Lo spazio del guerrigliero culturale
Aeronautica e mosche cocchiere
di Bellator
Penso che tutti voi conosciate la favola delle mosche cocchiere, dei mosconi che ronzando sulla schiena dei cavalli credono di essere loro a guidare la carrozza. A me sembra una metafora perfetta per quegli storici che, a mezzo secolo di distanza si impegnano per l’ennesima volta a vincere la seconda guerra mondiale (tanto il risultato di simili agoni è scontato in partenza) denigrando la parte perdente. Questa caricatura di conflitto non si estende solo agli aspetti politici e militari, ma perfino a quelli tecnici.
Questa considerazione mi era venuta in mente tempo addietro rileggendo un vecchio numero di Storia Illustrata dove si parlava di uno dei più interessanti aerei della seconda guerra mondiale, il bombardiere bimotore britannico De Havilland Mosquito. Il Mosquito aveva la stessa autonomia di un quadrimotore Lancaster, poteva portare un carico di bombe che era la metà di quello di un Lancaster ed era praticamente impossibile per i caccia tedeschi intercettarlo. Giustamente l’articolista si chiedeva perché mai gli inglesi avessero continuato a costruire ed impiegare quei pesanti quadrimotori, quando con due Mosquito, vale a dire quattro uomini, l’impiego di materiale non strategico (il bimotore era costruito prevalentemente di legno) e minori rischi, si potevano ottenere gli stessi risultati di un Lancaster, vale a dire con l’impiego di materiale molto più costoso e mettendo a repentaglio la vita di dieci uomini di equipaggio.
Questo dubbio ne porta immediatamente ad un altro che l’articolista non si poneva: se tanto valeva per l’aviazione britannica, cosa dire per i progettisti aeronautici tedeschi, tante volte criticati per l’insistenza nell’impiego dei bombardieri bimotori? Il loro torto è stato quello di aver insistito sulla formula del bombardiere bimotore, o non piuttosto di non essere riusciti a creare una macchina con le caratteristiche del Mosquito?
E’ un discorso che si potrebbe ampliare, ed allora ci accorgeremo che gli storici dell’aeronautica si sono spesso comportati da mosche cocchiere, presentandoci una versione non certo obiettiva delle vicende del secondo conflitto mondiale soprattutto sotto il profilo tecnico, cercando di persuaderci che l’Asse in definitiva ha perso la guerra non per una serie di limiti obiettivi, ma per una serie di decisioni errate e stupide, ovviamente ispirate da un potere politico che si vuole ulteriormente denigrare.
Mancò la fortuna, non il valore. Questo motto che sintetizza la drammatica sorte dei nostri combattenti ad El Alamein, potrebbe facilmente essere esteso a tutti i combattenti dell’Asse, ma anche ai progettisti che cercarono di fornire le armi a questi combattenti, e che a dispetto di tutte le denigrazioni degli storici mosche cocchiere, non smentirono né il genio ingegneristico germanico, né l’inventività italiana, ma gli italiani dovettero fare i conti con la gracilità del loro apparato industriale, ed i tedeschi con il fatto di dover ricostruire la loro aeronautica da zero, con la perdita di tre lustri di esperienze costruttive, dal 1919 al 1933, come conseguenza del trattato di Versailles.
Vediamo ad esempio quello che fu il più classico aereo tedesco della seconda guerra mondiale, il bombardiere in picchiata, lo stuka, forse uno degli apparecchi più denigrati dagli storici dell’aviazione. L’idea del suo grande propugnatore, Enst Udet, era quanto di più semplice e razionale si potesse concepire: un bombardiere che porta la propria bomba sul bersaglio con una picchiata, riesce ad ottenere con un solo ordigno lo stesso effetto che un apparecchio convenzionale potrebbe ottenere con un grappolo di essi, consentendo quindi precisione e risparmio di materiali, qualcosa di certamente irrilevante per il gigantesco e dispendioso apparato industriale di cui disponevano gli Alleati, ma non certo per la Germania. I critici dello stuka ricordano la miserevole fine che le formazioni di bombardieri in picchiata tedeschi fecero nel corso della battaglia d’Inghilterra, dimenticando le buone prove date durante la campagna di Francia e quelle che lo stuka doveva ancora dare in Russia. E’ vero che contro obiettivi fortemente difesi dalla caccia, come furono quasi tutti quelli che dovette affrontare sopra l’Inghilterra, lo stuka si dimostrava molto vulnerabile e praticamente impotente, ma in altre circostanze, soprattutto nelle mani di piloti esperti come Ulrich Rudel ed il nostro Giuseppe Cenni, si rivelava un aereo versatile, resistente e micidiale.
Sul fronte orientale le cose andarono in modo ben diverso che nella battaglia d’Inghilterra, l’alto comando sovietico era a tal punto convinto della distruttività di quel velivolo che gli occidentali consideravano una specie di rottame con le ali, da dare l’ordine di non lasciare in vita i piloti degli stuka abbattuti e fatti prigionieri (rivelando con ciò, ovviamente, anche un gran senso di umanità e di rispetto delle convenzioni internazionali).
Soprattutto lo stormo Immelmann, comandato dall’asso degli stuka, il maggiore Hanns Ulrich Rudel, il leggendario "pilota di ferro", il soldato più decorato della seconda guerra mondiale, si rivelò un supporto essenziale prima durante l’offensiva tedesca, poi nello sforzo di contenere la controffensiva sovietica, distruggendo fortificazioni, trincee, linee di comunicazione, ponti, materiale rotabile, postazioni di artiglieria. Rudel stesso affondò una corazzata, la Marat nel porto di Leningrado (ed affondare una corazzata con una sola bomba da 1000 kg era un’impresa impossibile per qualunque altro tipo di bombardiere), ma il suo principale bersaglio furono le truppe corazzate sovietiche, specialmente dopo l’introduzione dell’ultima versione dello stuka, lo Junkers 87 G, munito di due cannoni anticarro sotto le ali. Con questo apparecchio, il solo Rudel distrusse oltre cinquecento mezzi corazzati sovietici, cinquecento carri armati e migliaia di soldati dell’Armata Rossa la cui marcia contro il cuore dell’Europa fu fermata per sempre.
Gli italiani impiegarono i picchiatelli (così erano chiamati gli stuka in dotazione alla Regia Aeronautica) soprattutto contro il naviglio nemico, ed in particolare nella tragica estate del ’43, dopo la caduta della Tunisia, si vide che essi erano in pratica la sola arma di cui le nostre forze aeronavali disponessero per ostacolare l’invasione della Sicilia e dell’Italia continentale, e fu precisamente in una di queste missioni sullo stretto di Messina che cadde l’asso italiano degli Stuka, il valoroso maggiore Giuseppe Cenni, il 5 settembre ’43, giusto in tempo per non vedere una delle pagine più vergognose della nostra storia nazionale.
L’impiego di una macchina può essere criticato, perfino messo in ridicolo, ma è raro che gli storici, che dovrebbero giudicare gli eventi con distacco, manifestino nei confronti di un veicolo, che fino a prova contraria non è dotato di una personalità propria, qualcosa di simile ad un feroce rancore personale, eppure un aereo cui è toccata una simile sorte c’è, si tratta del caccia bimotore Messerschmitt 110. Il fatto è che Hermann Goering, che durante la prima guerra mondiale aveva appunto volato su caccia bimotori, seguì con particolare cura la progettazione di questo velivolo da caccia, e ne impose l’adozione alla Luftwaffe, era dunque in un certo senso l’aereo più nazista di tutta l’aviazione tedesca. Un caccia bimotore presenta vantaggi e svantaggi rispetto ad un apparecchio monomotore, è più veloce ma meno maneggevole. Durante la battaglia d’Inghilterra, il 110 fu un avversario relativamente facile per gli spitfire e gli hurricane, ma ebbe ampio modo di riscattarsi in seguito, soprattutto come caccia notturno, divenendo la spina dorsale della difesa notturna del Reich, ma il punto è un altro: se il caccia bimotore era, come sembrano pensare alcuni storici dell’aeronautica, un’idea peregrina, una bizzarria imposta all’aeronautica tedesca da un potere dittatoriale, invadente ed incompetente, come si spiega che caccia bimotori fossero in dotazione anche alle altre aviazioni, e fra essi alcuni dei migliori aerei del conflitto, fra cui gli americani P 38 Lighting ed il P61 Black Widow. Il Lighting, il "diavolo a due code" operò soprattutto nel teatro del Pacifico, e fu uno dei caccia più temuti dai Giapponesi. La "vedova nera" è giudicato dai tecnici uno dei migliori aerei prodotti durante il conflitto, ma non ebbe molto spazio d’impiego perché si trattava di un intercettatore notturno, e gli Stati Uniti non furono mai molto esposti al rischio di bombardamenti notturni. Anche qui, come per il bombardiere bimotore, era ben lungi dall’essere errata l’idea di base, ma vi era piuttosto un ritardo di quattordici anni imposto dal trattato di Versailles, che non consentì di produrre macchine paragonabili al Mosquito ed al Lighting. Verso la fine del conflitto, tuttavia i tedeschi misero in campo un singolare apparecchio che coniugava i vantaggi del caccia bimotore a quelli del monomotore, uno di quegli aerei che avrebbero potuto avere ben altro peso nell'andamento del conflitto se fossero comparsi un po’ prima, il Dornier 335, detto formichiere per il suo aspetto curioso, si trattava di un "bimotore" con una normale elica in ogiva ed un motore ed un’elica traente dietro i piani di coda, il formichiere aveva lo stesso ingombro frontale e la stessa manovrabilità di un monomotore, unita alla velocità di un bimotore. L’epoca del caccia ad elica volgeva al tramonto, perché nell’infuocata arena dei cieli tedeschi era comparso il Messerschmitt 262, il primo caccia a reazione operativo della storia, ma il formichiere ebbe modo ugualmente di rendere un buon servizio, il 262 aveva un tallone d’Achille di cui gli Alleati non tardarono ad accorgersi: richiedeva piste di rullaggio molto lunghe, e nelle fasi di decollo ed atterraggio era particolarmente vulnerabile, ma i Dornier facevano buona guardia alle piste dei reattori, e soprattutto la loro capacità di fare rapidamente quota si rivelò preziosa. Il Dornier 335 fu il canto del cigno del caccia ad elica, ed insieme al Messerschmitt 262 fu il canto del cigno della Luftwaffe, ed entrambi non consentirono alle aviazioni alleate di impadronirsi dei cieli tedeschi senza aver pagato un pesante tributo di sangue.
L’Italia aveva alla vigilia della seconda guerra mondiale una tradizione considerata di tutto rispetto nel campo dell’ingegneria aeronautica, in particolare i bellissimi idrovolanti dalle linee aggraziate che si contendevano annualmente la coppa Schneider. Poco prima dell’entrata italiana nel conflitto, il Ministero dell’Aviazione impose un ribaltamento nella tradizione dell’ingegneria aeronautica, imponendo che tutti gli aerei militari di nuova costruzione fossero muniti di motori con disposizione dei cilindri radiale raffreddati ad aria anziché in linea e raffreddamento a liquido, ed è una decisione che le mosche cocchiere che si sono occupate della storia della nostra aeronautica hanno accanitamente criticato con il senno (o la dissennatezza) di poi, ma si trattò di una decisione saggia od insensata? Nel motore radiale (od a stella), i cilindri sono disposti ad anello attorno all’albero motore, ed il raffreddamento del motore è assicurato da una serie di alette che ne espandono la superficie e dal contatto con l’aria, come avviene nei motori delle motociclette, mentre nei motori in linea i cilindri sono appunto disposti linearmente e c’è un liquido di raffreddamento, come nei motori delle automobili. Lo svantaggio dei motori a stella rispetto a quelli lineari è evidente, l’aumento della resistenza aerodinamica conseguente al maggiore ingombro frontale, si calcola che a parità di potenza erogata e di tutte le altre condizioni, un velivolo con motore stellare abbia una velocità di circa 50 km h inferiore rispetto ad uno con motore in linea, ed i vantaggi? Il motore stellare è più robusto, meno soggetto ad usura, necessita meno di riparazioni e di pezzi di ricambio. Coloro che presero questa decisione erano verosimilmente nel giusto, considerando il fatto che l’Italia sarebbe stata impegnata in teatri d’azione lontanissimi che avrebbero reso arduo ogni sforzo logistico, che il nostro apparato industriale era in grado di produrre aerei, motori, pezzi di ricambio con il contagocce, aerei esteticamente più pregevoli e più veloci di quanto non lo fossero i FIAT G 50, i Reggiane 2000, i Macchi 200, ma costretti a rimanere il più delle volte a terra per guasti e mancanza di pezzi di ricambio non sarebbero stati di molto aiuto ai nostri combattenti. Va aggiunto inoltre che, a riprova del fatto che l’aereo a motore stellare non è di necessità inferiore a quello col motore in linea, alcuni dei migliori aerei da caccia della seconda guerra mondiale erano appunto dotati di questo tipo di motore: il Focke Wulf 190 tedesco, il P 47 Thunderbolt americano, lo Zero giapponese, ed in generale tutti i velivoli del Sol Levante, eccezion fatta per il caccia Ki 61 hien, che era un tentativo di replicare il Messerschmitt 109, anche qui l’errore, se di errore vogliamo parlare, non è stato il motore stellare in sé, ma il fatto di non disporre di unità motrici paragonabili a quelle del FW 190 e dello Zero, anche per la difficoltà d’inventarsi ex novo una tradizione costruttiva in questo senso.
Un analogo (voluto?) errore di prospettiva è quello in cui dimostrano di cadere le mosche cocchiere quando biasimano la nostra aeronautica per aver tenuto in servizio più a lungo di altre aerei biplani. Questo è un tema in cui è facile giocare sull’equivoco: la formula biplana s’impose agli inizi dell’aviazione militare perché il sistema della doppia intelaiatura alare collegata da tiranti era l’unica in grado di assicurare la robustezza strutturale richiesta ad un aereo militare, ma si sapeva bene fin dall’inizio che essa aumentava l’ingombro frontale e quindi riduceva la velocità rispetto ad un monoplano. Verso la fine degli anni ’30, il perfezionamento dei materiali e delle tecniche costruttive permise di abbandonarla finalmente, ma allo scoppio del conflitto mondiale la transizione era ancora in corso, vi erano biplani in servizio nella Luftwaffe, nell’aviazione britannica ed in quella sovietica. L’aviazione tedesca aveva fra i suoi ranghi l’assaltatore biplano Henschel 123, la RAF il caccia Gloster Gladiator e l’aerosilurante Swordfish, l’aviazione sovietica il caccia Iljushin IL 15, tutti con la sagoma ad ala doppia già familiare a Francesco Baracca. Gli italiani avevano in servizio il caccia FIAT CR 42, che era, a detta degli esperti una delle migliori creazioni di uno dei nostri migliori progettisti, l’ingegner Celestino Rosatelli, e probabilmente l’apice della formula biplana, un aereo dalla maneggevolezza straordinaria, che gli aveva consentito di tenere agevolmente testa durante la guerra di Spagna ai monoplani di fabbricazione sovietica impiegati dai repubblicani, ma il punto è un altro, non un cieco attaccamento a concezioni tecnicamente superate, bensì l’indisponibilità o la non sufficiente disponibilità di velivoli più moderni, impedì alla nostra aeronautica di sostituire i biplani con la stessa rapidità delle altre aviazioni.
Come soltanto la totale ignoranza o la più rossa malafede potrebbero induci ad accusare di vigliaccheria i nostri soldati, aviatori, marinai che spesso seppero tenere testa al nemico in condizioni di pesante inferiorità di mezzi, così bisogna ammettere che l’inferiorità tecnica che travagliò spesso la nostra aviazione non dipese da altro che dalla debolezza del nostro apparato industriale, non certo dai nostri progettisti, che furono spesso geniali innovatori in campi allora d’avanguardia come l’apparecchio a reazione ed il bombardamento strategico.
L’Italia aveva costruito e fatto volare il suo primo apparecchio a reazione, il Caproni – Campini quasi in contemporanea con il tedesco Heinkel 178, ma quasi un anno prima dell’inglese Gloster Meteor, ma il tentativo non poté proseguire, mentre Germania ed Inghilterra giungeranno a realizzare i loro reattori prima del termine del conflitto.
Per quanto riguarda il bombardamento strategico, si può dire che il suo stesso concetto è un’invenzione italiana, esso venne preconizzato fra le due guerre da un geniale innovatore in campo aeronautico, Giulio Douhet. Il nostro Ministero dell’Aeronautica prestò attenzione alle teorie di Douhet e cercò di tradurle in pratica commissionando un bombardiere di concezione per allora rivoluzionaria, il Piaggio P 108, che entrò in servizio nella nostra aviazione non senza che nella fase di collaudo perisse un pilota dal nome famoso, Bruno Mussolini. Il P 108 è molto simile al B 17 americano, la famosa fortezza volante. Questo ci porta ad una serie di considerazioni, la prima è che razza di dittatore fosse mai un uomo che accettava che in caso di conflitto i suoi figli corressero rischi non minori di altri cittadini, quando avrebbe potuto facilmente farli trincerare dietro comode postazioni da scrivania, ma è una questione che ci porterebbe lontano ed esula dal nostro argomento. La seconda è perché mentre la fortezza volante ha avuto un peso decisivo nel conflitto mondiale, un aereo che tecnicamente è il suo sosia non ne ha avuto alcuno, ed è oggi ricordato solo dagli specialisti e dagli storici dell’aeronautica?
La risposta è nei numeri: la produzione di aerei italiana si misurava in centinaia di esemplari, quella americana in decine di migliaia per tipo prodotto. Si potrebbe ripetere con qualche lieve modifica l’epitaffio degli eroi di El Alamein: mancò la fortuna (mancarono i mezzi), non il genio.
Volendo, si può fare una riprova all’inverso, le idee strampalate o semplicemente idiote non sono certo mancate in campo alleato nel corso del conflitto. Cosa ne direste se qualcuno proponesse un aereo da caccia che può solo sparare all’indietro, del tutto sprovvisto di armamento anteriore? Anche senza essere degli esperti, vi mettereste a ridere e/o proporreste il progettista che ha partorito una trovata così geniale per una visita psichiatrica, ebbene, gli inglesi realizzarono non uno ma due apparecchi da caccia basati su questa brillante pensata, il Blackburn Roc, ed il Boulton Paul Defiant. Ovviamente, questi aerei che furono una vera manna per i cacciatori tedeschi che li incontrarono durante la battaglia d’Inghilterra, vennero presto ritirati e sostituiti da modelli più efficienti, quindi questa fesseria non ebbe peso sull’andamento del conflitto, ma immaginiamoci che un’idea così geniale fosse venuta a qualcuno in Italia, e voi piloti italiani avreste dovuto continuare a combattere con lo spara - all’indietro perché non c’è altro con cui rimpiazzarlo!
La seconda guerra mondiale fu una guerra di coraggio e di intelligenza contro la superiorità di mezzi. La vittoria arrise, com’era ovvio, alla parte più forte, che arridesse alla parte migliore, è tutto da dimostrare.
Bellator
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