Rendena - Quadrimestrale
di cultura, dattualità, e dinformazione
editoriale. Numero 11 - Luglio 1997 - Copyright © Ediren di Piergiorgio Motter -
38079 Tione (Tn) - Tel. 0465/321220
Associato Uspi - Unione
Stampa Periodica Italiana -
Autorizzazione Tribunale di Trento n. 898 del 13 marzo
1996 Direttore:
Piergiorgio Motter -
Direttore Responsabile: Valter Paoli.
Il periodico, libero
strumento di confronto, è aperto a tutti i lettori su
problemi ed analisi della Rendena riguardanti
lambiente, la società, la storia, la letteratura,
la tradizione, larte.
- Giuseppe Leonardi - Daniele Ribola - Dante
Ongari - Sergio Trenti - Cesare Maestri - Tranquillo
Giustina
- Antonio Scarazzini - Claudio Dallagiacoma
- William Belli - Rudy Cozzini - Giampaolo Mosca
- Massimo Dalbon - Luisa Pedretti Romeri -
Luigi Loprete - Claudio Betta - Grazia Binelli - Luciano
Colombo
- Mino Bordignon - Giuseppe Ciaghi - Terri
Maffei Guerét - Aldo G.B. Rossi - Giovanni Cristini -
Silvio Tardivo
- Erminio Rizzonelli - Aldo Collizzolli -
Mario Cossali - Laura Paissan - Sergio Pedrocchi - Danilo
Mussi
- Matteo Maturi
Pubblicazioni
della Editrice Rendena:
- Tranquillo Giustina, Il deserto
armonioso, 1986
- Tranquillo Giustina, Marco da Caderzone,
1987
- Tranquillo Giustina, La bianca
fioritura, 1987
- Alberto Mognaschi, Bondo e Breguzzo nel
1800, 1988
- Tranquillo Giustina, L'arazzo e la
spada, 1988
- Tranquillo Giustina, La luce d'Arianna,
1989
- Tranquillo Giustina, I principi mandano
araldi, 1989
- Dante Ongari, Padre Fabian Barcata,
Artista di guerra in Giudicarie, 1990
- Tranquillo Giustina, Il silenzio del
fiore, 1990
- Tranquillo Giustina, La Rendena dei
malefici, 1991
- A cura di Fiore Bonenti e Alberto
Mognaschi, 1992Proverbi a Bondo e Breguzzo, Epatta
Lunare,
- Alberto Mognaschi, Bondo e Breguzzo
dalle origini al 1700, 1992
- Tranquillo Giustina, L'ultima estate,
1992
- A cura di Giuseppe Leonardi, Detassis,
1992Gigante della Montagna, Guardi il Brenta e
pensi a Bruno
- Douglas William Freshfield, Le immense
cattedrali, Introduzione di Tranquillo Giustina, 1993
- A cura di Giuseppe Leonardi, Gueret
Rampagaröl, 1993
- Tranquillo Giustina, Il cielo non
finisce mai, 1993
- Rendenarte, Artisti e poeti in Val
Rendena, 1994
- Alberto Mognaschi, Canzoniere di Bondo
e Breguzzo, 1994
- Adi Battista Mussi, Memorie di guerra
prigionia e liberazione, 1994
- Loreto Leone - Silvana Parolari, Coscienti
sulla strada, 1994
- don Celestino Lorenzi, Rendena Arte e
Vita, 1995
- Pasquale Pizzini, Pagine sparse, Vicende
e storia di Roncone e delle Giudicarie, 1995
- Don Santo Amistadi, Notizie intorno ai
sacerdoti e religiosi nativi di Roncone, 1996
- Fiore Bonenti, Glossario dialettale di
Bondo e Breguzzo, 1997
- Paolo Cominotti, Par quatru cunomichi,
Poesii in dialet da Pinzöl, 1997
- Ruggero Dorna, Luigi Loprete, Danilo
Mussi, I segni dellanima, 1997
-
- Gli
avornielli, collana di poesia
- 1 - Tranquillo Giustina, Il cuore
e la rondine, 1994
- 2 - Grazia Binelli, Buciàti,
poesie in dialetto della Val Rendena, 1996
-
- Excelsior,
collana di narrativa
- 1 - Tranquillo Giustina, La
primavera di Dio, 1995
- 2 -Giustina, 1996 Nepomuceno
Bolognini, Fiabe e leggende della Rendena,
Introduzione di Tranquillo
- 3 -1997 Emanuele Mussi, Altri
Tempi, Storie del Passato per i nipoti del 2000,
Inverno - Primavera,
- 4 - Nepomuceno Bolognini, Leggende
del Trentino, Introduzione di Tranquillo Giustina,
1997
- 5 -1997 A cura di Giuseppe Leonardi,
Guerèt Rampagaröl, Diario della Guida alpina
Clemente Maffei,
- In
preparazione
- 6 - Grazia Binelli, Tant par
ciaciaràr, Racconti in dialetto, 1997
- 7 - Emanuele Mussi, Altri Tempi,
Storie del Passato per i nipoti del 2000, Estate -
Autunno, 1997
- 8 - Tranquillo Giustina, La veste
viola, 1997
- 9 - Nepomuceno Bolognini, Le
Maitinade, Introduzione di Tranquillo Giustina, 1997
- 10 -1998 Douglas William Freshfield, Le
torri irraggiungibili, Introduzione di Tranquillo
Giustina,
- 11 -seconda Douglas William Freshfield, Le
immense cattedrali, Introduzione di Tranquillo
Giustina, edizione, 1998
Sommario
- Editoriale - di Piergiorgio Motter
- Prima che sia troppo tardi - di
Tranquillo Giustina
- Associazione Astronomica Madonna di
Campiglio - di Matteo Maturi
- I doni di Nepomuceno Bolognini - di
Danilo Mussi
- La felicità delle cartoline - di Aldo
G.B. Rossi
- A ricordo di un vero amico: Giorgio
Binelli
- Quella famosa rapina avvenuta a
Campiglio - di Luciano Colombo
- La Via Crucis di San Vigilio a Sorano
- di Giuseppe Ciaghi
- Sergio Trenti - Conosciuto da vicino
- di Giuseppe Leonardi
- L'obiettivo di Claudio Dallagiacoma -
Il mio bel San Giovanni - di Tranquillo Giustina
- Collegamento sciistico? - di Luisa
Pedretti Romeri
- Guerèt Rampagaröl - Prefazioni alla
seconda edizione del volume
- - Quanto rimane- di Silvia Metzeltin
- - Guerét nomade d'alta quota - di
Giuseppe Leonardi
-
- Editoriale
- La nuova emergenza
Lodierna ideologia del facile e comodo benessere ha
contagiato, come unillusoria epidemia, anche il campo del
sapere.
Il sapere per molti sta diventando un prodotto dagevole
consumo, un affare da pagine gialle, unopportunità da
enciclopedia a dispense. Non solo, ma un tale concetto di cultura
allegra e disimpegnata sembra destinato ad affermarsi sempre
più, stante il complice silenzio steso sulla cultura vera,
sofferta, sacrificata, quale fu nei secoli sempre. E sempre
sarà.
E il grande inganno del nostro tempo quello di
considerare il sapere un bene quasi negoziabile, proposto da quei
supermercati dellistruzione e dellerudizione che sono
i mezzi multimediali. Questa infatti - tra le molte emergenze che
affliggono e degradano la nostra società - è la nuova
emergenza, la più pericolosa, la più deleteria, classificata
(alle soglie del duemila) come un vero e proprio
"analfabetismo": lanalfabetismo ambientale di chi
- imbottito e soddisfatto di effimere nozioni e di generiche
informazioni rinnega, o addirittura ignora, la cultura
elementare, semplice, sorgiva, genuina della sua terra, del suo
passato, della sua tradizione, in una parola della sua identità:
quella cultura senza la cui base è inimmaginabile ogni altro
profondo e ben agganciato arricchimento conoscitivo.
In questa luce - e in questa prospettiva - «Rendena undici»
ancora una volta può dire daver tenuto conto, nella sua
impostazione del dovizioso e inesauribile entroterra culturale
della valle, presupposto primo per un valido sicuro cammino
intellettuale, preservato dalle fatue virtualità e
pianificazioni correnti.
Dalla presentazione della seconda edizione di «Guerèt
Rampagaröl» alla palpitante cronaca di Luciano Colombo, al
partecipe elzevìro su Pinzolo di Giuseppe Ciaghi,
allomaggio elegiaco di Aldo G. B. Rossi per le «cartoline
dolomitiche» di Giovanni Cristini, allo stupendo «obiettivo»
su Massimeno di Claudio Dallagiacoma, al fraterno «Sergio
Trenti» di Giuseppe Leonardi, al ricordo di Giorgio Binelli, al
pressante documento tecnico (e non solo tecnico) di Luisa
Pedretti Romeri, alla coinvolgente offerta scientifica di Matteo
Maturi, alle preziose collaborazioni di Danilo Mussi e di
Tranquillo Giustina, Rendena undici ritiene daver assolto
in pieno il suo compito, affinchè - alle inevitabili emergenze
della nostra terra - non saggiunga lemergenza nuova
di cui sè detto, quella culturale.
Piergiorgio
Motter Editore
Pelugo, 14 luglio 1997
-
- Prima
che sia troppo tardi.
- di Tranquillo
Giustina
Vi fu unetà delloro anche per
la Rendena.
Unetà di giorni sereni. O - se
preferiamo - serenanente abbandonati alla terrena sorte. Quando
luomo, consapevole del proprio limite e della propria
fragilità, costellava i luoghi della sua vita, e della sua
fatica, di piccoli "sacelli" che gli ricordassero
presenze sovrumane, incurvate su di lui. Quando, lungo la
ragnatela dei suoi percorsi, egli poneva il conforto delle croci,
dei cippi sacri, delle memori edicole, delle cappellette votive,
a rasserenare il suo nebbioso pellegrinaggio con un po di
Cielo. Quando attraverso quei georgici sentieri - quasi a una
luminaria di "lampade fornite" - ininterrotta si
rinnovava la parabola delle veglianti vergini in attesa
dellora nuziale.
In realtà ancor oggi - pur con le poche
testimonianze rimasteci - la saga dun crocifisso campestre,
il pallore dun affresco devozionale, il rudere dun
pio tabernacolo, continuano a rivelare il modo indubitabile con
cui luomo - sempre - cerca di sollevare lo sguardo al suo
mortale destino, di dare perciò speranza al suo dolente esilio,
di redimere la sua perdurante preistoria.
Sono gli umili ma eloquenti "segni
dellanima", tuttora presenti in questo nostro tempo di
materialistici trofei. E ognuno di codesti "segni"
(anche il più primordiale, anche il più logorato, anche il più
derelitto nellodierno assalto di tanti altri segni) grida
linnato umano desiderio di pulsare con il palpito puro ed
alto delluniverso.
Profonde, solenni, maestose, a tal
proposito risuonano (e sempre risuoneranno) le parole di
Plutarco, il sommo sapiente dellantichità: "Noi siano
disposti ad avere città senza mura, città senza leggi, città
senza scuole, città senza commerci, città senza memorie
storiche, città senza feste, città senza monumenti, ma non mai
città senza simboli consacrati alla Divinità. Guai a noi se
ciò dovesse accadere! Sarebbe come finire prigionieri, anzi
schiavi, di una città senza sole".
Unopera encomiabile quindi - e
unoccasione culturale quanto mai opportuna - è stata
offerta dalleditore Motter di Tione con la pubblicazione
del recente e compiuto "studio" sul capitello rendenese
delle quattro facce che, per intere generazioni, fu scrigno di
memorie, monito di fiducia in Dio, conforto nelle prove della
vita, nonché "gioiello monumentale" di valle. Poiché
forse è giunto il momento - nellarida saturità di tanti
moderni apporti edilizi - di ricominciar ad accorgerci di queste
singolari preziosità; di tornar a soffermarci estasiati a tante
meraviglie di religiosità popolare; di voler finalmente
considerarle nella loro autentica ed inesauribile valenza
storica, artistica, e trascendente. Guai a noi - potremmo
aggiungere, rifacendoci ancora a Plutarco - se, per ammirare gli
attuali prodigi viari dellasfalto, dimenticassimo gli
incanti e le dolcezze dei sentieri antichi. Guai a noi se, per
godere le dilaganti proposte turistiche duna accanita
urbanizzazione, rinnegassimo i doni limpidi e semplici della
nostra primigenia tradizione. Guai a noi se, per gloriarci delle
superbe storie del passato, stimassimo non degne
dattenzione e di riguardo le umili indicazioni
dunepigrafe, dun dipinto murale, duna
sperduta reliquia di pietà agreste.
Bene perciò hanno fatto gli autori (in
questa particolare luce) a richiamarsi, nel contesto
dellopera, anche ad altri capitelli, attestazioni di
sofferti valori di fede e di sacrificio; fari costantemente
accesi - negli immancabili momenti oscuri - della cristiana
certezza dun Infinito in ascolto.
Mai dunque saremo grati abbastanza a coloro
(e sono larchitetto Ruggero Dorna per laccurata
competente indagine tecnico-estetica sul manufatto,
linstancabile ricercatore Danilo Mussi per la paziente
esposizione e documentazione delle cronologiche fasi operative, e
lartista "rendenese" Luigi Loprete che ha saputo
calare il discorso nelle vibrazioni e nelle soavità dei
magistrali affreschi del Pupin), mai - dicevamo - saremo grati
abbastanza a loro che hanno voluto con tanta chiarezza (e
ricchezza iconica), farci conoscere e dettagliatamente apprezzare
la validità duna memoria unica nel cospicuo ventaglio
annalistico della nostra valle.
"Un saggio fuor dogni dubbio -
così conclude la sua acuta prefazione Piergiorgio Motter - che
costituirà documento indispensabile ad ogni futura
rivisitazione. E, per il quale, quanto mai vere ed appropriate
avverto le righe con cui Nepomuceno Bolognini, oltre un secolo
fa, chiudeva uno dei suoi più esaurienti scritti sulla Rendena:
Ho pensato che forse un giorno potrà riuscire utile
lavere riunito e conservato queste testimonianze di storia
e darte, che purtroppo per la solita deprecabile incuria
sono in via di sparire del tutto. Righe che - nel
pubblicare questo nuovo libro - sento di poter apertamente ed
ambiziosamente fare mie".
Righe, in verità, a pieno titolo fatte
proprie da un editore che da anni pone sugli scudi - prima che
sia tardi - la valligiana profusione di cultura e di grazia a chi
ancora non ne ha notizia e a chi, forse, la sta dimenticando.
- Associazione
Astronomica Madonna di Campiglio
- di Matteo Maturi
Quando il Sole cala e le cime si tingono di rosso, il blu del
cielo incomincia ad acquistare una tinta violetta che
successivamente lascia il posto alla profondità del cosmo.
Magicamente appaiono migliaia di stelle, tutte simili ma
immensamente diverse luna dallaltra.
La grandiosità della volta celeste si sposa magnificamente
con le montagne, che stagliandosi sul fondo del cielo sembrano
congiungerci con questi mondi così distanti.
Cime incantate, boschi secolari, paesaggi incontaminati, ecco
la val Rendena, un teatro ideale per entrare in contatto con ciò
che va oltre i confini della Terra. Lassenza di luci,
laltitudine e laria trasparente di questi luoghi
permette di osservare grandi quantità di galassie, nebulose,
comete, pianeti e tutto quello che compone il nostro Universo.
Non tutti, come noi, hanno la possibilità di godere di uno
spettacolo unico e grandioso semplicemente affacciandosi alla
finestra.
Luomo è sempre stato attratto dal cielo, forse
affascinato da quel velo di mistero e dal senso di potenza che
esprime. I primi studi astronomici furono intrapresi già
migliaia di anni prima della nascita di Cristo. Babilonesi ed
Egizi utilizzavano i moti celesti per regolare la semina e la
raccolta nei campi, come anche le popolazioni precolombiane; i
Cinesi hanno svolto unattività scientifica rigorosa, gli
Arabi catalogarono migliaia di stelle, assegnando a quelle più
luminose nomi che sopravvivono ancora oggi (Aldebaran, Alnitak,
Algol, ...).
Diversamente da questi popoli gli Europei hanno avuto un
interesse meno spiccato per lastronomia. Ciò è dovuto
alle concezioni filosofiche che la scienza ufficiale seguiva
dogmaticamente: la Terra è al centro dellUniverso, la
volta celeste è perfetta, incorruttibile ed immutabile, ed è
costituita da diverse sfere cristalline.
Solo attorno al 1500 ci furono i primi tentativi per cambiare
questa cultura. Ovviamente, limpresa era ardua, dato che si
andava contro la potentissima Chiesa e a tutti gli intellettuali
del tempo. Il primo a tentare fu Copernico che
"spostò" il Sole al centro dellUniverso. Ma il
personaggio che segnò la definitiva svolta fu Galileo Galilei.
Galileo acquisì le raffinate tecniche olandesi di lavorazione
ottica, poi perfezionò il progetto del telescopio e per primo
puntò il suo strumento verso il cielo, per cercare di svelarne i
misteri. Iniziò così la sua avventura nel Cosmo, osservando
stelle che nessuno aveva mai visto prima e assistendo a fenomeni
planetari tanto sconosciuti quanto affascinanti e sconvolgenti.
Con il suo nuovo strumento, vide che la volta celeste non era
poi tanto perfetta. La superficie lunare appariva irregolare e
corrugata, con catene montuose e crateri. La fulgida Venere non
era un punto perfetto ma un corpo sferico che vibrava di luce
riflessa e che, come la Luna, mostrava le fasi, a volte era a
falce, altre era quasi piena, ecc.. Giove si mostrava come un
dischetto accompagnato da una corte di satelliti (detti satelliti
Medicei). A queste osservazioni il mondo scientifico e religioso
reagì duramente accusandolo di eresia e condannando il
telescopio come uno strumento immondo capace solo di deformare la
realtà.
Dopo Galileo la scienza progredì a una velocità sempre
crescente. Pensate che attualmente con un binocolo è possibile
fare le sue stesse osservazioni (basta sapere dove guardare!).
Questo incredibile viaggio, questa avventura
dellintelletto umano continua ancora oggi. Siamo giunti a
visitare la Luna, i pianeti principali del Sistema Solare,
abbiamo osservato con telescopi potentissimi, quasar, stelle
strane che variano di luminosità, temperatura, colore e
dimensione, addensamenti di gas enormi e variopinti, galassie
lontanissime nello spazio e nel tempo e moltissimi oggetti dalle
caratteristiche "stravaganti".
Oggi presumiamo che lUniverso sia nato dal Big Bang,
lenorme esplosione di non si sa che cosa, dal quale si è
generata una grandissima quantità di idrogeno. Col passare del
tempo questo gas si è condensato, dando origine alle stelle.
E così che da cinque miliardi di anni a questa parte
una stella rossa di dimensioni medie, situata nelle periferie di
una galassia allinterno di un piccolo ammasso di galassie,
riscalda nove pianeti, uno dei quali, di colore azzurro-bianco,
è sede di una civiltà di creature pensanti.
Da questa brevissima storia si capisce che,
dellUniverso, luomo sa tanto ma ancora poco e che di
pianeti come la terra ce ne potrebbero essere a migliaia.
Ecco il fascino dellastronomia, una materia vastissima
che affascina con i suoi misteri e i suoi incredibili spettacoli.
Cerchiamo di partecipare a questa avventura intellettuale,
ammirando quello che il cielo ci offre. Noi "Rendeneri"
siamo favoriti per questo. Il nostro cielo non è soffocato dalle
luci cittadine, ci basta solo aspettare una notte illune per
alzare gli occhi ed ammirare "laltra metà del
paesaggio".
Per qualsiasi informazione su qualsiasi corpo celeste potete
rivolgervi allAssociazione Astronomica Madonna di
Campiglio, che sarà lieta di rispondere a tutte le vostre
domande e di fornirvi di materiale utile ad approfondire le
proprie conoscenze in ambito astronomico.
Buona visione a tutti!
- I
doni di Nepomuceno Bolognini
- di Danilo Mussi
Quanto tempo! Troppo ce nè voluto prima che ad un
grande personaggio si sia pensato di rendere giusto merito. Manca
poco alla commemorazione dei cento anni dalla sua morte e
finalmente qualcosa e qualcuno si sta muovendo per riscoprire la
figura di Nepumuceno Bolognini, poliedrico protagonista di un
importante periodo storico-culturale della nostra terra.
Industriale, combattente, patriota, avvocato, alpinista,
scrittore, ricercatore ed etnografo, il Bolognini si trovò ad
affrontare nel corso della sua vita tante di quelle vicende che
avrebbero dovuto annoverarlo senza difficoltà tra i grandi del
suo tempo. Ma fu, purtroppo per lui, rincorso nel contempo da una
serie di sfortunate vicende che ogni volta lo reclusero dietro la
porta del quasi anonimato, se non addirittura
dellostracismo. Furono pochi coloro che poterono ai suoi
tempi apprezzare la sua opera ed anche quando ciò fu fatto e gli
fu reso onore, tutto questo durò ben poco. Un velo nero già coi
primi anni del secolo andò velocemente ad oscurare tutto il suo
lavoro tanto che del Bolognini molti ancor oggi, anche nella
valle che lo vide nascere e che egli tanto amò, molti sono
ancora coloro che non sanno neppure chi sia.
E pur tralasciando la grande energia spesa per un ideale
patriottico che coinvolse migliaia di trentini ai suoi tempi e
pur tralasciando la instancabile azione promossa e volta alla
creazione e alla nascita della Società degli alpinisti
tridentini, pur validissime ma cronologicamente inserite nel suo
tempo, non possiamo assolutamente trascurare la grande azione di
conservazione di quel patrimonio popolare che sono "gli
usi e costumi" ed anche "le leggende"
della nostra Regione.
Studio che il Bolognini prese tenacemente a perseguire dopo
aver sperimentato troppe volte la difficoltà di ottenere
successi negli altri campi da lui solcati. Fu questa
loccasione per lui di unificare lamore per la
montagna, per la ricerca popolare, per la scrittura, per gli
ideali patriottici anche, per la sua terra, per la sua gente. Fu
forse un ritorno allessere fanciullo.
Ora un approfondito esame di quelle vicende che
laccompagnarono per tutta la vita, viste sotto un giusto ed
equo profilo è quello che si è accinto a compiere Tranquillo
Giustina, un altro rendenese come lui appassionato amante della
sua terra. Con una serie di scritti (non ancora conclusi) ha
preso ad esaminare attentamente levoluzione e la crescita
del Bolognini.
La recente edizione di un secondo volume (dopo quello uscito
lo scorso anno con le "Fiabe e leggende della
Rendena") contenente ora quelle "leggende
del Trentino" che già a suo tempo il Bolognini
pubblicò a puntate negli Annuari della SAT, avvia una collana
che, sotto limpulso di Piergiorgio Motter
dellEditrice Rendena di Tione animato da una forte volontà
di rivalutazione e riqualificazione del nostro illustre
pinzolese, trova fortunatamente la generosa e gratificante penna
del Giustina a integrare questa riedizione che nulla varrebbe
senza questa giusta riscoperta dellautore.
La prefazione che precede questo nuovo volume (come già lo fu
quella relativa al primo), è un lungo elogio, è
unosannante discorso, una lode senza freni che non scivola
mai comunque nel vanto, ma che invece riporta al suo reale valore
quel tributo che al Bolognini spetta e che per troppo tempo gli
è stato negato.
Leggende semplici, nostrane, popolari, ma raccolte e descritte
con uno stile letterario incantato, magico. "Pagine
inimitabili! Poesia assoluta" la chiama il Giustina
citando chiari esempi. E sicuramente non sbaglia. Lattenta
lettura di quelle brevi storie ci mostra - come scopre il
curatore - quel nuovo modo di sapere che coinvolse il mondo
letterario dallora: quello della cultura popolare. Un mondo
nuovo disprezzato dai grandi letterati del suo tempo, ma che
velocemente contagiò molti altri costituendo un filone nuovo che
oggigiorno riesce tanto più importante quanto più genuino fu lo
studio di base.
Fu un lavoro quello del Bolognini attento e certosino condito
da ricordi personali, da altri meticolosamente raccolti ed
annotati, da storie, modi di fare e di dire, azioni e tradizioni
antiche e nel contempo ancora valide e contemporanee (almeno ai
suoi tempi). Un mondo folclorico che preziosamente andò ad
arricchire le pagine degli annuari della Società Alpina del
Trentino e che la Casa Editrice Forni di Bologna pensò bene di
ristampare nel 1979 dimenticando però - purtroppo! - di
completare quella che poteva essere unottima occasione di
recupero non solo di unopera, ma di un mondo particolare,
con lattenta analisi di colui che ne fu il creatore.
Ma difficilmente avrebbe potuto trovare ciò che invece
lEditrice Rendena di Tione con questa nuova edizione ha
potuto trovare in Tranquillo Giustina. Unattento analista
che non si è limitato ad analizzare lopera in se stessa,
lo scritto o il mondo che vi è rappresentato, ma ha esteso in
modo scrupoloso lindagine con una completa sezionatura
della personalità e della vita del suo autore. Uno studio che è
partito dallinfanzia, dalle prime sue imprese volte alla
ricerca - o meglio alla concretizzazione - di un ideale che
sentiva profondamente anche suo, e poi via via lungo il percoso
di una vita segnato da scelte non certo volute spontaneamente: la
conduzione dellazienda paterna, labbandono
dellattività di avvocato osteggiata e troncatagli
dallautorità austriaca e le ostilità della sua stessa
gente derivanti proprio dallazienda paterna che assunse
lavoratori stranieri anzichè attingere in valle.
Ma ciò che esce da questanalisi è proprio il riscatto
che il Bolognini riesce ad ottenere - purtroppo solo ora! - con
la più completa rivalutazione dellopera letteraria da lui
compiuta. Opera letteraria che la cultura italiana e tirolese di
allora considerava di seconda importanza tanto che per riprendere
delle parole dello stesso Giustina: "per quella
letteratura - quanto mai gentile nei temi e negli ammaestramenti
- non solo il Bolognini non fu considerato, ma fu (dalla
presunzione dei dotti) relegato tra i cultori dun
insignificante sottobosco creativo". Ma proprio di tale
cultura che invece stava già più lontanamente (con i fratelli
Grimm, Tommaseo, Berchet, Pitrè, Mannhardt e più di tutti il
russo Lev Nicolaevic Tolstoj) acquistando quella giusta
importanza che oggigiorno le compete, il Bolognini divenne
lantesignano locale o meglio per usare parole del curatore
della riedizione "fu - nel Trentino - il divulgatore
commovente di quel movimento letterario davanguardia - il
"folklore" - che veramente appassionò lEuropa, e
rappresentò per la prima volta (in forma scientificamente
proposta) un nuovo sapere, o (ad essere più precisi) un nuovo
godimento del sapere, quello della cultura popolare".
Così ora, piano piano, tutta lopera del Bolognini
riemerge nella sua piena validità attraverso questa serie di
volumi che raccogliendo in una collana tutti i suoi scritti
suddivisi secondo un percorso congegniale che valorizza appieno
dapprima lanimo leggendario e fiabesco della sua valle, poi
in questo secondo volume quello del resto del Trentino per
continuare poi più avanti con le celebri maitinade e poi
gli usi e costumi del Trentino, i proverbi ed i modi proverbiali
per terminare infine con gli altri suoi scritti meno conosciuti.
Ed ad introdurre ogni volume nuove impressioni, nuove lodi, nuovi
brani di confronto e di studio sul personaggio, sulla sua vita,
sulla sua opera.
E un maestro di scuola il curatore di questa riedizione,
una persona quindi che ben capisce i ragazzi ed il loro animo
fanciullesco, animo che non si perde, ma che rimane insito e
reconditamente intriso nella vita anche delladulto, e che
lopera del Bolognini riporta a galla perfezionandone il
ricordo e stuzzicando questo lato bambino che è rimasto in noi!
Lo afferma nellintroduzione al primo volume dellopera
laddove dice "Arde anzi in questa riproposta - ma
potremmo dire, per molti, riscoperta - dellopera più
"rendenese" del Bolognini, la speranza che altre le sue
opere, portate a conoscenza dei lettori, rendano giustizia ad un
personaggio che fama e riconoscenza ben maggiori avrebbe dovuto
ricevere per quanto il Trentino raccolse perchè non andasse
perduto, ed esaltò perchè anche altri lamasse, ed
impreziosì con il cuore in mano nel commosso "passato
remoto" capace di trasformare il lettore - come per incanto
- in fanciullo eterno".
Ed è il Giustina anche poeta e narratore e quindi in grado
anche di capire la poesia degli scritti del Bolognini, che
attentamente vaglia e studia, evidenziando quei passaggi così
carichi di vena poetica e di fatata immagine che sovente
lautore inserisce nella sua opera. "Pagine
inimitabili! Poesia assoluta! afferma aggiungendo poi come "egli
- oltre tutto - seppe usare la lingua italiana con una chiarezza
e con una melodiosità, seppure non con la stessa perfezione
ortografica, di un Nievo. Di un Fogazzaro. E oserei dire di un
Manzoni." E più avanti ancora dice: "Poesia
risuonante nella poesia. Parole palpitanti, religiose, quasi
bibliche! Portate dal Bolognini ai significati supremi quando,
inebriato della sua valle, con vibrazioni immortali
scriveva".
Ma come il Bolognini anche il Giustina è un rendenese,
ammaliato dalla bellezza di una valle (oggi purtroppo
continuatamente minata e snaturata da mire speculatrici) che al
Bolognini fu sempre sì cara, tanto che egli stesso arrivò ad
affermare "e mi occuperò specialmente di quelle della
mia Rendena: mia, voglio dire, nel senso che essa mi fu culla, e
perciò credo e crederò sempre cosa giovevole il raccogliere e
lannotare tutto quanto riguarda la mia vita intima passata
e presente dei nostri montanari per investigarne poi la storia
recondita e lontana, e dedurne previsioni per
lavvenire".
Tutte queste affinità tra autore e curatore ben permettono un
buon connubio tra introduzione e testo, tra la vita,
lanalisi del personaggio e la sua opera letteraria. Un
binomio, una scelta, un incontro che leditrice Rendena di
Tione è riuscita a valorizzare appieno con questa riedizione.
E quindi dopo le "Fiabe e leggende della Rendena"
ora arrivano le Leggende del Trentino". Diciannove
leggende che interessano varie località trentine e che spesso
sattengono al tema dominante (o comunque sempre presente)
delle montagne. Montagna sì cara al Bolognini che fu
propugnatore proprio della Società Alpina del Trenino, montagna
intersecata con il tema folclorico e popolare al quale tanto
teneva. Così "fra le spaccature delle rupi scoscese
sovrastanti al bruno Castello di Mezzocorona" narra del
basilisco "mostro orrendo e spaventoso"; e così
"sarrampicava su pel monte Casale con ventidue
zig-zag" la stradicciola che portava in Giudicarie
testimone di un triste delitto; ed è ancora "fra i
boscosi monti dellAnaunia" che si svolge la storia
di S. Romedio e di San Zeno e nella"valletta solitaria e
remota, quasi in fondo alla valle di Concei" che
sattua la cruenta battaglia tra veneziani e bresciani alla
fine della quale "il mormorio straziante dei moribondi si
confonde con quello placido e dolce dei ruscelli che corrono giù
per le chine del monte".
Più determinante lapporto della montagna nelle leggende
della "Rocca Pagana" la quale "erge
superbamente la vecchia e calva cervice al di sopra delle nere
boscaglie della Valle di Ledro" e di cui "le sue
dirute e brulle pareti calcaree nulla hanno di singolare e di
pagano per darsi ragione del nome che porta", o del
Monte Tombea dal quale "si gode una vista stupenda, che
va a perdersi fra i meandri delle sottostanti vallette e nelle
lontane rupi e nei ghiacciai della Valle di Fumo", o
della "Marmolata" del quale narra "dalla
bocca di qualcuno di questi montanari la leggenda che originò il
ghiacciaio ed il deserto odierno" ed ancora del Vajolon
dice "il quale con altre cime e costiere forma la catena
che separa la valle di Fassa da quella della Val dAdige che
sta poco sotto a Bolzano verso oriente, è solo conosciuto con
tal nome nella predetta Valle di Fassa, mentre nellopposto
versante dai tedeschi del Tirolo è denominato Rosengarten,
giardino delle rose, ed è invece un giardino di guglie e di cime
aspre e dirupate".
E se non è la montagna è lambiente circostante, è la
natura a far da primadonna o sono gli stessi suoi abitanti I
montanari" - come li chiama egli stesso - che sempre vi
compaiono. "Una grande prateria e tuttattorno la
selva di conifere spiega le sue ombre e i suoi misteri" dice
parlando di San Lugano; "in questultimo tratto del
suo corso scorre su di un letto profondo racchiuso fra rupi
altissime, che in alcuni luoghi savvicinano e
sintersecano a segno che per poco tu ne sia lontano non
taccorgi della profonda spaccatura, mentre avvicinandosi e
spingendo lo sguardo in quelle voragini non vi è dato scorgervi
lacqua, e solo un sordo mormorio ne manifesta la
presenza" dice collocando topograficamente il Ponte
della Mula". Ed ancor meglio descrive la zona che
immette a Vulsana "nellAlta Val di Sole, ove sbocca
la valletta che vien dal Tonale, col suo rabido torrentello e la
bella strada militare, sallarga un romantico bacino, non
ampio, ma che colle sue linee variate e bizzare rompe la
monotonia della valle sempre ristretta che corre da oriente ad
occidente fra due linee di monti, col torrente Nosio e la via
carrozzabile nel fondo e i paeselli ridenti sulle chine".
Ma la raccolta non esula da riproporre due leggende legate
ancora una volta alla "sua" valle Rendena: "La
discesa del Re" narra quella legata alla credenza - non
del tutto sfatata - del passaggio di Carlo Magno in val Rendena
arrivando dalla Val di Sole attraverso Campiglio, mentre "Nel
regno dei demoni" racconta dei demoni che animano le
fantasie dei nostri "montanari"; Zampa-de-Gal,
Schena-de-mul, Calcaròt, Coa-de-Caval, Manaròt, Belajal ed
altri scaturiscono parte dalle sue ricerche, parte dalla sua
stessa infanzia. Ed ancora in questi la sua involontaria ma
spontanea capacità di inserire la montagna e la natura nei suoi
scritti.
E le leggende in fondo custodiscono una verità storica
deformata dal tempo, ingigantita e mutata dalle voci ricorrenti,
una realtà purgata dai fronzoli e mantenuta nel suo spirito
base, tanto da assumere spesso connotati irreali con la
trasfigurazione dei posti, delle persone, delle cose. Nascono
così i mostri arcani e reconditi spettri delle nostre paure, e
così pure i diavoli, le streghe.
Ma non si mutano grandemente i fatti più salienti e dominanti
nella storia di certe località, fatti e avvenimenti cruciali,
battaglie, agguati, delitti, soprusi, tanto da entrare vivamente
nella storia o persino nella toponomastica. Così le leggende
illustrate in questo secondo volume dellopera omnia del
Bolognini illustrano ad esempio il Passo della Morte che
ricorda un efferato delitto avvenuto sopra le Sarche, o la Valle
dei Morti sopra Concei luogo di una battaglia tar veneziani e
bresciani, la Rocca Pagana presso Storo che ricorda una
lotta tra popoli pagani e barbari, El Prà de le pegre
tra la Val di Ledro e la Valvestino che narra la disgrazia
(evento soprannaturale per la leggenda) accaduta a dei pastori
lì recatisi a pascolare abusivamente i loro greggi, la località
detta Aguai che così chiamasi a ricordo dellagguato
teso dai Fiemmani contro i barbari invasori, Il Ponte della
Mula così detto dalla fuga a dorso di mulo del Barone di
Castel Cles inseguito dagli sgherri del conte di Castel Tono, El
Prà de Vedes che narra delluccisione del signore del
castello di Vulsana in val di Sole, ed ancora la già citata
calata di Carlo Magno attraverso Campiglio e la Val Rendena o la
liberazione da parte del popolo del principe Vescovo di Trento
dalla prigionia dei signori di Sporo e la sua riconoscenza col
dono della grande Croce doro di Flavon.
Fatti realmente avvenuti, mitizzati, trasformati, mutati in
leggenda dai nostri "montanari" che li hanno
conditi con limmaginario collettivo e lirreale,
abolendo quel confine naturale tra il vero ed il fantastico.
E nelle stesse leggende si avverte anche lo spirito cristiano
e religioso che determinò il crearsi di molte di loro. Così le
storie agiografiche di S.Romedio e di San Zeno martiri cristiani
e di San Lugano santo anacoreta, i castighi divini come nel caso
della punizione inferta ai pastori lodroniani della Valvestino, o
quella data alla vecchierella avara che raccoglieva erba sulla
Marmolada, diventano motivo di riflessione e di dedicazione a
Dio.
Alla fine del suo lungo travagliato peregrinare, a compimento
della sua poliedrica vita, a parziale riscatto del suo
patriottico ideale, ed al" rientro delluomo alla
sua spiritualità" il Bolognini ritrovò alfine nelle
lettere e nei brani popolari la sua più gratificante redenzione.
E con la fondazione della Società Alpina del Trentino a Madonna
di Campiglio il 2 settembre 1872, e luscita degli Annuari
sembrava aver trovato - finalmente - uno scopo preciso alla sua
esistenza. Ma la gratificazione del suo animo non trovò di pari
grado il rientro nel consenso della gente che ancora provava
difficoltà nel recepire questo splendido dono che egli faceva
loro. Solo ora a distanza di tanti anni capìta limportanza
di questa letteratura culturale folcloristica, capìta
limportanza di ritrovare le perdute tradizioni e
lossatura della nostra formazione popolare, la gente
apprezzerà maggiormente i suoi scritti, la sua opera, il suo
generoso e ineguagliabile dono, il suo - ma sicuramente oramai
anche nostro - animo fanciullo.
- La
felicità delle "Cartoline"
- di Aldo G.B. Rossi
La scomparsa di Giovanni Cristini è ancora
così recente, che non si può parlare di profondo rimpianto per
la sua persona, ma è doveroso richiamarsi a una ferita viva che
richiederà lunghissimo tempo per rimarginare, se mai sarà
possibile, completamente.
Io, che ebbi la fortuna di scrivere e
pubblicare con lui nel 1985 (per Istituto Propaganda Libraria di
Milano) le "Cartoline dalle Dolomiti del Brenta - poesia a
due voci", lo voglio ricordare nella pienezza della sua
personalità prorompente, sempre pronto a porgere una parola
buona, a concludere un discorso o una lettera con una battuta
sapida di umorismo.
Le cartoline nacquero dalla fortunata
concomitanza di diverse circostanze in origine del tutto
indipendenti luna dallaltra, come Cristini acutamente
racconta nella bella prefazione al volume: la visita di Cristini
a Campiglio al fratello Piero, ottimo alpinista, le prime liriche
scritte in questa occasione, dopo un lungo silenzio di poeta,
lincontro con me a Milano a un premio letterario, nel quale
egli era giurato, lo scoprire che anchio avevo scritto
poesie su Campiglio e che, guarda caso, in questa località
alpestre abitavo nella medesima palazzotta frequentata
destate dallamatissimo fratello Piero.
Le nostre liriche risultavano poi
sufficientemente omotetiche per ispirazione e per stile, in modo
da suggerire un ulteriore sviluppo di questo colloquio poetico a
distanza e da proporre la tipica definizione di
"Cartoline", che corrispondeva anche ad una concezione
in understatement della propria opera, che poi, certamente per la
sua parte, modesta non era affatto.
Nacque allora lidea della plaquette,
alla quale Cristini si dedicò con quellentusiasmo, che era
una delle linee di forza principali del suo carattere e vide la
luce così questo volumetto rosso accattivante anche nella sua
grafica curata, e nei disegni di Adriano Vignola, aderentissimi
al testo e pur vibranti di un fremito personale. Lditore fu
lIstituto di Propaganda Libraria di Milano, a iniziare una
collana allinsegna del giglio rosso, simbolo della bellezza
solitaria e inaccessibile della montagna. Il percorso editoriale
delle "Cartoline", fu certamente irto di difficoltà,
come sempre, ma Giovanni le risolveva una ad una, vivendo
lavvenimento con una grande gioia che era alimentata da
più motivazioni ognuna già di per sé rilevante.
Il poter appagare, anche se per brevi
periodi, lamore per la montagna, che da buon bresciano
aveva connaturato, lincontro "ravvicinato" con il
fratello Piero, il minore di una numerosa famiglia, la nascente
amicizia con il sottoscritto, che diverrà poi un fortissimo
legame daffetto, basato su stima, simpatia e lealtà
reciproche, lamore per la moglie e i figli esaltato da un
breve soggiorno alpino e non ultima la soddisfazione di aver
ripreso in mano la penna, dopo un lungo silenzio, per scrivere
versi che per loriginalità del taglio, il nitore della
forma, la profondità dei significati, stanno al vertice della
poesia contemporanea: versi che, rotto lincantesimo,
troveranno ampia e significativa prosecuzione nel successivo
volume "Week-end in terra straniera", edito con
successo a breve distanza e in altri inediti, ci auguriamo, di
prossima pubblicazione.
Concluderò questa mia testimonianza
evocando la presentazione a Madonna di Campiglio del volume alla
Sala Congressi nelle due serate esclusive del 31 Luglio e
dell8 Agosto 1988.
La plaquette, che ebbe una vasta risonanza
critica a livello nazionale (come risulta dallelenco in
calce di "citazioni - stralcio" delle recensioni
inerenti) e che non ebbe il riconoscimento di un premio
letterario proprio per la sua atipicità, fu accolto con
entusiasmo a Campiglio, ove lAzienda di Soggiorno riservò
due serate al massimo livello in piena alta stagione, riuscendo
ad inserire la poesia della propria montagna nel contesto di una
fittissima serie di manifestazioni.
I dieci giorni a cavallo delle due
fatidiche date furono giornate di passione, nel segno positivo
della parola, impiegate per i contatti con il presentatore e
promotore delliniziativa Prof. Giampaolo Gandolfo, persona
del massimo livello culturale, con i lettori che furono il
giornalista RAI Tito Stagno, lo straordinario
"cronista" dellallunaggio americano, e la
Prof.ssa Margherita Olivieri, rispettivamente, per predisporre
laccompagnamento musicale, per verificare la resa acustica
degli altoparlanti, per controllare laffissione delle
locandine e così via.
Il tutto allinsegna di un entusiasmo
e di un afflato amicale che si traduceva in una atmosfera di vera
e propria felicità.
Felicità che promana anche da alcuni versi
della lirica Neve al Nambino, lirica di straordinaria bellezza,
che voglio citare a conclusione di questo mio omaggio elegiaco a
Giovanni Cristini.
...
- qui dove i pioppi danno ala al vento
- e il vento si fa tempo
- e il tempo variamente si colora
- e controluce lattimo lampeggia
- dirrimmediabile
- felicità.
A ricordo
di un vero amico: Giorgio Binelli.
Un vero amico se nè andato. Ma come
ogni uomo che ha saputo conquistare e catturare lattenzione
di coloro che lo hanno conosciuto, resterà sempre un esempio da
ricordare ed imitare.
Originale, quasi geniale, per il suo vasto
campo di interessi che lo appassionavano: lerboristeria, la
fotografia, la poesia dialettale, la lettura delle vicende
storiche locali.
Dietro il carattere semplice e sobrio si
celava una profonda sensibilità che esprimeva come attento
osservatore di chi gli stava di fronte, come discreta
riservatezza, come scrupolosa puntualità, come il rispetto per
il prossimo.
La vita come sempre riserba momenti
dolorosi ed anche lui non era stato risparmiato, ma ciò malgrado
ha saputo conservare i propri ricordi con lo stesso spirito con
cui ha cercato e colto nella quotidianità i momenti positivi.
Ma io lo voglio ricordare anche per
lamicizia comune che spontaneamente è nata dalla passione
per le montagne, per i racconti avvincenti della sua vita di
lavoro e della sua gioventù, per le indimenticabili escursioni
durante le quali sapeva sempre insegnare qualcosa di nuovo, per
laccoglienza sempre calorosa e sincera, per lallegria
contagiante e per le parole di conforto.
Caro "pinzuler" tutti questi
ricordi restano.
Giancarlo
Bolzano, 18 maggio 1997
Al Frate pastòr (1)
- Dali malghi pü afti
- si vic lasù
- n mèz a na gula
- staià ntal cél
- n campanìl suléngu.
- Al par càl prega: lè
l Frate.
- Lè n gran pastór
- di n zintinèr di camüc e di
marmòti
- ca i ghi pascula tranquìi intornu.
- Ghi fa curuna lastrun di cròz bianc e
grìs,
- i sö pé ié trapuntè di stèli
alpìni.
-
- Ti vè su n mèz a n tapé
di mufdìni,
- ca l par n mar rùs di
sànc
- smuvù apéna dal vént.
- Di colpu ti ghi rivi sùta estasià.
- In cul gran silénziu
- n mèz a quìli superbi
catedrali
- al par n fin ca öl al ti dàga
lasoluzión.
(1) Frate: cima simile al Campanil Basso
nel gruppo del Carè Alto.
Cul vèc ciò di muntagna
- Al vardu par na maravèia,
- lè vignù vèc e rùgin,
- ma plantà amù ntal cròz
- ormai tüt svérgul cumi n
agröc.
- Ma lò furgià mè.
- Sai cròz i pü sióri
- e zèrti guidi alpini
- i à dit: - Ma s pöl n
ciò cumpagn?
- Ròba da ciò! -
- Ma fòrsi cul ciò
- al cùla giü sai cròz
- n pòc di rùgin
- e l ghi pisa sali scàtuli ...
- Cul ciò puröt ...
- vèc ciò di muntagna.
3° "Premio Luigi Amech"
1996 a Trento
- Quella
famosa rapina avvenuta a Campiglio.
- di Luciano Colombo
In quel lontano 26 gennaio 1979 lArma
dei Carabinieri stava attraversando uno dei periodi più bui di
tutta la sua recente storia repubblicana. La monolitica struttura
dellArma, sostenuta da una ferrea disciplina militare, era
chiusa alle garanzie sindacali di cui godevano tutte le altre
forze del lavoro. Questa condizione, aggravata dai modesti
stipendi corrisposti, stava determinando la rarefazione delle
domande darruolamento e quindi una diminuzione degli
organici dellArma. Inoltre, con lindebolimento delle
stazioni carabinieri, dovuto a molteplici cause, lArma
subiva, con la morte dinnumerevoli militi, lattacco
che uno spietato terrorismo ed una delinquenza sempre più
agguerrita stavano muovendo contro lo Stato. In quella storica
situazione, il custode delle tue libertà, che per orgoglio e
passione partecipò alleterna lotta del bene contro il
male, non volle mai darsi per vinto. Egli, che poteva essere tuo
figlio, od il giovane amico della porta accanto, oppure uno di
quei ragazzi che sono sempre presenti nelle circostanze tristi o
liete della storia del tuo paese, non mendicò mai scuse per
sottrarsi ad una scelta di vita dove il coraggio non era solo
dovere.
Alle ore 11,55 del 26.1.1979, così come
accadeva in ogni stazione dellArma, nella caserma di
Madonna di Campiglio lorologio scandiva i tempi delle varie
operazioni giornaliere. Da alcuni minuti era terminato un
servizio esterno per cui i due militari interessati, dopo avere
scaricato larmamento in dotazione, avrebbero iniziato a
trascrivere i risultati degli incarichi ricevuti. Nel frattempo,
laitante carabiniere Rino Pedergnana stava cucinando, su un
fornello a legna, il frugale pranzo di mezzogiorno. Il piccolo
milite Epifanio Pontirolli, libero dal servizio, era affacciato
sul davanzale della finestra dove seguiva, con lo sguardo e con
il cuore, i passeri del bosco vicino che piluccavano alcune
briciole di pane.
Sempre alle ore 11,55 dello stesso giorno,
due professionisti del crimine entrarono nella Cassa di Risparmio
di Trento e Rovereto, filiale di Madonna di Campiglio dove,
pistola in pugno, rapinavano la somma di lire 36.352.000. In
seguito, seguendo un piano meticolosamente predisposto, che
prevedeva di ritornare a Marilleva con gli impianti del
collegamento sciistico, i malviventi si allontanarono con un
automezzo di provenienza furtiva. Dopo avere abbandonato il
veicolo e raggiunta lautorimessa del Centro Rainalter, si
travestirono con un abbigliamento sportivo. Indi nascosero, in un
bidone per le immondizie, gli indumenti che indossavano al
momento della rapina. Uscirono, poi, dal fabbricato e si
confusero fra le centinaia di persone che affollavano la
località turistica.
Alla ricezione della telefonata annunciante
lavvenuta rapina, i carabinieri, nel particolare torpore
che accompagnava ogni mezzogiorno, si calarono improvvisamente
nella cruda realtà che sempre seguiva lindagine
riguardante lesecuzione di un grave reato.
Conseguentemente, i carabinieri Guido Ioris, Rino Pedergnana ed
Epifanio Pontirolli, afferrarono le armi di dotazione e, non
avendo un automezzo di servizio, salirono velocemente su una loro
autovettura. Poi, rinunciando allimproduttiva costituzione
di un "posto di blocco", previsto in una delle zone
periferiche di Campiglio, percorsero, scrutando ogni passante, le
Vie della cittadina. Quando giunsero nei pressi della Funivia
Pradalago, il carabiniere Guido Ioris incrociò lo sguardo di un
viandante, che indossava uno zaino di colore rosso. In quello
sfuggente cipiglio, il carabiniere lesse tutta lansia e
lapprensione che avrebbe pervaso anche il più incallito
dei delinquenti dopo la consumazione di un grave delitto. Con
questo sospetto, il carabiniere Guido Ioris decise di controllare
il forestiero che, assieme ad un altro sconosciuto, stava
dirigendosi verso la stazione di partenza della funivia
Pradalago.
I carabinieri, scesi dal loro automezzo,
andarono incontro ai due individui i quali, vedendo il nereggiare
delle loro uniformi, improvvisamente si divisero. Uno di loro
raggiunse lentrata della stazione di Pradalago, subito
seguito dal carabiniere Epifanio Pontirolli, mentre il secondo,
camminò in direzione dellautorimessa delle funivie dove,
improvvisamente, estrasse una pistola e la puntò contro i
militari. A questo punto, gli eventi, tragicamente uguali nella
violenza che rivelerà la tempra dei due banditi, avrà uno
svolgimento parallelo. I carabinieri Guido Ioris e Rino
Pedergnana, pronti a fare fuoco, puntarono le loro armi contro il
malvivente ingiungendogli la resa. Sullaltro fronte,
situato allinterno della stazione di partenza per
Pradalago, limpavido Epifanio Pontirolli, dopo avere
inserito la pallottola in canna, intimò, al secondo malfattore:
"Mani in alto!".
In quellattimo, dove una vita poteva
spegnersi nella breve esplosione di uno sparo, i tre carabinieri
ebbero unesitazione. La loro riflessione, che non era
vigliaccheria, ma solo lintimo ed istintivo credo in un
comandamento di Dio, nacque pure nella consapevolezza che i
carabinieri non dovevano né avrebbero mai sparato per primi. Ed
in quellistante, dove pensiero, coraggio ed inquietudine si
fusero in un equilibrio di cosciente determinazione, la società
ritrovò, nel cuore dei tre carabinieri, il palpito e lo spirito
del più nobile dei sentimenti umani. Fu così che limpeto
dellazione rimase sospesa su quel dito, fermo sul
grilletto, dove pulsava tutta lansia della loro
trepidazione.
In quel momento, il piccolo carabiniere
Epifanio Pontirolli correva il rischio di sacrificare la sua
vita; infatti, il rapinatore, che atleticamente lo sovrastava per
forza e statura, gli si avventò contro e con entrambe le mani
cercò di disarmarlo. I due caddero lungo le scale. Nella lotta
che ne seguì, il malvivente, nonostante la resistenza opposta
dal carabiniere, riuscì a torcergli la mano che stringeva la
pistola, indi gliela trascinò sino sul mento. Il malfattore
cercò poi di premere su quelle dita, che uncinavano il
grilletto, al fine di provocarne il cedimento e quindi lo sparo.
In quegli angosciosi attimi il carabiniere vide, con sgomento, il
riverbero dellacciaio che incombeva sul suo viso. Poi,
nello spasmo dei suoi sensi, dove unimprovvisa stanchezza
anticipava limminente fine, percepì lalito della
morte che stava per ghermirlo. Con un urlo, gridato dal profondo
della sua disperazione, riuscì a trovare quelle riposte energie
per non morire di propria mano. Si svincolò. Subito dopo, il
delinquente cercò di estrarre la pistola P.38 che custodiva
allinterno dello zainetto; ma il giovane carabiniere, mai
domo nel suo temerario ardimento, come un mastino si avvinghiò
al collo del malfattore, e fu di nuovo cimento. La fune della
funivia, scorrendo sulla mastodontica ruota motrice, con il suo
stridore coprì il mugolio dei due contendenti che rotolando sui
gradini, sino allentrata dello stabile, lottarono ancora
per la vita e per la morte. A questo punto loperaio Lindo
Vidi, che aveva seguito quellincredibile scena, fugò le
sue ritrosie e si gettò nella mischia. Il rapinatore Remo
Monticone fu, così, ridotto alla ragione ed ammanettato.(1)
Sullaltro campo, dove la brezza che
proveniva dalla valle di Nambino sferzava volti e formava vortici
di neve, i carabinieri inquadrarono, nel mirino delle loro armi,
il bandito che brandiva la propria pistola. Il delinquente, già
sospettato davere ucciso due carabinieri, si rese conto che
non aveva possibilità di scampo. Inoltre, il malfattore, era
consapevole che esplodendo un solo colpo contro di uno dei due
militari, laltro milite lo avrebbe fulminato. Nel
frattempo, ignara di quanto stava accadendo, la signora Paola
Bernetti scese da una vicina autovettura Golf GTI. Il criminale
vide, nellavvenente signora, una possibilità di salvezza.
Lafferrò alla gola. Le serrò il braccio attorno al collo
e la strinse a sè. Poi, premendole la canna della pistola contro
la tempia, gridò che lavrebbe uccisa se i carabinieri non
avessero deposto le armi. Linattesa ed imprevedibile
situazione, con il conseguente pericolo di colpire
lostaggio, suggerì, ai due carabinieri, la rinuncia a fare
uso delle armi ma non a recedere dalla loro azione. I due
carabinieri, scambiandosi un cenno dintesa, iniziarono,
lentamente e con le armi in pugno, ad avanzare in direzione di
quella canaglia. Decine di turisti, con il cuore in gola,
assistettero a quella straordinaria sequenza della vita dove, la
realtà, stava divenendo leggenda. Due carabinieri, protetti solo
dallo scudo della loro fede, stavano affrontando, a viso aperto,
la criminale follia di un temibile bandito. Il rapinatore,
che nel dispregio della vita aveva fondato il proprio credo,
rimase sconcertato da quella visione. Quelle due uniformi, che
nereggiando nel biancore della neve erano insensibili alle sue
minacce dassassinio, sovvertivano una dottrina
delinquenziale in cui credeva. Si sentì perduto. In un ultimo
disperato tentativo per sottrarsi alla cattura urlò, al
conduttore Fortunato Olcelli, di scendere dalla Golf GTI. Intimò
poi, a Carmelo Ghiselli, di rimanere seduto sul sedile posteriore
dello stesso automezzo. Allontanò la donna e salì
sullautovettura. Mise in moto lauto e quando con
unimprovvisa sterzata stava guadagnando lagognata
fuga, un preciso colpo, sparato dal tiratore scelto Guido Ioris,
gli afflosciò un pneumatico del veicolo. Tommaso Bagnato, alias
Luciano Albanese, poi identificato in Giovanni Misso, scese dalla
Golf GTI e si arrese. (2)
Trascorsero alcune ore.
Era quasi buio. Una fioca luce illuminava
laustera stanza dove il vento di tramontana, soffiando fra
gli stipiti della finestra, suscitava, nellanimo di quel
ragazzo, uninsolita malinconia. Inoltre, il freddo
invernale, proveniente dagli spifferi dello sconnesso battente,
stava disegnando arabeschi di ghiaccio nel luogo in cui, come in
uno specchio, si riflettevano le forme del carabiniere. Il
piccolo milite, seguendo i suoi pensieri fermi su
quellangoscioso riverbero di luce, fissava linfinito
posto di là del vetro e del bosco vicino. Non vide gli amici del
mattino ma unimmagine resa evanescente da quella miriade di
goccioline che stavano cristallizzandosi sul vetro. Vide poi che
quella figura, quasi fosse unanima, era simile alla sua. Si
toccò il viso; ed in quel momento, come se si fosse svegliato da
un incubo, si accorse che era vivo. Ebbe un tuffo al cuore. Poi,
pensando agli affetti più cari, provò unintima ed
inattesa emozione. Si commosse, e non seppe trattenere quella
lacrima che lo stava restituendo alla sua silenziosa vita.
I nomi dei tre giovani carabinieri furono
iscritti, non ultimi di un lungo elenco che non avrebbe avuto mai
fine, sul libro degli eroi dellArma.
1) Lindo Vidi, la cui
valorosa azione fu decisiva nella cattura del rapinatore
Remo Monticone, rimase il simbolo di un comportamento
civile che non ha eguali.2) Giovanni Misso, fiero ed orgoglioso non
volle, durante il processo, che gli fossero riconosciute
le attenuanti del caso in merito ad una malattia avuta
diciotto anni prima. Egli gridò: "Non sono malato!
Sono qui per essere processato e basta! Ho sbagliato e
devo pagare!". Giovanni Misso fu condannato a dieci
anni di carcere. Al complice Remo Monticone furono,
invece, inflitti otto anni di reclusione.
- La
Via Crucis di S. Vigilio a Sorano
- di Giuseppe Ciaghi
Verso la fine della primavera di questanno il Comune di
Pinzolo ha avviato unopportuna serie di interventi di
arredo urbano nelle pertinenze della chiesa di San Vigilio a
Sorano, tempio celebre per le originali e stimolanti pitture a
fresco dei Baschenis raffiguranti il "Ballo della
Morte" o "Danza Macabra". I lavori riguardano la
sistemazione del piazzale a sud del tempio, i giardini col
monumento ai Caduti di Ettore Sottsass senior ed il vialetto di
accesso al cimitero con il percorso ed i capitelli della via
Crucis. La stradina verrà pavimentata in granito e le edicole
saranno ripulite e restaurate a distanza di novantanni
dalla loro costruzione, dovuta ai "maestri muratori"
Raffaele Binelli Locin e Raffaele Binelli Tisòr. Le edificarono
sul tracciato di una Via Crucis precedente che aveva le
"stazioni" dipinte, andata in rovina per
lincuria, labbandono e le villanie ad essa inferte
dalla gioventù del paese.
Abbiamo ricavato queste notizie da uninteressante pagina
scritta a mano da don Francesco Boldrini nei "Fasti
dellinsigne curazia di Pinzolo-Baldino", un documento
curioso, che ci offre uno spaccato dellambiente e della
mentalità della gente nei primi anni del Novecento insieme a
qualche preziosa testimonianza sulla località.
Vi si accenna infatti allesistenza del "Capitèl
dei Mori", di cui si era persa la memoria, e se ne indica il
luogo dove era stato edificato, pressa poco dove ora
partono le funivie per il Doss del Sabbion.
Vi affiora pure, nella giustificazione del parroco ai
vandalismi dei ragazzi, la considerazione in cui erano tenuti gli
ebrei dai cattolici, visti ancora come gli assassini del Cristo;
vi è messa in evidenza la generosità della popolazione di
Pinzolo davanti alle richieste del parroco, insieme con le
ristrettezze in cui essa versava, che si colgono quando vien
chiamata a fare delle scelte economiche; compaiono aspetti dei
suoi rapporti col culto e la religione, abitudini, come quella di
accumulare i sassi ai margini dei prati ed altri aspetti del
vivere quotidiano.
Il curato così si esprimeva, sicuramente in maniera colorita
ed efficace:
"La nuova Via Crucis in granito di San Vigilio.
Uno degli sconci apparsi per il primo ai miei occhi dopo la
mia venuta fu lo stato indecente in cui si trovano i capitelli
della Via Crucis a S. Vigilio. Un paio erano stati atterrati,
altri erano senza coperto, tutti poi colle pitture barbaramente
rovinate dai sassi dei monelli che, forse a sfogar il loro
malanimo verso i crudeli Giudei che tormentarono Gesù,
fecero questi oggetto del loro prediletto bersaglio; attorno poi
a tutti eranvi ammonticchiati i sassi di tutti i campi vicini, le
ortiche, le spine cresciute attorno agli stessi; reclamavano una
mano pietosa che li restituisse ad uno stato di maggiore
rispetto. Tenni in questinconveniente parola ai miei due
bravi e zelanti fabbricieri (N.d.a..: erano i responsabili
della cura degli edifici sacri ed erano scelti dalla comunità) Maturi
Carlo e Bonapace Giacomo i quali non solo appoggiarono la mia
proposta di restauro della Via Crucis a S. Vigilio, ma più
zelanti di me si presero limpegno di presentare in Comune
un progetto più radicale del mio: abbattere tutti i vecchi,
sgomberare tutta la catena dei monti formata dalla marogna lungo
i capitelli, allargare la strada sostenendola con un muro nuovo,
costruire i nuovi con granito fugato, col coperchio pure di
granito e tutto dun pezzo, ed assieme restauro del muro di
cinta del cimitero.
Avvezzo comera io ad un Comune che lesinava ogni
piccola spesuccia fatta per il decoro della casa di Dio, non
potei che ammirare ed approvare tanta buona volontà.
Venne fatta la proposta in Comune, ma per grado, e con lode
dello stesso, venne fatto pure il conchiuso (N.d.a..: così
so chiamava la delibera comunale) perfettamente nel senso
ideato dai fabbricieri prelodati.
I capitelli costano in media 140 corone cadauno, senza i
gruppi della Via Crucis, essendo troppo breve il tratto della via
tra lincrocio di quella che viene da Pinzolo (capitél dei
Mori) e quella che viene da Baldino per porvi 14 capitelli,
volendo collocare il capitello della prima stazione precisamente
nel crocicchio, si dovrebbe comperare il terreno dai privati,
costruire poi quel semicerchio ove ha posto il primo, e collocare
gli altri troppo vicini uno allaltro. Sarebbero stati assai
meglio sullaltro fianco della strada, ma la linea ancor
più breve della medesima, e lopposizione del proprietario
del campo non lo permisero.
Lopera venne messa allasta e fu levata dai soci
maestri muratori Binelli Raffaele Locìn e Binelli Raffaele
Tisòr di Pinzolo, e nel 1906 e 1907 condotta a termine. Secondo
le condizioni darte tutti i capitelli lungo la serpentina
via, dovevano aver la facciata direttamente rivolta alla persona
che vi passava vicino, ma per imperizia dei maestri muratori due
non furono messi bene; si voleva farli abbattere, ma niuno ebbe
il coraggio, per cui la stonatura è permanente. Chi li osserva
tutti non durerà fatica trovare quali siano. Anche la struttura
degli stessi non è punto elegante specialmente se si vedono al
di dietro; si sarebbe desiderato un basamento pronunciato, ma
questo non si volle per non aumentare la spesa al Comune e le
critiche di varij ai quali sembrava quella spesa del tutto
superflua; daltronde leleganza in materiale così
ruvido non era facil cosa ottenerla da simili maestri.
Daltra parte la solidità dellopera che sfiderà le
età future compenserà i difetti occorsi nella stessa.
Preparata la nicchia, mancavano i Santi, cioè, mancava una
buona mano pittrice che avesse rappresentato ai devoti le scene
principali della Passione del N. Signor Gesù Cristo; non che
aspiranti mancassero, ma mancarono di quei valenti che assieme ad
un lavoro discretamente bello avessero eseguito un lavoro per un
prezzo relativamente mite.
Diodato Massimo, E. Chiocchetti e Donati veronese
presentarono le loro offerte, ma furono tutte respinte per il
loro alto prezzo. Gli scultori Moroder di Gardena si offersero
per eseguirle in legno, altri in bronzo, ma tutti vennero
scartati per lo stesso motivo.
Parve invece a noi di combinare il bello col devoto,
lartistico col mite prezzo, col collocare nelle nicchie
gruppi in terracotta color di pietra, tutti dun pezzo,
garantiti (di 50 anni), inalterabili alle intemperie del clima e
delle stagioni in queste sicule contrade. Per mezzo della Ditta
I. Heindl di Vienna vennero ordinati a Bucs in Svizzera nel 1908
e nel 1909 vennero messi a posto e provveduti duna ramata
di difesa. Costano complessivamente corone 1192 e furono
inaugurati con solenne benedizione il 14 novembre 1909 in
occasione della Chiesa di una missione, dal M. Rev. padre
stimattino Antoniolli Giuseppe superiore della casa di Milano. I
documenti di trovano in questarchivio. La divozione del
popolo di Pinzolo per questo pio esercizio della Via Crucis è
grande; basta osservare alla domenica dopo pranzo quanti fanno la
Via Crucis. E una cosa che commuove.
d. Francesco Boldrini 1912".
- Sergio
Trenti
- Conosciuto da vicino
- di Giuseppe Leonardi
"Ricordati che la valenza
delluomo sta più nelle sue mani che nel pensiero".
Con questo distico Sergio Trenti, nella sua bottega a Carisolo
mentre ero in ammirazione della tavola che rappresenta il
"Cristo in croce" visto dallalto
dellarroganza e della crudeltà delluomo che lo ha
crocefisso, mi fece capire che come scrittore non valevo niente,
se non costruivo qualche cosa che restasse di utile alla
comunità. Sergio nella malattia aveva subito una catarsi che lo
aveva santificato e fra i suoi Cristi Lui era quello vivo, quello
autentico.
Poi proseguì:
"Tutti siamo costretti a pagare a Carónte il dazio al
varco dello Stige, ma solo chi riuscirà a farlo con qualche cosa
in mano, avrà facilitato lingresso nellaltra vita,
senza dover soffrire nellimpatto".
Mi aveva detto: qualche cosa in mano. E Sergio si
riferiva al prodotto delluomo che lavora e soffre per
costruirsi la propria vita giorno per giorno in hac lacrimarum
valle.
Durante tutta la sua vita di raffinato artista, liberò la sua
ansia pittorica ritraendo il popolo nel suo mondo di esperienze
quotidiane, degne di essere valutate, salvate e collocate a
documento della rustica vicissitudine umana. Sergio viveva
dellessenza delle cose semplici, delle minime esperienze,
Lui che non salì mai sullaltare eretto dagli uomini, ma
che alla vita degli artefici costruì con le sue mani tanti
altari. Fu il pittore delle falci per mietere, delle selle da
cavallo, dei morsi applicati ai generosi destrieri, della fatica
del falciatore che batte la falce, delle lumache a lato della
strada e delle cuspidi dolomitiche, salite con la forza delle
mani e dei ginocchi.
Ma anche degli accaniti giocatori della morra, delle joske
conturbanti, lascive ed incantatrici, e dei preti oranti dai
grandi piedoni scalzi, che vestono paramenti sacri, ma hanno
toste facce popolane.
Fu il modellatore delle mani. Ah, le mani! Lunghe, affusolate,
dalle unghie tonde e con le noccole marcate.
Fu il modellatore delle teste. Ah, le teste! Ben tornite a
uovo, con le fronti arrotondate, lisce e calve.
Due elementi caratterizzanti: mente pensante, laica, vissuta;
e mani dure, purificate nella catarsi del sofferto lavoro: cogita
et labòra, pensa e lavora.
Suoi aveva fatti il mulino, le ruote e gli ingranaggi delle
macchine idrauliche, i mantici, le forge, le tenaglie, il
martello, i bulini, i ceselli, il falcetto per mietere e le mani
come uncini, gli uncini dei rampagaröi: gli arnesi dei mestieri
del popolo.
Il disegno fisico in assenza di decorazione, ed i colori
intensi, evanescenti ed indescrivibili che realizzava erano una
rappresentazione più scultorea che pittorica di ciò che nel
dialogo povero e scarno egli sempre sostenne:
"I miei quadri rappresentano tante piccole vicende
incorniciate, entro le quali vengono posti gli oggetti nei quali
luomo ritrova se stesso, con le sue vocazionali attitudini
e quindi con la coscienza di essere parte viva
dellesperienza umana".
Quando gli dissi: "Tu fai la copertina ed io scrivo il
libro del Bruno", mi parve entusiasmarsi come un monello
quando gli si chiede di farne una di quelle grosse, ma subito mi
chiese: "Del Bruno? Proprio del Bruno?". "Sì
- risposi - proprio del Bruno". Allora Sergio si fece
serio ed aggiunse: "Sappi che uno scrittore non è
potente quando inventa, ma quando preleva la vicenda del singolo
dalla disarmonia del popolo e la racconta idealizzandola".
E Sergio con un amalgama di chiaroscuri fece una sintesi
plastica di alpe e uomo, interiorizzò la rudezza estroversa
della Guida, fissò nellocchio e nella mano la tensione
morale, esaltò lungo gli spigoli del Campanile Basso
lansia dellascendere. Il disegno impreziosì il libro
della biografia "Gigante della Montagna", dedicata a
Bruno Detassis.
Poi gli avevo fatto leggere "Sentieri ritrovati"
posto alla fine della biografia della sfortunata guida Clemente
Maffei e lo avevo pregato di fare la copertina del libro. Sapeva
quanto tenessi a quella mia fatica.
Con un disegno di notevole capacità di introspezione
individuale, Sergio mistificò il volto di Guerèt fermandolo
nella placca di Scarazón e con espressionismo realista
trasfigurò sulla rupe il Rampagaröl per leternità.
Così fu per il volo obliquo e radente attorno
allEnigma. Gli avevo detto: "Per una storia di
oltre centanni, fammi una follia!". E Lui mi
rispose: "Una follia? Come quella che cè sopra il
letto di Andrea?", il figlio stroncato allarrivo
di una gara di fondo, lultimo giorno dellanno. Ed
entrammo nella camera e sopra il letto cera il volo
congelato di un gipéto vero del Brenta. Il periodico
"Rendena quattro", centanni di storia del
Campanile Basso, ebbe per merito suo la copertina con "I
Gipéti del Brenta".
Nellimpianto progettuale dei suoi quadri il disegno è
di stile classico anche se in assenza di decorazione;
sconvolgenti sono invece le immagini tratte da unumanità
sofferente, laica e religiosa, dissacrante e orante, ma sempre
illuminata dalla luce del sole raggiante o della luna piena
illuminante.
Sergio penetrava nellinteriorità dei suoi personaggi e
con tratti sconvolgenti li faceva partecipi dei suoi intimi
tumulti nella continua ricerca di elevazione e riscatto sulla
sofferenza universale. E in ciò coinvolge lo spettatore che
dinanzi alla sua pittura viene catturato e fatto partecipe. Per
le immagini della ruota idraulica e del telaio per la filatura, e
per quelle degli umani sghembi, Sergio ha rubato, e solo perché
aveva il dono magico dellartista, un poco del sapere a Dio,
per poterlo donare agli uomini.
Questo era per me lamico Sergio, dotato della
sregolatezza del genio e della bontà del fanciullo.
Un artista, che rifuggiva dagli altari, mentre ora lo
costringo a salirvi nel nome dellarte.
E non lo faccio volentieri, perché a ricordarlo: Ich bin
traurig wie der Todt - Ego sum tristis quam mors.
Lobiettivo di Claudio Dallagiacoma
- Il mio bel San Giovanni
- di Tranquillo Giustina
In una Val Rendena - così bene innestata (con la sua storia e
con la sua leggenda) nella "Passione di San Vigilio" e
nella "Discesa di Carlo Magno" - una certa
toponomastica di Massimeno (Castél, Guardia, Torre) oggi più
che mai suona a comprova dellancora inesplorata vicenda
medievale dellalta valle.
Se a ciò aggiungiamo la ragionevole certezza che la solitaria
chiesa di San Giovanni non sarebbe potuta sorgere in
quellisolato luogo senza un antico nucleo abitativo
accanto, allora il dato dun sicuro che se scomparso
insediamento rimane unipotesi quanto mai riconducibile alla
primordiale realtà.
Di certo non potremo assolutamente figurarci il piccolo
villaggio che determina la costruzione (più volte rimaneggiata
ed ampliata) della prima chiesetta. Così come non sapremo
immaginare - ora che la mastodontica "cava" ha
sovvertito lambiente - le piene, le violenze alluvionali,
le tracimazioni del torrente Flanginèch che sabbatterono
sul misero paesino posto a nord di quello che doveva essere poco
più di un sacello.
Sappiamo comunque che quando Simone Baschenis, nel 1533,
saccinse a fare delledificio sacro superstite - ma
sempre chiesa di Massimeno - una colorata meraviglia
dagiografie, cominciò collaffrescare sulla facciata
il protettore massimo degli irruenti corsi dacqua, vale a
dire quel San Cristoforo dai Baschenis già dipinto sulle chiese
di Santo Stefano, di San Vigilio, di SantAntonio Abate,
luoghi dove gli straripamenti della Val Genova, della val di
Campiglio e della Val di Borzago, più volte avevano lasciato il
segno.
Perchè la chiesa di San Giovanni era indubitabilmente la
chiesa di una comunità, chiesa che mai sarebbe potuta esistere
così bella e così grande senza lapporto costruttivo, e
diciamo pure eroico del poverissimo borgo che le stava appresso.
Borgo - nel nostro caso - il più elevato della valle, affacciato
sulla distesa lacustre su cui erano affacciati tutti gli
insediamenti di Sopracqua.
E convinzione del resto, confermata anche dai molti
toponimi un po dovunque rimasti, che i miseri sparuti
insediamenti rendenesi dellalta e media valle - avanti
lanno mille - fossero simili a cittadelle gelose ed
autonome che si reggevano (come piccoli regni) alla maniera
etrusca, sotto il potere dei rispettivi signorotti sicuri nelle
loro dimore munite, o - se preferiamo - nei loro castellieri.
Una di queste cittadelle era Massimeno.
Dimenticando ad ogni modo ogni ipotesi ed ogni leggenda, e
considerando la chiesa di San Giovanni Battista per ciò
chessa realmente fu, vale a dire la chiesa sbocciata dalla
prima autentica "edicola cristiana" dellantica
Massimeno, essa ora è là, documentazione fiorita dun
tempo insondabile ed inimmaginabile; antologia pittorica tra le
più pure e genuine della nostra Rendena: con il classico San
Cristoforo, guadatore di selvaggi corsi dacqua; con il
Gesù bambino più bello di tutta la pittura bascheniana; con la
Vergine in trono, materna e maestosa insieme; con le due figure
emaciate ma confortatrici del Precursore e di San Rocco; e tutto
questo sul sagrato, prima di mettere piede nellevanescente
interno dove pochi delicatissimi resti daffreschi fanno
rimpiangere i fastosi arazzi murali, i disegni arabescati, i
fondali fiabeschi che secoli fa incantarono ed estasiarono la
fede e la spiritualità dei tribolati avi. Al punto che non è
fare retorica il pensare un Simone Baschenis rivaleggiante - ad
oltre un secolo di distanza - con le cadenze narrative del
"miniatore" Monte da Bologna nel rifinire alcune esili
celestiali creature, ideate "a miracol mostrare".
In possesso di un tale edificio dal valore incalcolabile, la
fortunata Comunità che lo ha ereditato troverà il modo oggi
più che mai di conservarlo, di comprenderlo, di valorizzarlo,
così che ogni abitante di Massimeno - per la secolare storia e
lirripetibile arte chesso racchiude - possa
orgogliosamete (e, diciamo pure, "dantescamente")
chiamarlo "il mio bel San Giovanni".
Collegamento
sciistico?
Facendo seguito alle considerazioni
espresse da Cesare Maestri nel numero scorso del periodico
Rendena, relative al collegamento sciistico Pinzolo - Madonna di
Campiglio, propongo allattenzione del lettore il documento
stilato dallAssociazione Italia Nostra, relativo allo
stesso progetto, documento che venne allegato alle Osservazioni
al Piano di Parco presentate nei mesi scorsi alla Giunta
esecutiva del Parco.
- Luisa Pedretti Romeri
- vicepresidente di Italia Nostra
Sezione Trentina
-
- Le
motivazioni turistiche, tecniche e finanziarie
- che
ostano alla fattibilità dei progetti di collegamento
- funiviario
Pinzolo - Madonna di Campiglio.
Sui progetti di collegamento funiviario Pinzolo - Campiglio si
discute ormai da qualche decennio senza aver potuto individuare
una soluzione razionale, che soddisfi almeno i più importanti
requisiti sotto laspetto turistico, tecnico e finanziario:
segno evidente delle grosse difficoltà, di vario genere e non
solo per i vincoli di tutela ambientale ed
idrogeologici-forestali, che i vari progetti devono affrontare.
Queste difficoltà, come ben sappiamo, hanno comportato
addirittura il non inserimento di questo collegamento
nellultima variante al PUP, nonostante le forti pressioni
politiche della Rendena.
Nel seguito illustreremo le motivazioni di carattere
turistico, tecnico e finanziario che ostano alla fattibilità del
collegamento e che sono allorigine delle difficoltà
incontrate dalle varie proposte di soluzione.
- Il collegamento non serve
- alla stazione turistica di
Madonna di Campiglio.
Campiglio, con Folgarida - Marilleva, è già una ski-area
sufficientemente ampia e rinomata a livello internazionale, che
può contare su oltre 30.000 posti letto a Campiglio più
altrettanti a Folgarida - Marilleva (per un totale di
60.000/70.000 sciatori, senza contare il sempre maggiore afflusso
di sciatori ospiti nelle valli di Sole e Rendena e di pendolari
provenienti dallesterno di queste aree). Nella situazione
attuale questa ski-area appare già satura; addirittura presenta
un certo squilibrio tra i posti letto e posti sciatore
nellarea Folgarida - Marilleva: squilibrio destinato ad
aumentare nel prossimo futuro perché sono previsti ulteriori
incrementi di posti letto alberghieri a Daolasa ed un
arroccamento rapido dalla stessa località, dal futuro nuovo
capolinea della ferrovia Trento - Malè, verso il baricentro
della ski-area Campiglio, Folgarida - Marilleva. Campiglio quindi
sarà sempre più vocato a fungere anche da area di espansione
alla traboccante clientela invernale di Folgarida - Marilleva.
E chiaro che in queste condizioni un collegamento
funiviario con Pinzolo, contribuirebbe solo ad aggravare, specie
nei periodi di alta stagione, la situazione attuale già critica
di sovraffollamento delle piste.
Campiglio non ha alternative, deve fare scelte di qualità e
non di quantità e quindi, oltre che provvedere alla necessaria
pedonalizzazione del centro abitato con il supporto di un sistema
innovativo di trasporto pubblico (del tipo automatico e leggero,
poco impattante, come proposto a suo tempo dalla prima APT di
Campiglio e non la devastante monorotaia sopraelevata tipo Von
Roll supportata da centinaia di pilastri in acciaio svettanti fra
residence ed alberghi), deve garantire per il futuro un ottimale
rapporto tra sciatori e superficie sciabile e porre quindi dei
limiti quantitativi, pena lo scadimento ulteriore della sua
offerta se non addirittura il suo tracollo. Ideale per Campiglio
sarebbe poter raggiungere lobiettivo di poter controllare
lafflusso degli sciatori e limitarne il numero massimo in
base alle effettive capacità di assorbimento della ski-area
(idea già suggerita a suo tempo dalla prima APT di Campiglio):
è evidente che in questa prospettiva una porta di accesso in
più alla ski-area creerebbe maggiori difficoltà di controllo.
Il collegamento non serve a Pinzolo.
Anche per Pinzolo e la Val Rendena la scelta di fondo è se
puntare sulla quantità o sulla qualità; sinora nei fatti gli
operatori delle valle hanno puntato sulla quantità, proponendo
Pinzolo in quanto vicino a Campiglio, con il pericolo di
trasformare la Valle in un dormitorio e condannare Campiglio al
tracollo. La Valle deve vendere soprattutto il proprio territorio
per le prerogative notevoli che effettivamente offre e cercare di
valorizzarle al massimo. Non può essere considerato un buon
servizio al turismo della Valle e di Pinzolo un collegamento
funiviario con Campiglio (attenzione: funiviario, non sciistico,
se non in minima parte) di una irrazionalità e di una forzatura
uniche sotto ogni punto di vista, e quindi certamente poco
appetibile alla clientela che lo deve percorrere ogni volta nei
due sensi, per lunghezza dei tracciati e quindi dei relativi
tempi di percorrenza, per i notevoli dislivelli in salita e in
discesa da superare, ecc.. Lo sciatore che si avventurasse su
questo ipotetico collegamento correrebbe il rischio di
trascorrere buona parte della sua giornata di vacanza non sulla
neve ma sugli impianti funiviari con gli sci in mano, spesso
anche esposto alle intemperie dellalta montagna. Pensiamo
alle peripezie che dovrebbe superare uno sciatore medio che da
Pinzolo volesse raggiungere il Grostè: sale con due tronchi di
funivia (secondo tronco a seggiole aperte) sino al Doss del
Sabion; da lì in teoria potrebbe scendere sci ai piedi sino a
Plaza (Val Brenta), ma se non è un provetto sciatore, non
potendo affrontare la nuova pista nera che scende dal Grual, deve
optare per gli impianti che da Grual arrivano a Plaza (una o due
seggiovie con veicoli aperti); da Plaza ora deve affrontare la
risalita a Campiglio; sulla base dellultimo progetto di
fattibilità dovrebbe poter risalire sino a Patascoss con i due
tronchi di funicolare (finalmente veicoli chiusi ma sempre con
gli sci in mano), previo trasbordo alla stazione intermedia al
Colarin; arrivato a Patascoss, deve scegliere la via più breve
per risalire al Grostè: altre tre impianti, come minimo, in
pratica quasi senza aver messo gli sci ai piedi. Quando è al
Grostè il nostro sciatore medio, guardato lorologio,
propenderà per un rientro sufficientemente rapido a Pinzolo,
considerati i tempi e le difficoltà del carosello appena
concluso, anche per non trovarsi a Plaza oltre lorario di
chiusura degli impianti; arriverà a Pinzolo, dopo aver
riguadagnato la piana di Patascoss e la cima del Doss del Sabion,
non molto stanco perché in effetti ha sciato poco, ma molto
deluso della giornata sulla neve, sicuramente da non ripetere. Le
stesse difficoltà di percorrenza si presentano per chi volesse
intraprendere il trasferimento della ski-area di Folgarida -
Marilleva o di Campiglio verso Pinzolo.
Non esiste al mondo un collegamento funiviario tra aree
sciabili paragonabile a quello così poco razionale previsto tra
Pinzolo e Campiglio. Ricordiamo anche quante discussioni e
minuziose verifiche costi-benefici hanno preceduto
lapprovazione e quindi la realizzazione del semplice
arroccamento da Predazzo allo Ski Center Latemar. Nel caso in
questione non sarebbe in gioco il normale rischio dimpresa
ma più realisticamente il suo fallimento, annunciato: su questo
dovrebbe esser concorde anche larchitetto Romozzi
incaricato dal Comune di Pinzolo di verificare la fattibilità
del progetto Schiavon - Migliorini.
Stando così le cose è chiaro che questo collegamento
funiviario non può servire a risolvere i problemi del turismo
invernale né di Pinzolo né della Valle, così come non può
servire a risolvere la delicata situazione finanziaria della
Società Funivie di Pinzolo anzi, al contrario, se realizzato
laggraverebbe ulteriormente e, forse, definitivamente.
Larea sciabile di Pinzolo è modesta, ma può e deve
essere riqualificata e, se possibile, anche ampliata entro i
limiti imposti dalla morfologia del terreno e dei vincoli di
compatibilità ambientale. La stazione invernale di Pinzolo è e
rimarrà comunque modesta per ampiezza ma complementare alla mega
stazione di Campiglio, così come per esempio il Cermis lo è nei
confronti dello Ski Center Latemar: due realtà queste distanti
tra loro come Pinzolo e Campiglio, collegate solo da un
efficiente servizio di skibus, e che insieme sono riuscite ad
arricchire la loro offerta turistica valorizzando al massimo
ognuna le proprie prerogative, a vantaggio di tutta la Valle di
Fiemme.
- Il collegamento servirebbe solo
- alla Società Funivie Madonna di
Campiglio.
Mentre Campiglio come stazione invernale deve, come detto
sopra, fare scelte di qualità, la Società delle Funivie è
portata invece per sua natura a fare scelte di quantità, al fine
di massimizzare il numero di passaggi sui suoi impianti, perché
questo si traduce in maggiore guadagno diretto; a tal fine la
Società funiviaria vede favorevolmente la realizzazione del
collegamento perché questo, oltre che comportare comunque un
maggiore afflusso di sciatori nellarea di propria
competenza, potrebbe servire a risolvere alcuni problemi interni
poco appariscenti ma importanti ed in particolare: la
realizzazione di una nuova pista dai Cinque Laghi al Colarin e
una nuova porta di accesso diretto alla ski-area nella piana di
Patascoss, baricentrica rispetto alla zona meno frequentata dagli
sciatori (i classici due piccioni con una fava). Il collegamento
in definitiva servirebbe solo alla Società Funivie di Campiglio,
che, in attesa di far maturare lidea in Valle e nelle
Istituzioni interessate, indica già dove attingere le ingenti
risorse finanziarie (decine e decine di miliardi) per la
realizzazione dellopera: dai paesini della Valle, visti
linteresse diretto degli stessi e la buona consistenza dei
depositi nelle Casse Rurali della Rendena! Ai Rendeneri quindi
lonore e lonere della realizzazione del collegamento
e della sua gestione, con le previsioni decisamente fallimentari,
di cui sopra è cenno, alla Società Funivie di Campiglio gli
ipotetici frutti.
- Guerèt
Rampagaröl
- Diario della guida alpina
Clemente Maffei
A cura dellEditrice Rendena di Tione è uscita in questi
giorni lannunciata seconda edizione di "Guerèt
Rampagaröl", il diario della guida alpina di Pinzolo
Clemente Maffei. Un libro che nella casa dogni Rendenese -
con alcuni altri preziosi volumi sulla valle - non dovrebbe
mancare. La prima edizione, del resto, in breve tempo esaurita,
confermò da sola il valore dellopera.
"Rendena undici" coglie loccasione per offrire
ai suoi lettori - come primizia - la prefazione
dellaccademico del C.A.I. Silvia Metzeltin, e
lintroduzione dello scrittore Giuseppe Leonardi, curatore
del bel volume.
Quanto
rimane
La seconda edizione di "Guerèt Rampagaröl" ci può
porre una riflessione: quanto rimane attuale di un alpinismo come
è stato il suo, quello che si riflette nelle pagine di cronaca
qui raccolte?
Penso che rimanga soprattutto la schiettezza,
lautenticità di un approccio tradizionale
allalpinismo, dove le molteplici componenti si fondono per
creare lamalgama personale. Piacere della vita
allaria aperta, della sfida rappresentata tanto da una
montagna modesta presso casa, quanto da una cima di continenti
lontani accarezzata nei sogni.
Desiderio di riconoscimento, ambizione personale pulita, che
non travalicano le regole della convivenza civile, anzi si
esprimono spesso in slanci di solidarietà.
Per me il ricordo di Guerèt rimane legato a quello che ho per
un allievo che è stato suo e anche mio, Michele Mattasoglio,
precipitato dalla Cresta Signal al Monte Rosa in un tentativo di
ascensione solitaria. Era Mattasoglio uno studente di geologia
schietto ma schivo, che nel connubio fra la passione alpinistica
e la conoscenza scientifica della natura cercava un proprio modo
di essere. Un modo che certamente, benché lui cittadino e
dalle marcate predisposizioni intellettuali, lo legava anche
allautenticità montanara di Guerèt. Credo che anche oggi,
se non soprattutto oggi, quellautenticità - comprese le
zone dombra che si possono anche interpretare come
debolezze dovute allintrinseca bontà del personaggio - sia
da considerare come un valore.
Guerèt non cè più, Mattasoglio* e chissà quanti
altri che lui ha avviato alla montagna sono già scomparsi. Ma
per chi rimane, per chi si affaccia oggi allalpinismo,
questa testimonianza di approccio genuino offre un filo
conduttore per comprendere uno dei tanti "perché
dellalpinismo".
Silvia Metzeltin(*), Trento,
Filmfestival 1997
Guerèt
nomade dalta quota
Negli anni del dopoguerra, quando frequentavo i miei primi
monti, ricordo che fra di alpinisti non perdevamo
loccasione per riunirci e farci raccontare le storie. Fin
da giovane sapevo ascoltare, mentre i vecchi raccontavano fuori e
dentro i rifugi, alla sera in attesa di coricarci per il riposo.
Le guide, i gestori, gli alpinisti maturi che incontravo,
erano per me tutti importanti e contavano molto: conoscevano i
fatti, li narravano e li tramandavano senza chiedere nulla in
cambio. I loro racconti erano la storia orale, che univa in modo
indissolubile le generazioni. Gigioti Bolza di Irón, il
costruttore della capanna ai Brentèi, Silvio Pellizzari custode
del Caré Dante Ceschini custode della Lobbia Alta, Livio e
Teresa Binelli custodi del Mandrón, Giovanni Faustinelli
pioniere della Capanna di Punta Lagoscuro, Giuseppe Ceschini
Mariana teleferista della Lobbia, furono i miei narratori di
storie vere di montagna, vissute al tempo della loro vita
alpinistica. Quelli come loro che ora esercitano la professione
hanno purtroppo perso la memoria, perché troppo
indaffarati e presi dalla frenesia del guadagno contingente. Rari
si prendono la briga di raccontare ai giovani, di scrivere non se
ne parla nemmeno, ed i giovani doggi poco sanno della
storia locale dei loro vecchi, di chi se nè andato, del
modo con cui si andava in montagna a fare anche alpinismo
impegnato.
Da anni, mi sono accorto, si è rotto il legame che teneva
unite le generazioni e nel vuoto che si è creato, complice una
mai sopìta volontà di rimozione dei fatti autentici, si annida
lignoranza, cattiva consigliera, che talvolta giudica
indegno di memoria storica chi se nè andato
prematuramente, per disgrazia alpinistica.
La pubblicistica locale resta pertanto lunico mezzo
affidabile per riannodare il filo spezzato, il dialogo fra
generazioni, affinché i giovani conoscano il passato e lo
giudichino, per trarne poi le conseguenze.
Il diario alpinistico della guida Clemente Maffei Guerèt,
deceduta il 12 agosto 1991 a seguito di disgrazia alpinistica
sullo Spigolo dellAngelo lungo il Costone di Nardìs nel
Gruppo della Presanella, non cera bisogno di farglielo
tirare fuori. Guerèt aveva piuttosto bisogno di una mano
competente, disinteressata ed amica. Pochi mesi prima di
andarsene per sempre, mi aveva fatto promettere, solennemente,
che assieme avremmo riordinato tutte le sue carte contenute in un
grosso raccoglitore. Guerèt sapeva che la sua stella nel
firmamento alpinistico dava ormai una luce tenue e che a
ravvivarla avrebbe contribuito sicuramente la pubblicazione del
suo diario alpinistico, "Le pareti della mia vita",
così lo voleva intitolare e di esso aveva curato lindice.
Era ossessionato dallidea che quanto scritto da lui e su di
lui divenisse carta straccia e che la sua attività fosse
rimossa. Inoltre la sua fine tragica, inattesa, ebbe per un
momento leffetto di rinvigorire, in loco, più duna
voce ostile.
Dopo un anno dalla disgrazia fui tentato di rinnegare a me
stesso la promessa e di defilarmi. Poi venni assalito dal
complesso del vigliacco, dalla sindrome del traditore, dal
rimorso dellacquiescenza opportunistica al quieto vivere
conformista e della complicità nella volontà diffusa di
rimozione: in fondo la promessa lavevo fatta in assenza di
testimoni e di uno scritto, e ad una persona che non poteva
rinfacciarmi più niente.
Poi Enzo Violi, lalpinista che con Guerèt tenne un
rapporto di amicizia durato oltre 45 anni, che era a conoscenza
della mia promessa e al quale la Famiglia Maffei aveva consegnato
il materiale, mi convinse a prenderlo in mano. Mano a mano che
studiavo il carteggio giunsi ad una convinzione: Guerèt, a
diciannove anni, condannato disertore di guerra e fuorilegge dal
regime nazista, ha agito nel proseguo della vita nella legalità
della sua coscienza e per tanto poteva essere un buon soggetto di
storia. In aggiunta, mi convinsi che nei suoi quarantanni
di alpinismo, superando diffidenze e pregiudizi, percorse
faticosamente i sentieri dellavventura, che nessuno in
Valle era allora in grado di indicare, dimostrandosi un
progressista. Fu infatti la prima guida trentina a partecipare ad
una spedizione extraeuropea.
Cominciai linserimento della ricerca nel computer. Alla
fine feci una stampa del guazzabuglio. Obbligai Enzo a leggerlo,
a correggerlo e ad interpretarlo. Ne nacquero discussioni e
scontri verbali sul taglio e sullo spessore da dare agli
avvenimenti in ordine allinterpretazione più fedele
possibile del testo.
Ed intanto ci caricavamo lun laltro di fiducia per
andare avanti. Nonostante le difficoltà, mai desistemmo, anche
se Enzo continuava a dirmi: "Clemente non è Bruno Detassis.
Clemente ha unanima complessa, e non so se riuscirai a
rivestirla di parole e a svelarla al lettore in pagine
scritte". E me lo diceva come se il Guerèt, lavessimo
fuori dalla porta e ci stesse ad ascoltare. La sensazione della
sua presenza esoterica incombeva su di me al punto che nei
momenti difficili ripetevo: "Guerèt, ascoltami e dammi un
mano".
Il volume è stato pubblicato nella primavera 1993 dalla
Editrice Rendena di Piergiorgio Motter con la copertina del
pittore Sergio Trenti. Lambiente alpinistico valligiano lo
ignorò e quello accademico lo respinse a causa
dellepisodio di Piussi. La Gente comune invece lo onorò di
tanto interesse al punto di esaurirne presto la prima edizione.
Guerèt si era accostato giovanissimo alla montagna ed aveva
capito di entrare nel mondo delle grandi bellezze, fra i tesori
della natura, in un ambiente pregno di valori umani e culturali.
Volle confrontarsi con esso in umiltà, col passo lento del
montanaro e con il candore del neofita, che vuole imparare il
linguaggio delle cose: le rocce, i ghiacci, i fiori, il cielo ed
il fumo del camino del rifugio. Come arrampicatore ha
sperimentato le fatiche degli approcci alle pareti, le sorprese
della fauna stanziale, le ansie delle condizioni del tempo, le
emozioni dei bivacchi, il peso dello zaino, i rischi
dellapertura di itinerari inaccessi su pareti severe, le
faticose sciate con le pelli di foca in salita e le folli discese
in neve vergine, le soste indimenticabili sulla vetta, i ritorni
faticosi a valle, che avevano il pregio di allungare la
soddisfazione dellavventura vissuta.
Guerèt mi raccontava queste esperienze in età matura, ma con
accenti gratificanti, poiché mi spiegava che con esse egli
raggiunse per diletto e per mestiere i limiti soggettivi delle
sue possibilità di arrampicatore. E ai racconti aggiungeva i
particolari di una cultura rispettosa dellambiente, i
ricordi dellamicizia, le prove inconsce di una fedeltà
ininterrotta alla montagna. Con lui la montagna divenne un
vissuto emotivo, una malattia, tale da non poterne più fare a
meno.
Guerèt fu lalpinista senza motore. Ossia, la campagna
alpinistica, per lui durava ininterrotta per tutto lanno,
senza soluzione di continuità. Il suo approccio alla montagna
era lento ed intimo e gli acconsentiva un contatto approfondito,
soprattutto nei suoi aspetti umani. Per lui si trattava di vivere
il contatto con lalpe a tempo pieno, entrando nei suoi usi
e costumi. A lui non era applicabile il principio del mordi e
fuggi: ossia della conquista della vetta e poi via in automobile
verso le comodità della civiltà.
Dalla sua biografia risulta chiaro il principio pioneristico
dellandare in montagna che trasmise ai clienti: ossia il
principio della campagna alpinistica, che per lui era
unistituzione, con le sue regole, i suoi riti e le sue
leggi non scritte. Nei primi giorni di permanenza al rifugio,
suggeriva al cliente di comprare laria e così, giorno dopo
giorno il cittadino si liberava delle tensioni, delle ansie,
delle preoccupazioni e si preparava ad entrare rigenerato nel
mondo dellarrampicamento. Da ottobre a maggio, Guerèt
viveva nella montagna da boscaiolo, o da disgaggiatore; nella
stagione alpinistica girovagava da un rifugio allaltro,
conducendo lesistenza dun nomade dalta quota.
Lo incrociai più di una volta, magro ed ossuto come un camoscio
di primavera, le guance incavate, gli occhi ardenti nel viso
cotto dal sole. Vivere in montagna era larte di Guerèt e
lo faceva da gran signore.
Promotore il Comune di Giustino per riconoscenza
dellinerbimento della cava, è stata fusa in sua memoria
dalla Ditta Capanni di Castelnuovo né Monti, un piccolo bronzo
da collocare in quota a suo ricordo.
- Una campana
- non suona mai invano,
- perché rappresenta
- Il richiamo alleterno
- che luomo spesso trascura
- per leffimero ed il caduco.
Giuseppe Leonardi
* A Mattasoglio, Guerèt ha
dedicato il sentiero che da Vallina dAmola arriva al passo
dei 4 Cantoni, una via ed una vetta lungo il costone
dAmola.
* Accademico e delegata del CAI
presso lUIAA.
- Estate 1997
-
- Le Sorelle
Guerèt
-
- ringraziano
-
- lautore Giuseppe Leonardi
- leditore Piergiorgio Motter
- lartista illustratore della
copertina Sergio Trenti
- gli acquirenti
- e tutti coloro che hanno voluto e
permesso la riedizione del libro
- Guerèt Rampagaröl
Questa pagina
e stata aggiornata: 4 luglio 1997
© 1997 Editrice Rendena-Tione