di manifestazioni.

I dieci giorni a cavallo delle due fatidiche date furono giornate di passione, nel segno positivo della parola, impiegate per i contatti con il presentatore e promotore dell’iniziativa Prof. Giampaolo Gandolfo, persona del massimo livello culturale, con i lettori che furono il giornalista RAI Tito Stagno, lo straordinario "cronista" dell’allunaggio americano, e la Prof.ssa Margherita Olivieri, rispettivamente, per predisporre l’accompagnamento musicale, per verificare la resa acustica degli altoparlanti, per controllare l’affissione delle locandine e così via.

Il tutto all’insegna di un entusiasmo e di un afflato amicale che si traduceva in una atmosfera di vera e propria felicità.

Felicità che promana anche da alcuni versi della lirica Neve al Nambino, lirica di straordinaria bellezza, che voglio citare a conclusione di questo mio omaggio elegiaco a Giovanni Cristini.

...

qui dove i pioppi danno ala al vento
e il vento si fa tempo
e il tempo variamente si colora
e controluce l’attimo lampeggia
d’irrimmediabile
felicità.

 

A ricordo di un vero amico: Giorgio Binelli.

Un vero amico se n’è andato. Ma come ogni uomo che ha saputo conquistare e catturare l’attenzione di coloro che lo hanno conosciuto, resterà sempre un esempio da ricordare ed imitare.

Originale, quasi geniale, per il suo vasto campo di interessi che lo appassionavano: l’erboristeria, la fotografia, la poesia dialettale, la lettura delle vicende storiche locali.

Dietro il carattere semplice e sobrio si celava una profonda sensibilità che esprimeva come attento osservatore di chi gli stava di fronte, come discreta riservatezza, come scrupolosa puntualità, come il rispetto per il prossimo.

La vita come sempre riserba momenti dolorosi ed anche lui non era stato risparmiato, ma ciò malgrado ha saputo conservare i propri ricordi con lo stesso spirito con cui ha cercato e colto nella quotidianità i momenti positivi.

Ma io lo voglio ricordare anche per l’amicizia comune che spontaneamente è nata dalla passione per le montagne, per i racconti avvincenti della sua vita di lavoro e della sua gioventù, per le indimenticabili escursioni durante le quali sapeva sempre insegnare qualcosa di nuovo, per l’accoglienza sempre calorosa e sincera, per l’allegria contagiante e per le parole di conforto.

Caro "pinzuler" tutti questi ricordi restano.

Giancarlo

Bolzano, 18 maggio 1997

 

Al Frate pastòr (1)

Dali malghi pü afti
si vic lasù
’n mèz a ’na gula
staià ’ntal cél
n’ campanìl suléngu.
’Al par càl prega: l’è ’l Frate.
L’è ’n gran pastór
di ’n zintinèr di camüc e di marmòti
ca i ghi pascula tranquìi intornu.
Ghi fa curuna lastrun di cròz bianc e grìs,
i sö pé ié trapuntè di stèli alpìni.
 
Ti vè su ’n mèz a ’n tapé di mufdìni,
ca ’l par ’n mar rùs di sànc
smuvù apéna dal vént.
Di colpu ti ghi rivi sùta estasià.
In cul gran silénziu
’n mèz a quìli superbi catedrali
al par ’n fin ca öl al ti dàga l’asoluzión.

(1) Frate: cima simile al Campanil Basso nel gruppo del Carè Alto.

 

Cul vèc ciò di muntagna

Al vardu par ’na maravèia,
l’è vignù vèc e rùgin,
ma plantà amù ’ntal cròz
ormai tüt svérgul cumi ’n agröc.
Ma l’ò furgià mè.
Sai cròz i pü sióri
e zèrti guidi alpini
i à dit: - Ma ’s pöl ’n ciò cumpagn?
Ròba da ciò! -
Ma fòrsi cul ciò
al cùla giü sai cròz
’n pòc di rùgin
e ’l ghi pisa sali scàtuli ...
Cul ciò puröt ...
vèc ciò di muntagna.

3° "Premio Luigi Amech" 1996 a Trento

 

Quella famosa rapina avvenuta a Campiglio.
di Luciano Colombo

In quel lontano 26 gennaio 1979 l’Arma dei Carabinieri stava attraversando uno dei periodi più bui di tutta la sua recente storia repubblicana. La monolitica struttura dell’Arma, sostenuta da una ferrea disciplina militare, era chiusa alle garanzie sindacali di cui godevano tutte le altre forze del lavoro. Questa condizione, aggravata dai modesti stipendi corrisposti, stava determinando la rarefazione delle domande d’arruolamento e quindi una diminuzione degli organici dell’Arma. Inoltre, con l’indebolimento delle stazioni carabinieri, dovuto a molteplici cause, l’Arma subiva, con la morte d’innumerevoli militi, l’attacco che uno spietato terrorismo ed una delinquenza sempre più agguerrita stavano muovendo contro lo Stato. In quella storica situazione, il custode delle tue libertà, che per orgoglio e passione partecipò all’eterna lotta del bene contro il male, non volle mai darsi per vinto. Egli, che poteva essere tuo figlio, od il giovane amico della porta accanto, oppure uno di quei ragazzi che sono sempre presenti nelle circostanze tristi o liete della storia del tuo paese, non mendicò mai scuse per sottrarsi ad una scelta di vita dove il coraggio non era solo dovere.

Alle ore 11,55 del 26.1.1979, così come accadeva in ogni stazione dell’Arma, nella caserma di Madonna di Campiglio l’orologio scandiva i tempi delle varie operazioni giornaliere. Da alcuni minuti era terminato un servizio esterno per cui i due militari interessati, dopo avere scaricato l’armamento in dotazione, avrebbero iniziato a trascrivere i risultati degli incarichi ricevuti. Nel frattempo, l’aitante carabiniere Rino Pedergnana stava cucinando, su un fornello a legna, il frugale pranzo di mezzogiorno. Il piccolo milite Epifanio Pontirolli, libero dal servizio, era affacciato sul davanzale della finestra dove seguiva, con lo sguardo e con il cuore, i passeri del bosco vicino che piluccavano alcune briciole di pane.

Sempre alle ore 11,55 dello stesso giorno, due professionisti del crimine entrarono nella Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, filiale di Madonna di Campiglio dove, pistola in pugno, rapinavano la somma di lire 36.352.000. In seguito, seguendo un piano meticolosamente predisposto, che prevedeva di ritornare a Marilleva con gli impianti del collegamento sciistico, i malviventi si allontanarono con un automezzo di provenienza furtiva. Dopo avere abbandonato il veicolo e raggiunta l’autorimessa del Centro Rainalter, si travestirono con un abbigliamento sportivo. Indi nascosero, in un bidone per le immondizie, gli indumenti che indossavano al momento della rapina. Uscirono, poi, dal fabbricato e si confusero fra le centinaia di persone che affollavano la località turistica.

Alla ricezione della telefonata annunciante l’avvenuta rapina, i carabinieri, nel particolare torpore che accompagnava ogni mezzogiorno, si calarono improvvisamente nella cruda realtà che sempre seguiva l’indagine riguardante l’esecuzione di un grave reato. Conseguentemente, i carabinieri Guido Ioris, Rino Pedergnana ed Epifanio Pontirolli, afferrarono le armi di dotazione e, non avendo un automezzo di servizio, salirono velocemente su una loro autovettura. Poi, rinunciando all’improduttiva costituzione di un "posto di blocco", previsto in una delle zone periferiche di Campiglio, percorsero, scrutando ogni passante, le Vie della cittadina. Quando giunsero nei pressi della Funivia Pradalago, il carabiniere Guido Ioris incrociò lo sguardo di un viandante, che indossava uno zaino di colore rosso. In quello sfuggente cipiglio, il carabiniere lesse tutta l’ansia e l’apprensione che avrebbe pervaso anche il più incallito dei delinquenti dopo la consumazione di un grave delitto. Con questo sospetto, il carabiniere Guido Ioris decise di controllare il forestiero che, assieme ad un altro sconosciuto, stava dirigendosi verso la stazione di partenza della funivia Pradalago.

I carabinieri, scesi dal loro automezzo, andarono incontro ai due individui i quali, vedendo il nereggiare delle loro uniformi, improvvisamente si divisero. Uno di loro raggiunse l’entrata della stazione di Pradalago, subito seguito dal carabiniere Epifanio Pontirolli, mentre il secondo, camminò in direzione dell’autorimessa delle funivie dove, improvvisamente, estrasse una pistola e la puntò contro i militari. A questo punto, gli eventi, tragicamente uguali nella violenza che rivelerà la tempra dei due banditi, avrà uno svolgimento parallelo. I carabinieri Guido Ioris e Rino Pedergnana, pronti a fare fuoco, puntarono le loro armi contro il malvivente ingiungendogli la resa. Sull’altro fronte, situato all’interno della stazione di partenza per Pradalago, l’impavido Epifanio Pontirolli, dopo avere inserito la pallottola in canna, intimò, al secondo malfattore: "Mani in alto!".

In quell’attimo, dove una vita poteva spegnersi nella breve esplosione di uno sparo, i tre carabinieri ebbero un’esitazione. La loro riflessione, che non era vigliaccheria, ma solo l’intimo ed istintivo credo in un comandamento di Dio, nacque pure nella consapevolezza che i carabinieri non dovevano né avrebbero mai sparato per primi. Ed in quell’istante, dove pensiero, coraggio ed inquietudine si fusero in un equilibrio di cosciente determinazione, la società ritrovò, nel cuore dei tre carabinieri, il palpito e lo spirito del più nobile dei sentimenti umani. Fu così che l’impeto dell’azione rimase sospesa su quel dito, fermo sul grilletto, dove pulsava tutta l’ansia della loro trepidazione.

In quel momento, il piccolo carabiniere Epifanio Pontirolli correva il rischio di sacrificare la sua vita; infatti, il rapinatore, che atleticamente lo sovrastava per forza e statura, gli si avventò contro e con entrambe le mani cercò di disarmarlo. I due caddero lungo le scale. Nella lotta che ne seguì, il malvivente, nonostante la resistenza opposta dal carabiniere, riuscì a torcergli la mano che stringeva la pistola, indi gliela trascinò sino sul mento. Il malfattore cercò poi di premere su quelle dita, che uncinavano il grilletto, al fine di provocarne il cedimento e quindi lo sparo. In quegli angosciosi attimi il carabiniere vide, con sgomento, il riverbero dell’acciaio che incombeva sul suo viso. Poi, nello spasmo dei suoi sensi, dove un’improvvisa stanchezza anticipava l’imminente fine, percepì l’alito della morte che stava per ghermirlo. Con un urlo, gridato dal profondo della sua disperazione, riuscì a trovare quelle riposte energie per non morire di propria mano. Si svincolò. Subito dopo, il delinquente cercò di estrarre la pistola P.38 che custodiva all’interno dello zainetto; ma il giovane carabiniere, mai domo nel suo temerario ardimento, come un mastino si avvinghiò al collo del malfattore, e fu di nuovo cimento. La fune della funivia, scorrendo sulla mastodontica ruota motrice, con il suo stridore coprì il mugolio dei due contendenti che rotolando sui gradini, sino all’entrata dello stabile, lottarono ancora per la vita e per la morte. A questo punto l’operaio Lindo Vidi, che aveva seguito quell’incredibile scena, fugò le sue ritrosie e si gettò nella mischia. Il rapinatore Remo Monticone fu, così, ridotto alla ragione ed ammanettato.(1)

Sull’altro campo, dove la brezza che proveniva dalla valle di Nambino sferzava volti e formava vortici di neve, i carabinieri inquadrarono, nel mirino delle loro armi, il bandito che brandiva la propria pistola. Il delinquente, già sospettato d’avere ucciso due carabinieri, si rese conto che non aveva possibilità di scampo. Inoltre, il malfattore, era consapevole che esplodendo un solo colpo contro di uno dei due militari, l’altro milite lo avrebbe fulminato. Nel frattempo, ignara di quanto stava accadendo, la signora Paola Bernetti scese da una vicina autovettura Golf GTI. Il criminale vide, nell’avvenente signora, una possibilità di salvezza. L’afferrò alla gola. Le serrò il braccio attorno al collo e la strinse a sè. Poi, premendole la canna della pistola contro la tempia, gridò che l’avrebbe uccisa se i carabinieri non avessero deposto le armi. L’inattesa ed imprevedibile situazione, con il conseguente pericolo di colpire l’ostaggio, suggerì, ai due carabinieri, la rinuncia a fare uso delle armi ma non a recedere dalla loro azione. I due carabinieri, scambiandosi un cenno d’intesa, iniziarono, lentamente e con le armi in pugno, ad avanzare in direzione di quella canaglia. Decine di turisti, con il cuore in gola, assistettero a quella straordinaria sequenza della vita dove, la realtà, stava divenendo leggenda. Due carabinieri, protetti solo dallo scudo della loro fede, stavano affrontando, a viso aperto, la criminale follia di un temibile bandito. Il rapinatore, che nel dispregio della vita aveva fondato il proprio credo, rimase sconcertato da quella visione. Quelle due uniformi, che nereggiando nel biancore della neve erano insensibili alle sue minacce d’assassinio, sovvertivano una dottrina delinquenziale in cui credeva. Si sentì perduto. In un ultimo disperato tentativo per sottrarsi alla cattura urlò, al conduttore Fortunato Olcelli, di scendere dalla Golf GTI. Intimò poi, a Carmelo Ghiselli, di rimanere seduto sul sedile posteriore dello stesso automezzo. Allontanò la donna e salì sull’autovettura. Mise in moto l’auto e quando con un’improvvisa sterzata stava guadagnando l’agognata fuga, un preciso colpo, sparato dal tiratore scelto Guido Ioris, gli afflosciò un pneumatico del veicolo. Tommaso Bagnato, alias Luciano Albanese, poi identificato in Giovanni Misso, scese dalla Golf GTI e si arrese. (2)

Trascorsero alcune ore.

Era quasi buio. Una fioca luce illuminava l’austera stanza dove il vento di tramontana, soffiando fra gli stipiti della finestra, suscitava, nell’animo di quel ragazzo, un’insolita malinconia. Inoltre, il freddo invernale, proveniente dagli spifferi dello sconnesso battente, stava disegnando arabeschi di ghiaccio nel luogo in cui, come in uno specchio, si riflettevano le forme del carabiniere. Il piccolo milite, seguendo i suoi pensieri fermi su quell’angoscioso riverbero di luce, fissava l’infinito posto di là del vetro e del bosco vicino. Non vide gli amici del mattino ma un’immagine resa evanescente da quella miriade di goccioline che stavano cristallizzandosi sul vetro. Vide poi che quella figura, quasi fosse un’anima, era simile alla sua. Si toccò il viso; ed in quel momento, come se si fosse svegliato da un incubo, si accorse che era vivo. Ebbe un tuffo al cuore. Poi, pensando agli affetti più cari, provò un’intima ed inattesa emozione. Si commosse, e non seppe trattenere quella lacrima che lo stava restituendo alla sua silenziosa vita.

I nomi dei tre giovani carabinieri furono iscritti, non ultimi di un lungo elenco che non avrebbe avuto mai fine, sul libro degli eroi dell’Arma.

  • 1) Lindo Vidi, la cui valorosa azione fu decisiva nella cattura del rapinatore Remo Monticone, rimase il simbolo di un comportamento civile che non ha eguali.

    2) Giovanni Misso, fiero ed orgoglioso non volle, durante il processo, che gli fossero riconosciute le attenuanti del caso in merito ad una malattia avuta diciotto anni prima. Egli gridò: "Non sono malato! Sono qui per essere processato e basta! Ho sbagliato e devo pagare!". Giovanni Misso fu condannato a dieci anni di carcere. Al complice Remo Monticone furono, invece, inflitti otto anni di reclusione.

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    La Via Crucis di S. Vigilio a Sorano
    di Giuseppe Ciaghi

    Verso la fine della primavera di quest’anno il Comune di Pinzolo ha avviato un’opportuna serie di interventi di arredo urbano nelle pertinenze della chiesa di San Vigilio a Sorano, tempio celebre per le originali e stimolanti pitture a fresco dei Baschenis raffiguranti il "Ballo della Morte" o "Danza Macabra". I lavori riguardano la sistemazione del piazzale a sud del tempio, i giardini col monumento ai Caduti di Ettore Sottsass senior ed il vialetto di accesso al cimitero con il percorso ed i capitelli della via Crucis. La stradina verrà pavimentata in granito e le edicole saranno ripulite e restaurate a distanza di novant’anni dalla loro costruzione, dovuta ai "maestri muratori" Raffaele Binelli Locin e Raffaele Binelli Tisòr. Le edificarono sul tracciato di una Via Crucis precedente che aveva le "stazioni" dipinte, andata in rovina per l’incuria, l’abbandono e le villanie ad essa inferte dalla gioventù del paese.

    Abbiamo ricavato queste notizie da un’interessante pagina scritta a mano da don Francesco Boldrini nei "Fasti dell’insigne curazia di Pinzolo-Baldino", un documento curioso, che ci offre uno spaccato dell’ambiente e della mentalità della gente nei primi anni del Novecento insieme a qualche preziosa testimonianza sulla località.

    Vi si accenna infatti all’esistenza del "Capitèl dei Mori", di cui si era persa la memoria, e se ne indica il luogo dove era stato edificato, press’a poco dove ora partono le funivie per il Doss del Sabbion.

    Vi affiora pure, nella giustificazione del parroco ai vandalismi dei ragazzi, la considerazione in cui erano tenuti gli ebrei dai cattolici, visti ancora come gli assassini del Cristo; vi è messa in evidenza la generosità della popolazione di Pinzolo davanti alle richieste del parroco, insieme con le ristrettezze in cui essa versava, che si colgono quando vien chiamata a fare delle scelte economiche; compaiono aspetti dei suoi rapporti col culto e la religione, abitudini, come quella di accumulare i sassi ai margini dei prati ed altri aspetti del vivere quotidiano.

    Il curato così si esprimeva, sicuramente in maniera colorita ed efficace:

    "La nuova Via Crucis in granito di San Vigilio.

    Uno degli sconci apparsi per il primo ai miei occhi dopo la mia venuta fu lo stato indecente in cui si trovano i capitelli della Via Crucis a S. Vigilio. Un paio erano stati atterrati, altri erano senza coperto, tutti poi colle pitture barbaramente rovinate dai sassi dei monelli che, forse a sfogar il loro mal’animo verso i crudeli Giudei che tormentarono Gesù, fecero questi oggetto del loro prediletto bersaglio; attorno poi a tutti eranvi ammonticchiati i sassi di tutti i campi vicini, le ortiche, le spine cresciute attorno agli stessi; reclamavano una mano pietosa che li restituisse ad uno stato di maggiore rispetto. Tenni in quest’inconveniente parola ai miei due bravi e zelanti fabbricieri (N.d.a..: erano i responsabili della cura degli edifici sacri ed erano scelti dalla comunità) Maturi Carlo e Bonapace Giacomo i quali non solo appoggiarono la mia proposta di restauro della Via Crucis a S. Vigilio, ma più zelanti di me si presero l’impegno di presentare in Comune un progetto più radicale del mio: abbattere tutti i vecchi, sgomberare tutta la catena dei monti formata dalla marogna lungo i capitelli, allargare la strada sostenendola con un muro nuovo, costruire i nuovi con granito fugato, col coperchio pure di granito e tutto d’un pezzo, ed assieme restauro del muro di cinta del cimitero.

    Avvezzo com’era io ad un Comune che lesinava ogni piccola spesuccia fatta per il decoro della casa di Dio, non potei che ammirare ed approvare tanta buona volontà.

    Venne fatta la proposta in Comune, ma per grado, e con lode dello stesso, venne fatto pure il conchiuso (N.d.a..: così so chiamava la delibera comunale) perfettamente nel senso ideato dai fabbricieri prelodati.

    I capitelli costano in media 140 corone cadauno, senza i gruppi della Via Crucis, essendo troppo breve il tratto della via tra l’incrocio di quella che viene da Pinzolo (capitél dei Mori) e quella che viene da Baldino per porvi 14 capitelli, volendo collocare il capitello della prima stazione precisamente nel crocicchio, si dovrebbe comperare il terreno dai privati, costruire poi quel semicerchio ove ha posto il primo, e collocare gli altri troppo vicini uno all’altro. Sarebbero stati assai meglio sull’altro fianco della strada, ma la linea ancor più breve della medesima, e l’opposizione del proprietario del campo non lo permisero.

    L’opera venne messa all’asta e fu levata dai soci maestri muratori Binelli Raffaele Locìn e Binelli Raffaele Tisòr di Pinzolo, e nel 1906 e 1907 condotta a termine. Secondo le condizioni d’arte tutti i capitelli lungo la serpentina via, dovevano aver la facciata direttamente rivolta alla persona che vi passava vicino, ma per imperizia dei maestri muratori due non furono messi bene; si voleva farli abbattere, ma niuno ebbe il coraggio, per cui la stonatura è permanente. Chi li osserva tutti non durerà fatica trovare quali siano. Anche la struttura degli stessi non è punto elegante specialmente se si vedono al di dietro; si sarebbe desiderato un basamento pronunciato, ma questo non si volle per non aumentare la spesa al Comune e le critiche di varij ai quali sembrava quella spesa del tutto superflua; d’altronde l’eleganza in materiale così ruvido non era facil cosa ottenerla da simili maestri. D’altra parte la solidità dell’opera che sfiderà le età future compenserà i difetti occorsi nella stessa.

    Preparata la nicchia, mancavano i Santi, cioè, mancava una buona mano pittrice che avesse rappresentato ai devoti le scene principali della Passione del N. Signor Gesù Cristo; non che aspiranti mancassero, ma mancarono di quei valenti che assieme ad un lavoro discretamente bello avessero eseguito un lavoro per un prezzo relativamente mite.

    Diodato Massimo, E. Chiocchetti e Donati veronese presentarono le loro offerte, ma furono tutte respinte per il loro alto prezzo. Gli scultori Moroder di Gardena si offersero per eseguirle in legno, altri in bronzo, ma tutti vennero scartati per lo stesso motivo.

    Parve invece a noi di combinare il bello col devoto, l’artistico col mite prezzo, col collocare nelle nicchie gruppi in terracotta color di pietra, tutti d’un pezzo, garantiti (di 50 anni), inalterabili alle intemperie del clima e delle stagioni in queste sicule contrade. Per mezzo della Ditta I. Heindl di Vienna vennero ordinati a Bucs in Svizzera nel 1908 e nel 1909 vennero messi a posto e provveduti d’una ramata di difesa. Costano complessivamente corone 1192 e furono inaugurati con solenne benedizione il 14 novembre 1909 in occasione della Chiesa di una missione, dal M. Rev. padre stimattino Antoniolli Giuseppe superiore della casa di Milano. I documenti di trovano in quest’archivio. La divozione del popolo di Pinzolo per questo pio esercizio della Via Crucis è grande; basta osservare alla domenica dopo pranzo quanti fanno la Via Crucis. E’ una cosa che commuove.

    d. Francesco Boldrini 1912".

     

    Sergio Trenti
    Conosciuto da vicino
    di Giuseppe Leonardi

    "Ricordati che la valenza dell’uomo sta più nelle sue mani che nel pensiero". Con questo distico Sergio Trenti, nella sua bottega a Carisolo mentre ero in ammirazione della tavola che rappresenta il "Cristo in croce" visto dall’alto dell’arroganza e della crudeltà dell’uomo che lo ha crocefisso, mi fece capire che come scrittore non valevo niente, se non costruivo qualche cosa che restasse di utile alla comunità. Sergio nella malattia aveva subito una catarsi che lo aveva santificato e fra i suoi Cristi Lui era quello vivo, quello autentico.

    Poi proseguì:

    "Tutti siamo costretti a pagare a Carónte il dazio al varco dello Stige, ma solo chi riuscirà a farlo con qualche cosa in mano, avrà facilitato l’ingresso nell’altra vita, senza dover soffrire nell’impatto".

    Mi aveva detto: qualche cosa in mano. E Sergio si riferiva al prodotto dell’uomo che lavora e soffre per costruirsi la propria vita giorno per giorno in hac lacrimarum valle.

    Durante tutta la sua vita di raffinato artista, liberò la sua ansia pittorica ritraendo il popolo nel suo mondo di esperienze quotidiane, degne di essere valutate, salvate e collocate a documento della rustica vicissitudine umana. Sergio viveva dell’essenza delle cose semplici, delle minime esperienze, Lui che non salì mai sull’altare eretto dagli uomini, ma che alla vita degli artefici costruì con le sue mani tanti altari. Fu il pittore delle falci per mietere, delle selle da cavallo, dei morsi applicati ai generosi destrieri, della fatica del falciatore che batte la falce, delle lumache a lato della strada e delle cuspidi dolomitiche, salite con la forza delle mani e dei ginocchi.

    Ma anche degli accaniti giocatori della morra, delle joske conturbanti, lascive ed incantatrici, e dei preti oranti dai grandi piedoni scalzi, che vestono paramenti sacri, ma hanno toste facce popolane.

    Fu il modellatore delle mani. Ah, le mani! Lunghe, affusolate, dalle unghie tonde e con le noccole marcate.

    Fu il modellatore delle teste. Ah, le teste! Ben tornite a uovo, con le fronti arrotondate, lisce e calve.

    Due elementi caratterizzanti: mente pensante, laica, vissuta; e mani dure, purificate nella catarsi del sofferto lavoro: cogita et labòra, pensa e lavora.

    Suoi aveva fatti il mulino, le ruote e gli ingranaggi delle macchine idrauliche, i mantici, le forge, le tenaglie, il martello, i bulini, i ceselli, il falcetto per mietere e le mani come uncini, gli uncini dei rampagaröi: gli arnesi dei mestieri del popolo.

    Il disegno fisico in assenza di decorazione, ed i colori intensi, evanescenti ed indescrivibili che realizzava erano una rappresentazione più scultorea che pittorica di ciò che nel dialogo povero e scarno egli sempre sostenne:

    "I miei quadri rappresentano tante piccole vicende incorniciate, entro le quali vengono posti gli oggetti nei quali l’uomo ritrova se stesso, con le sue vocazionali attitudini e quindi con la coscienza di essere parte viva dell’esperienza umana".

    Quando gli dissi: "Tu fai la copertina ed io scrivo il libro del Bruno", mi parve entusiasmarsi come un monello quando gli si chiede di farne una di quelle grosse, ma subito mi chiese: "Del Bruno? Proprio del Bruno?". "Sì - risposi - proprio del Bruno". Allora Sergio si fece serio ed aggiunse: "Sappi che uno scrittore non è potente quando inventa, ma quando preleva la vicenda del singolo dalla disarmonia del popolo e la racconta idealizzandola".

    E Sergio con un amalgama di chiaroscuri fece una sintesi plastica di alpe e uomo, interiorizzò la rudezza estroversa della Guida, fissò nell’occhio e nella mano la tensione morale, esaltò lungo gli spigoli del Campanile Basso l’ansia dell’ascendere. Il disegno impreziosì il libro della biografia "Gigante della Montagna", dedicata a Bruno Detassis.

    Poi gli avevo fatto leggere "Sentieri ritrovati" posto alla fine della biografia della sfortunata guida Clemente Maffei e lo avevo pregato di fare la copertina del libro. Sapeva quanto tenessi a quella mia fatica.

    Con un disegno di notevole capacità di introspezione individuale, Sergio mistificò il volto di Guerèt fermandolo nella placca di Scarazón e con espressionismo realista trasfigurò sulla rupe il Rampagaröl per l’eternità.

    Così fu per il volo obliquo e radente attorno all’Enigma. Gli avevo detto: "Per una storia di oltre cent’anni, fammi una follia!". E Lui mi rispose: "Una follia? Come quella che c’è sopra il letto di Andrea?", il figlio stroncato all’arrivo di una gara di fondo, l’ultimo giorno dell’anno. Ed entrammo nella camera e sopra il letto c’era il volo congelato di un gipéto vero del Brenta. Il periodico "Rendena quattro", cent’anni di storia del Campanile Basso, ebbe per merito suo la copertina con "I Gipéti del Brenta".

    Nell’impianto progettuale dei suoi quadri il disegno è di stile classico anche se in assenza di decorazione; sconvolgenti sono invece le immagini tratte da un’umanità sofferente, laica e religiosa, dissacrante e orante, ma sempre illuminata dalla luce del sole raggiante o della luna piena illuminante.

    Sergio penetrava nell’interiorità dei suoi personaggi e con tratti sconvolgenti li faceva partecipi dei suoi intimi tumulti nella continua ricerca di elevazione e riscatto sulla sofferenza universale. E in ciò coinvolge lo spettatore che dinanzi alla sua pittura viene catturato e fatto partecipe. Per le immagini della ruota idraulica e del telaio per la filatura, e per quelle degli umani sghembi, Sergio ha rubato, e solo perché aveva il dono magico dell’artista, un poco del sapere a Dio, per poterlo donare agli uomini.

    Questo era per me l’amico Sergio, dotato della sregolatezza del genio e della bontà del fanciullo.

    Un artista, che rifuggiva dagli altari, mentre ora lo costringo a salirvi nel nome dell’arte.

    E non lo faccio volentieri, perché a ricordarlo: Ich bin traurig wie der Todt - Ego sum tristis quam mors.

     

    L’obiettivo di Claudio Dallagiacoma

    Il mio bel San Giovanni
    di Tranquillo Giustina

    In una Val Rendena - così bene innestata (con la sua storia e con la sua leggenda) nella "Passione di San Vigilio" e nella "Discesa di Carlo Magno" - una certa toponomastica di Massimeno (Castél, Guardia, Torre) oggi più che mai suona a comprova dell’ancora inesplorata vicenda medievale dell’alta valle.

    Se a ciò aggiungiamo la ragionevole certezza che la solitaria chiesa di San Giovanni non sarebbe potuta sorgere in quell’isolato luogo senza un antico nucleo abitativo accanto, allora il dato d’un sicuro che se scomparso insediamento rimane un’ipotesi quanto mai riconducibile alla primordiale realtà.

    Di certo non potremo assolutamente figurarci il piccolo villaggio che determina la costruzione (più volte rimaneggiata ed ampliata) della prima chiesetta. Così come non sapremo immaginare - ora che la mastodontica "cava" ha sovvertito l’ambiente - le piene, le violenze alluvionali, le tracimazioni del torrente Flanginèch che s’abbatterono sul misero paesino posto a nord di quello che doveva essere poco più di un sacello.

    Sappiamo comunque che quando Simone Baschenis, nel 1533, s’accinse a fare dell’edificio sacro superstite - ma sempre chiesa di Massimeno - una colorata meraviglia d’agiografie, cominciò coll’affrescare sulla facciata il protettore massimo degli irruenti corsi d’acqua, vale a dire quel San Cristoforo dai Baschenis già dipinto sulle chiese di Santo Stefano, di San Vigilio, di Sant’Antonio Abate, luoghi dove gli straripamenti della Val Genova, della val di Campiglio e della Val di Borzago, più volte avevano lasciato il segno.

    Perchè la chiesa di San Giovanni era indubitabilmente la chiesa di una comunità, chiesa che mai sarebbe potuta esistere così bella e così grande senza l’apporto costruttivo, e diciamo pure eroico del poverissimo borgo che le stava appresso. Borgo - nel nostro caso - il più elevato della valle, affacciato sulla distesa lacustre su cui erano affacciati tutti gli insediamenti di Sopracqua.

    E’ convinzione del resto, confermata anche dai molti toponimi un po’ dovunque rimasti, che i miseri sparuti insediamenti rendenesi dell’alta e media valle - avanti l’anno mille - fossero simili a cittadelle gelose ed autonome che si reggevano (come piccoli regni) alla maniera etrusca, sotto il potere dei rispettivi signorotti sicuri nelle loro dimore munite, o - se preferiamo - nei loro castellieri.

    Una di queste cittadelle era Massimeno.

    Dimenticando ad ogni modo ogni ipotesi ed ogni leggenda, e considerando la chiesa di San Giovanni Battista per ciò ch’essa realmente fu, vale a dire la chiesa sbocciata dalla prima autentica "edicola cristiana" dell’antica Massimeno, essa ora è là, documentazione fiorita d’un tempo insondabile ed inimmaginabile; antologia pittorica tra le più pure e genuine della nostra Rendena: con il classico San Cristoforo, guadatore di selvaggi corsi d’acqua; con il Gesù bambino più bello di tutta la pittura bascheniana; con la Vergine in trono, materna e maestosa insieme; con le due figure emaciate ma confortatrici del Precursore e di San Rocco; e tutto questo sul sagrato, prima di mettere piede nell’evanescente interno dove pochi delicatissimi resti d’affreschi fanno rimpiangere i fastosi arazzi murali, i disegni arabescati, i fondali fiabeschi che secoli fa incantarono ed estasiarono la fede e la spiritualità dei tribolati avi. Al punto che non è fare retorica il pensare un Simone Baschenis rivaleggiante - ad oltre un secolo di distanza - con le cadenze narrative del "miniatore" Monte da Bologna nel rifinire alcune esili celestiali creature, ideate "a miracol mostrare".

    In possesso di un tale edificio dal valore incalcolabile, la fortunata Comunità che lo ha ereditato troverà il modo oggi più che mai di conservarlo, di comprenderlo, di valorizzarlo, così che ogni abitante di Massimeno - per la secolare storia e l’irripetibile arte ch’esso racchiude - possa orgogliosamete (e, diciamo pure, "dantescamente") chiamarlo "il mio bel San Giovanni".

     

    Collegamento sciistico?

    Facendo seguito alle considerazioni espresse da Cesare Maestri nel numero scorso del periodico Rendena, relative al collegamento sciistico Pinzolo - Madonna di Campiglio, propongo all’attenzione del lettore il documento stilato dall’Associazione Italia Nostra, relativo allo stesso progetto, documento che venne allegato alle Osservazioni al Piano di Parco presentate nei mesi scorsi alla Giunta esecutiva del Parco.

    Luisa Pedretti Romeri
    vicepresidente di Italia Nostra Sezione Trentina
     
    Le motivazioni turistiche, tecniche e finanziarie
    che ostano alla fattibilità dei progetti di collegamento
    funiviario Pinzolo - Madonna di Campiglio.

    Sui progetti di collegamento funiviario Pinzolo - Campiglio si discute ormai da qualche decennio senza aver potuto individuare una soluzione razionale, che soddisfi almeno i più importanti requisiti sotto l’aspetto turistico, tecnico e finanziario: segno evidente delle grosse difficoltà, di vario genere e non solo per i vincoli di tutela ambientale ed idrogeologici-forestali, che i vari progetti devono affrontare. Queste difficoltà, come ben sappiamo, hanno comportato addirittura il non inserimento di questo collegamento nell’ultima variante al PUP, nonostante le forti pressioni politiche della Rendena.

    Nel seguito illustreremo le motivazioni di carattere turistico, tecnico e finanziario che ostano alla fattibilità del collegamento e che sono all’origine delle difficoltà incontrate dalle varie proposte di soluzione.

    Il collegamento non serve
    alla stazione turistica di Madonna di Campiglio.

    Campiglio, con Folgarida - Marilleva, è già una ski-area sufficientemente ampia e rinomata a livello internazionale, che può contare su oltre 30.000 posti letto a Campiglio più altrettanti a Folgarida - Marilleva (per un totale di 60.000/70.000 sciatori, senza contare il sempre maggiore afflusso di sciatori ospiti nelle valli di Sole e Rendena e di pendolari provenienti dall’esterno di queste aree). Nella situazione attuale questa ski-area appare già satura; addirittura presenta un certo squilibrio tra i posti letto e posti sciatore nell’area Folgarida - Marilleva: squilibrio destinato ad aumentare nel prossimo futuro perché sono previsti ulteriori incrementi di posti letto alberghieri a Daolasa ed un arroccamento rapido dalla stessa località, dal futuro nuovo capolinea della ferrovia Trento - Malè, verso il baricentro della ski-area Campiglio, Folgarida - Marilleva. Campiglio quindi sarà sempre più vocato a fungere anche da area di espansione alla traboccante clientela invernale di Folgarida - Marilleva. E’ chiaro che in queste condizioni un collegamento funiviario con Pinzolo, contribuirebbe solo ad aggravare, specie nei periodi di alta stagione, la situazione attuale già critica di sovraffollamento delle piste.

    Campiglio non ha alternative, deve fare scelte di qualità e non di quantità e quindi, oltre che provvedere alla necessaria pedonalizzazione del centro abitato con il supporto di un sistema innovativo di trasporto pubblico (del tipo automatico e leggero, poco impattante, come proposto a suo tempo dalla prima APT di Campiglio e non la devastante monorotaia sopraelevata tipo Von Roll supportata da centinaia di pilastri in acciaio svettanti fra residence ed alberghi), deve garantire per il futuro un ottimale rapporto tra sciatori e superficie sciabile e porre quindi dei limiti quantitativi, pena lo scadimento ulteriore della sua offerta se non addirittura il suo tracollo. Ideale per Campiglio sarebbe poter raggiungere l’obiettivo di poter controllare l’afflusso degli sciatori e limitarne il numero massimo in base alle effettive capacità di assorbimento della ski-area (idea già suggerita a suo tempo dalla prima APT di Campiglio): è evidente che in questa prospettiva una porta di accesso in più alla ski-area creerebbe maggiori difficoltà di controllo.

    Il collegamento non serve a Pinzolo.

    Anche per Pinzolo e la Val Rendena la scelta di fondo è se puntare sulla quantità o sulla qualità; sinora nei fatti gli operatori delle valle hanno puntato sulla quantità, proponendo Pinzolo in quanto vicino a Campiglio, con il pericolo di trasformare la Valle in un dormitorio e condannare Campiglio al tracollo. La Valle deve vendere soprattutto il proprio territorio per le prerogative notevoli che effettivamente offre e cercare di valorizzarle al massimo. Non può essere considerato un buon servizio al turismo della Valle e di Pinzolo un collegamento funiviario con Campiglio (attenzione: funiviario, non sciistico, se non in minima parte) di una irrazionalità e di una forzatura uniche sotto ogni punto di vista, e quindi certamente poco appetibile alla clientela che lo deve percorrere ogni volta nei due sensi, per lunghezza dei tracciati e quindi dei relativi tempi di percorrenza, per i notevoli dislivelli in salita e in discesa da superare, ecc.. Lo sciatore che si avventurasse su questo ipotetico collegamento correrebbe il rischio di trascorrere buona parte della sua giornata di vacanza non sulla neve ma sugli impianti funiviari con gli sci in mano, spesso anche esposto alle intemperie dell’alta montagna. Pensiamo alle peripezie che dovrebbe superare uno sciatore medio che da Pinzolo volesse raggiungere il Grostè: sale con due tronchi di funivia (secondo tronco a seggiole aperte) sino al Doss del Sabion; da lì in teoria potrebbe scendere sci ai piedi sino a Plaza (Val Brenta), ma se non è un provetto sciatore, non potendo affrontare la nuova pista nera che scende dal Grual, deve optare per gli impianti che da Grual arrivano a Plaza (una o due seggiovie con veicoli aperti); da Plaza ora deve affrontare la risalita a Campiglio; sulla base dell’ultimo progetto di fattibilità dovrebbe poter risalire sino a Patascoss con i due tronchi di funicolare (finalmente veicoli chiusi ma sempre con gli sci in mano), previo trasbordo alla stazione intermedia al Colarin; arrivato a Patascoss, deve scegliere la via più breve per risalire al Grostè: altre tre impianti, come minimo, in pratica quasi senza aver messo gli sci ai piedi. Quando è al Grostè il nostro sciatore medio, guardato l’orologio, propenderà per un rientro sufficientemente rapido a Pinzolo, considerati i tempi e le difficoltà del carosello appena concluso, anche per non trovarsi a Plaza oltre l’orario di chiusura degli impianti; arriverà a Pinzolo, dopo aver riguadagnato la piana di Patascoss e la cima del Doss del Sabion, non molto stanco perché in effetti ha sciato poco, ma molto deluso della giornata sulla neve, sicuramente da non ripetere. Le stesse difficoltà di percorrenza si presentano per chi volesse intraprendere il trasferimento della ski-area di Folgarida - Marilleva o di Campiglio verso Pinzolo.

    Non esiste al mondo un collegamento funiviario tra aree sciabili paragonabile a quello così poco razionale previsto tra Pinzolo e Campiglio. Ricordiamo anche quante discussioni e minuziose verifiche costi-benefici hanno preceduto l’approvazione e quindi la realizzazione del semplice arroccamento da Predazzo allo Ski Center Latemar. Nel caso in questione non sarebbe in gioco il normale rischio d’impresa ma più realisticamente il suo fallimento, annunciato: su questo dovrebbe esser concorde anche l’architetto Romozzi incaricato dal Comune di Pinzolo di verificare la fattibilità del progetto Schiavon - Migliorini.

    Stando così le cose è chiaro che questo collegamento funiviario non può servire a risolvere i problemi del turismo invernale né di Pinzolo né della Valle, così come non può servire a risolvere la delicata situazione finanziaria della Società Funivie di Pinzolo anzi, al contrario, se realizzato l’aggraverebbe ulteriormente e, forse, definitivamente.

    L’area sciabile di Pinzolo è modesta, ma può e deve essere riqualificata e, se possibile, anche ampliata entro i limiti imposti dalla morfologia del terreno e dei vincoli di compatibilità ambientale. La stazione invernale di Pinzolo è e rimarrà comunque modesta per ampiezza ma complementare alla mega stazione di Campiglio, così come per esempio il Cermis lo è nei confronti dello Ski Center Latemar: due realtà queste distanti tra loro come Pinzolo e Campiglio, collegate solo da un efficiente servizio di skibus, e che insieme sono riuscite ad arricchire la loro offerta turistica valorizzando al massimo ognuna le proprie prerogative, a vantaggio di tutta la Valle di Fiemme.

    Il collegamento servirebbe solo
    alla Società Funivie Madonna di Campiglio.

    Mentre Campiglio come stazione invernale deve, come detto sopra, fare scelte di qualità, la Società delle Funivie è portata invece per sua natura a fare scelte di quantità, al fine di massimizzare il numero di passaggi sui suoi impianti, perché questo si traduce in maggiore guadagno diretto; a tal fine la Società funiviaria vede favorevolmente la realizzazione del collegamento perché questo, oltre che comportare comunque un maggiore afflusso di sciatori nell’area di propria competenza, potrebbe servire a risolvere alcuni problemi interni poco appariscenti ma importanti ed in particolare: la realizzazione di una nuova pista dai Cinque Laghi al Colarin e una nuova porta di accesso diretto alla ski-area nella piana di Patascoss, baricentrica rispetto alla zona meno frequentata dagli sciatori (i classici due piccioni con una fava). Il collegamento in definitiva servirebbe solo alla Società Funivie di Campiglio, che, in attesa di far maturare l’idea in Valle e nelle Istituzioni interessate, indica già dove attingere le ingenti risorse finanziarie (decine e decine di miliardi) per la realizzazione dell’opera: dai paesini della Valle, visti l’interesse diretto degli stessi e la buona consistenza dei depositi nelle Casse Rurali della Rendena! Ai Rendeneri quindi l’onore e l’onere della realizzazione del collegamento e della sua gestione, con le previsioni decisamente fallimentari, di cui sopra è cenno, alla Società Funivie di Campiglio gli ipotetici frutti.

     

    Guerèt Rampagaröl
    Diario della guida alpina Clemente Maffei

    A cura dell’Editrice Rendena di Tione è uscita in questi giorni l’annunciata seconda edizione di "Guerèt Rampagaröl", il diario della guida alpina di Pinzolo Clemente Maffei. Un libro che nella casa d’ogni Rendenese - con alcuni altri preziosi volumi sulla valle - non dovrebbe mancare. La prima edizione, del resto, in breve tempo esaurita, confermò da sola il valore dell’opera.

    "Rendena undici" coglie l’occasione per offrire ai suoi lettori - come primizia - la prefazione dell’accademico del C.A.I. Silvia Metzeltin, e l’introduzione dello scrittore Giuseppe Leonardi, curatore del bel volume.

     

    Quanto rimane

    La seconda edizione di "Guerèt Rampagaröl" ci può porre una riflessione: quanto rimane attuale di un alpinismo come è stato il suo, quello che si riflette nelle pagine di cronaca qui raccolte?

    Penso che rimanga soprattutto la schiettezza, l’autenticità di un approccio tradizionale all’alpinismo, dove le molteplici componenti si fondono per creare l’amalgama personale. Piacere della vita all’aria aperta, della sfida rappresentata tanto da una montagna modesta presso casa, quanto da una cima di continenti lontani accarezzata nei sogni.

    Desiderio di riconoscimento, ambizione personale pulita, che non travalicano le regole della convivenza civile, anzi si esprimono spesso in slanci di solidarietà.

    Per me il ricordo di Guerèt rimane legato a quello che ho per un allievo che è stato suo e anche mio, Michele Mattasoglio, precipitato dalla Cresta Signal al Monte Rosa in un tentativo di ascensione solitaria. Era Mattasoglio uno studente di geologia schietto ma schivo, che nel connubio fra la passione alpinistica e la conoscenza scientifica della natura cercava un proprio modo di essere. Un modo che certamente, benché‚ lui cittadino e dalle marcate predisposizioni intellettuali, lo legava anche all’autenticità montanara di Guerèt. Credo che anche oggi, se non soprattutto oggi, quell’autenticità - comprese le zone d’ombra che si possono anche interpretare come debolezze dovute all’intrinseca bontà del personaggio - sia da considerare come un valore.

    Guerèt non c’è più, Mattasoglio* e chissà quanti altri che lui ha avviato alla montagna sono già scomparsi. Ma per chi rimane, per chi si affaccia oggi all’alpinismo, questa testimonianza di approccio genuino offre un filo conduttore per comprendere uno dei tanti "perché‚ dell’alpinismo".

     

    Silvia Metzeltin(*), Trento, Filmfestival 1997

     

    Guerèt nomade d’alta quota

    Negli anni del dopoguerra, quando frequentavo i miei primi monti, ricordo che fra di alpinisti non perdevamo l’occasione per riunirci e farci raccontare le storie. Fin da giovane sapevo ascoltare, mentre i vecchi raccontavano fuori e dentro i rifugi, alla sera in attesa di coricarci per il riposo.

    Le guide, i gestori, gli alpinisti maturi che incontravo, erano per me tutti importanti e contavano molto: conoscevano i fatti, li narravano e li tramandavano senza chiedere nulla in cambio. I loro racconti erano la storia orale, che univa in modo indissolubile le generazioni. Gigioti Bolza di Irón, il costruttore della capanna ai Brentèi, Silvio Pellizzari custode del Caré‚ Dante Ceschini custode della Lobbia Alta, Livio e Teresa Binelli custodi del Mandrón, Giovanni Faustinelli pioniere della Capanna di Punta Lagoscuro, Giuseppe Ceschini Mariana teleferista della Lobbia, furono i miei narratori di storie vere di montagna, vissute al tempo della loro vita alpinistica. Quelli come loro che ora esercitano la professione hanno purtroppo perso la memoria, perché‚ troppo indaffarati e presi dalla frenesia del guadagno contingente. Rari si prendono la briga di raccontare ai giovani, di scrivere non se ne parla nemmeno, ed i giovani d’oggi poco sanno della storia locale dei loro vecchi, di chi se n’è andato, del modo con cui si andava in montagna a fare anche alpinismo impegnato.

    Da anni, mi sono accorto, si è rotto il legame che teneva unite le generazioni e nel vuoto che si è creato, complice una mai sopìta volontà di rimozione dei fatti autentici, si annida l’ignoranza, cattiva consigliera, che talvolta giudica indegno di memoria storica chi se n’è andato prematuramente, per disgrazia alpinistica.

    La pubblicistica locale resta pertanto l’unico mezzo affidabile per riannodare il filo spezzato, il dialogo fra generazioni, affinché‚ i giovani conoscano il passato e lo giudichino, per trarne poi le conseguenze.

    Il diario alpinistico della guida Clemente Maffei Guerèt, deceduta il 12 agosto 1991 a seguito di disgrazia alpinistica sullo Spigolo dell’Angelo lungo il Costone di Nardìs nel Gruppo della Presanella, non c’era bisogno di farglielo tirare fuori. Guerèt aveva piuttosto bisogno di una mano competente, disinteressata ed amica. Pochi mesi prima di andarsene per sempre, mi aveva fatto promettere, solennemente, che assieme avremmo riordinato tutte le sue carte contenute in un grosso raccoglitore. Guerèt sapeva che la sua stella nel firmamento alpinistico dava ormai una luce tenue e che a ravvivarla avrebbe contribuito sicuramente la pubblicazione del suo diario alpinistico, "Le pareti della mia vita", così lo voleva intitolare e di esso aveva curato l’indice. Era ossessionato dall’idea che quanto scritto da lui e su di lui divenisse carta straccia e che la sua attività fosse rimossa. Inoltre la sua fine tragica, inattesa, ebbe per un momento l’effetto di rinvigorire, in loco, più d’una voce ostile.

    Dopo un anno dalla disgrazia fui tentato di rinnegare a me stesso la promessa e di defilarmi. Poi venni assalito dal complesso del vigliacco, dalla sindrome del traditore, dal rimorso dell’acquiescenza opportunistica al quieto vivere conformista e della complicità nella volontà diffusa di rimozione: in fondo la promessa l’avevo fatta in assenza di testimoni e di uno scritto, e ad una persona che non poteva rinfacciarmi più niente.

    Poi Enzo Violi, l’alpinista che con Guerèt tenne un rapporto di amicizia durato oltre 45 anni, che era a conoscenza della mia promessa e al quale la Famiglia Maffei aveva consegnato il materiale, mi convinse a prenderlo in mano. Mano a mano che studiavo il carteggio giunsi ad una convinzione: Guerèt, a diciannove anni, condannato disertore di guerra e fuorilegge dal regime nazista, ha agito nel proseguo della vita nella legalità della sua coscienza e per tanto poteva essere un buon soggetto di storia. In aggiunta, mi convinsi che nei suoi quarant’anni di alpinismo, superando diffidenze e pregiudizi, percorse faticosamente i sentieri dell’avventura, che nessuno in Valle era allora in grado di indicare, dimostrandosi un progressista. Fu infatti la prima guida trentina a partecipare ad una spedizione extraeuropea.

    Cominciai l’inserimento della ricerca nel computer. Alla fine feci una stampa del guazzabuglio. Obbligai Enzo a leggerlo, a correggerlo e ad interpretarlo. Ne nacquero discussioni e scontri verbali sul taglio e sullo spessore da dare agli avvenimenti in ordine all’interpretazione più fedele possibile del testo.

    Ed intanto ci caricavamo l’un l’altro di fiducia per andare avanti. Nonostante le difficoltà, mai desistemmo, anche se Enzo continuava a dirmi: "Clemente non è Bruno Detassis. Clemente ha un’anima complessa, e non so se riuscirai a rivestirla di parole e a svelarla al lettore in pagine scritte". E me lo diceva come se il Guerèt, l’avessimo fuori dalla porta e ci stesse ad ascoltare. La sensazione della sua presenza esoterica incombeva su di me al punto che nei momenti difficili ripetevo: "Guerèt, ascoltami e dammi un mano".

    Il volume è stato pubblicato nella primavera 1993 dalla Editrice Rendena di Piergiorgio Motter con la copertina del pittore Sergio Trenti. L’ambiente alpinistico valligiano lo ignorò e quello accademico lo respinse a causa dell’episodio di Piussi. La Gente comune invece lo onorò di tanto interesse al punto di esaurirne presto la prima edizione.

    Guerèt si era accostato giovanissimo alla montagna ed aveva capito di entrare nel mondo delle grandi bellezze, fra i tesori della natura, in un ambiente pregno di valori umani e culturali. Volle confrontarsi con esso in umiltà, col passo lento del montanaro e con il candore del neofita, che vuole imparare il linguaggio delle cose: le rocce, i ghiacci, i fiori, il cielo ed il fumo del camino del rifugio. Come arrampicatore ha sperimentato le fatiche degli approcci alle pareti, le sorprese della fauna stanziale, le ansie delle condizioni del tempo, le emozioni dei bivacchi, il peso dello zaino, i rischi dell’apertura di itinerari inaccessi su pareti severe, le faticose sciate con le pelli di foca in salita e le folli discese in neve vergine, le soste indimenticabili sulla vetta, i ritorni faticosi a valle, che avevano il pregio di allungare la soddisfazione dell’avventura vissuta.

    Guerèt mi raccontava queste esperienze in età matura, ma con accenti gratificanti, poiché‚ mi spiegava che con esse egli raggiunse per diletto e per mestiere i limiti soggettivi delle sue possibilità di arrampicatore. E ai racconti aggiungeva i particolari di una cultura rispettosa dell’ambiente, i ricordi dell’amicizia, le prove inconsce di una fedeltà ininterrotta alla montagna. Con lui la montagna divenne un vissuto emotivo, una malattia, tale da non poterne più fare a meno.

    Guerèt fu l’alpinista senza motore. Ossia, la campagna alpinistica, per lui durava ininterrotta per tutto l’anno, senza soluzione di continuità. Il suo approccio alla montagna era lento ed intimo e gli acconsentiva un contatto approfondito, soprattutto nei suoi aspetti umani. Per lui si trattava di vivere il contatto con l’alpe a tempo pieno, entrando nei suoi usi e costumi. A lui non era applicabile il principio del mordi e fuggi: ossia della conquista della vetta e poi via in automobile verso le comodità della civiltà.

    Dalla sua biografia risulta chiaro il principio pioneristico dell’andare in montagna che trasmise ai clienti: ossia il principio della campagna alpinistica, che per lui era un’istituzione, con le sue regole, i suoi riti e le sue leggi non scritte. Nei primi giorni di permanenza al rifugio, suggeriva al cliente di comprare l’aria e così, giorno dopo giorno il cittadino si liberava delle tensioni, delle ansie, delle preoccupazioni e si preparava ad entrare rigenerato nel mondo dell’arrampicamento. Da ottobre a maggio, Guerèt viveva nella montagna da boscaiolo, o da disgaggiatore; nella stagione alpinistica girovagava da un rifugio all’altro, conducendo l’esistenza d’un nomade d’alta quota. Lo incrociai più di una volta, magro ed ossuto come un camoscio di primavera, le guance incavate, gli occhi ardenti nel viso cotto dal sole. Vivere in montagna era l’arte di Guerèt e lo faceva da gran signore.

    Promotore il Comune di Giustino per riconoscenza dell’inerbimento della cava, è stata fusa in sua memoria dalla Ditta Capanni di Castelnuovo né Monti, un piccolo bronzo da collocare in quota a suo ricordo.

    Una campana
    non suona mai invano,
    perché‚ rappresenta
    Il richiamo all’eterno
    che l’uomo spesso trascura
    per l’effimero ed il caduco.

    Giuseppe Leonardi

     

    * A Mattasoglio, Guerèt ha dedicato il sentiero che da Vallina d’Amola arriva al passo dei 4 Cantoni, una via ed una vetta lungo il costone d’Amola.

    * Accademico e delegata del CAI presso l’UIAA.

    Estate 1997
     
    Le Sorelle Guerèt
     
    ringraziano
     
    l’autore Giuseppe Leonardi
    l’editore Piergiorgio Motter
    l’artista illustratore della copertina Sergio Trenti
    gli acquirenti
    e tutti coloro che hanno voluto e permesso la riedizione del libro
    Guerèt Rampagaröl

      


     
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