Federico Sciano
INTERVENTO, DISCUSSIONI E RISPOSTE ALLA CONFERENZA DIBATTITO
"DALLA DEMOCRAZIA ENUNCIATA AL METODO DEMOCRATICO"
(Pisa, 11 febbraio 1994)
Per il relativo articolo di Giovanni
Armillotta, apparso su «La Nazione» del 27 febbraio 1994:
digita
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Intervento
Ringrazio il Professor Pier Luigi Maffei per la presentazione ed entro subito
in argomento.
Proviamo a prenderla da lontano: siamo nel maggio del 1989, nel giugno ci saranno
i fatti di Tiananmen, in Cina. Nella piazza c’erano molti studenti, la piazza
era piena. Gli studenti stavano lì giorno e notte e per la prima volta
si annunciava qualcosa di tragico: una possibile rivolta popolare.
Non perché ci fosse fame, non per esigenze economiche: si chiedeva la
democrazia. Quei giovani, quando capirono che le cose sarebbero potute andare
male, scrissero un documento, una specie di testamento. Siamo nel maggio 1989,
il massacro avvenne nel giugno. Ecco il documento:
"In questo caldo mese di maggio noi iniziamo lo sciopero della fame. Nei giorni
migliori della giovinezza dobbiamo lasciare dietro di noi tutte le cose belle
e buone e solo Dio sa quanto malvolentieri e con quanta riluttanza lo facciamo.
Ma il nostro Paese è arrivato ad un punto cruciale. Il potere politico
domina su tutto, i burocrati sono corrotti, molte buone persone con grandi ideali
sono costrette all’esilio.
È un momento di vita o di morte per la Nazione. Tutti voi compatrioti,
tutti voi che avete una coscienza ascoltate le nostre grida. Questo Paese è
il nostro Paese, questa Gente è la nostra Gente, questo Governo è
il nostro Governo. Se non facciamo qualcosa, chi lo farà per noi?
Benché le nostre spalle siano ancora giovani ed esili. benché la
morte sia per noi un fardello troppo pesante, noi dobbiamo andare, perché
la Storia ce lo chiede. [...] Lo sciopero della fame è la scelta di chi
non ha scelta. Stiamo combattendo per la vita con il coraggio di morire. [...]
Non vogliamo morire, vogliamo vivere. Non vogliamo morire, vogliamo studiare.
Caro padre, cara madre, per favore, non siate tristi. Cari zii, care zie, che
non vi si spezzi il cuore mentre diciamo addio alla vita. Abbiamo una sola speranza:
che questo permetta a tutti di vivere in un modo migliore. Abbiamo una sola preghiera:
non dimenticate che non è assolutamente la morte quello per cui stiamo
lottando.
La democrazia non è un affare che riguarda poche persone.
La battaglia democratica non può essere vinta da un singola generazione".
Sappiamo come andò a finire: il 4 giugno 1989 i carri
armati massacrarono quei giovani ed il mondo si interrogò sul senso di
quello che era successo e si interrogò sul come, al di là delle
polemiche, al di là degli scontri fra ideologie, sia possibile arrivare
a questo punto.
Quando si massacrano dei giovani inermi non si può parlare di politica
o di ideologie; a quel punto è l’umanità che fallisce.
Noi vogliamo oggi mettere l’attenzione su una parola contenuta in quel documento:
"democrazia".
Una nota scrittrice, Rossana Rossanda, scrisse, proprio in
quei giorni, sul «Manifesto» del 9 giugno 1989 un articolo
estremamente interessante.
Se noi, noi comunisti, diceva Rossana Rossanda, in fondo ci siamo sempre mossi
per la liberazione dell’uomo e abbiamo dedicato a questo ideale la nostra vita,
come è possibile che si sia potuti arrivare a questi massacri? Dove abbiamo
sbagliato?
È un interrogativo di fondamentale rilevanza. Una persona che ha creduto
in quegli ideali si chiede: dov'è l’errore?
"Il nostro comunismo", scrive Rossana Rossanda solamente cinque giorni dopo il
massacro di Tian An Men del 4 giugno 1989, "nasceva pulito. Forse elementare,
anche se non tanto come ora si dice, ma pulito, deciso a fare che un uomo fosse
un uomo e – intendevamo con qualche semplicità – una donna fosse una donna
e potessero traversare la vita alzando il capo della irrespirabile necessità,
almeno intuendo che cosa vuol dire libertà. [...] La nostra 'democrazia'
non fu il gioco delle regole; fu la scoperta dell’altro, di ogni altro, ogni
vita. [...] Essere dalla parte giusta – che forse mai avremmo visto, ma per la
quale lavoravamo – era la sola certezza. [...] Essere comunisti è stato
questo si poteva dare molto. Era senza prezzo".
Poi, nel suo articolo del 1989, Rossana Rossanda fa una disamina: parte dal dopoguerra
e ricorda il 1956, l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la Polonia:
"Il 1956 ci precipitò in acque profonde. [...] Da allora in molti non cessammo di chiederci dove stava l’errore. Fummo comunisti perché – ce lo chiedemmo senza arrenderci – l’errore del 'mondo libero' era visibile ogni giorno. Ma il nostro errore, il nostro verme, dove stava? [...] Poi il 1968, il 1973, il 1976; nel mondo e qui, in casa, a ogni giro di boa il conto da fare, le somme da far tornare diventavano più grandi. Prima 'Che' Guevara poi il Cile, una generazione di uccisi. Conosco nome per nome, viso per viso; ricordo le parole, anche le sciocchezze dette. Ricordo le menzogne di chi poteva. [...] Poi la morte di Mao; la lettera alla povera ragazza dura e ormai vecchia che lo aveva seguito: sii prudente dopo di me la destra vincerà. Tutto l’est in crisi, il comunismo diventato innominabile. [...] Perché Mao cade? Per gli errori della rivoluzione culturale. Sì; ma perché quegli errori? Perché deve essere così difficile che gli uomini siano liberi, si governino, non pensino l’uno sulla schiena dell’altro? [...] Perché questo bisogno semplice è capace di sfidare la morte, ma non si sa dare una legge, una norma di esistenza e continuità? [...]
Chiedere che il Capitalismo non fosse il coronamento della storia, non era chiedere molto. Quando, dieci anni fa, si è chiuso con le ingenuità e con l’ipotesi meschina che forse il fine giustifica i mezzi, che forse i poveri devono essere feroci, che forse occorre l’illibertà per la libertà, si apriva una strada lunga da percorrere, difficile, ma non impossibile [...]
E poi i carri armati addosso ai ragazzi di Pechino. Ma che cosa vedremo fare ancora dai comunisti? Non che sia stramazzata la mia ragione. Sono stramazzata io, inciampata a terra. [...]
Ma non è un mostro l’idea di uno sviluppo che metta in conto come eccedenti due, trecento milioni di uomini? [...] Si diceva che non avrebbero schiacciato quel popolo mite e in protesta. Lo avrebbero preso per stanchezza, per fame, perché in una piazza non si può stare in eterno. Avrebbero massacrato le speranze, ma risparmiate le vite. Non è andata così. I comunisti hanno fatto questo. Anche questo. [...] Stalin ha ucciso raccontando una storia folle, fabbricando processi. Sentiva di dover giustificare, Deng, no. Non sente di dover giustificare nulla. [...]
L’altra sera una ragazza che si era trovata in Tiananmen mi ha abbracciato fra le lacrime. Di’ tu che non è finito tutto. E io ho detto: 'non è finito tutto'. L’ho detto, e ci credo.
Sono soltanto per qualche giorno, per qualche tempo stramazzata. Non lo resterò per molto. Lo scherno altrui mi farà rialzare. La collera è una passione forte"
Ho letto dei brani di quel lungo articolo del 9 giugno 1989
perché credo che dobbiamo avere rispetto dell’onestà intellettuale
di chi, dopo essersi battuto per la libertà degli uomini, assistendo a
dei fallimenti si chiede: "dove si è sbagliato."
Probabilmente la risposta è questa: non si è sbagliato negli ideali
che si volevano perseguire. Si è sbagliato nel modo con il quale questi
ideali sono stati perseguiti. In nome della libertà sono state fatte guerre,
rivoluzioni e massacri.
Ed è proprio nel chiedersi come l’ideale di giustizia, l’ideale di libertà,
l’ideale di riscatto da tutte le forme di servitù umana si possano realizzare,
che nasce l’idea della democrazia.
Ricordo che è proprio parlando di questo, in un’altra conferenza, che
ci si conobbe con l’Ingegner Maffei. Mi disse: "Presiedo una Associazione che
si chiama Metodo. Avremo modo di riflettere insieme sulla Democrazia come
Metodo".
Quante persone si sono battute per grandi ideali! Quanti nel momento in cui hanno
pensato di aver individuato la strada giusta si sono sacrificati! Prima di tutto
conta la ricerca del modo con il quale il fine può essere realizzato.
La democrazia è una grande regola che si basa sull’umiltà.
Democrazia vuol dire: nessuno possiede la verità, nessuno conosce la chiave
della storia. Mettiamoci d’accordo: le nostre idee non possono essere che proposte.
Perché scannarci fra di noi? Che senso ha imporre qualcosa agli altri
con la forza e con la violenza? Proviamo a contarci. Siccome nessuno possiede
di per sé la verità, troviamo un metodo per contarci e chi ha più
consensi governi. Chi non riesce a convincere i più aspetta il suo turno.
Questo è il metodo della democrazia che deve rimanere patrimonio permanente
delle genti. La democrazia non è un regime. La democrazia è un
metodo per stabilire da chi intendiamo essere rappresentati nelle istituzioni
e governati.
Al limite possono concorrere tutti i gruppi che hanno diverse concezioni dello
Stato, tutte le concezioni della vita; tutti purché diano garanzia di
volere salvare il metodo.
Nella cultura italiana alla parola democrazia si è data
spesso una errata interpretazione. Si è usato il termine "democratico"
per definire i caratteri, per esempio, di un giornale o di una persona. Giornale
democratico; un uomo democratico, volendo così intendere "attento alle
esigenze popolari". Ma così facendo si è alterato il vero significato
etimologico. Democrazia è infatti un metodo che attribuisce la rappresentanza
a chi ha la maggioranza dei consensi e non è pertanto neppure sinonimo
di rappresentanza dei migliori, perché nessuno può garantire che
la verità dei più sia la migliore. In una società corrotta
la democrazia produrrà una classe dirigente corrotta. La democrazia non
cambia infatti la vita degli uomini, ma è un metodo che ha consentito
di passare, dai sopravventi di una famiglia contro un’altra, di una città
contro un’altra città, con massacri ed esili, a contarci a conferire il
potere a chi ha la maggioranza. Un grande salto di civiltà quindi che
ha portato gli uomini a confrontarsi sul piano delle idee. Da qui l’impegno che
tutti dobbiamo mettere per conservare questo metodo che fa sì che prevalga
chi ha più consensi, chi riesce a convincere più persone.
Questo non significa però che si possa richiedere tutto ad una regola,
così come non possiamo chiedere tutto allabpolitica. In una società
giocano infatti le regole, ma sopratutto i valori e gli ideali e ci si scontra
su tante cose. C’è chi crede in Dio e chi non ci crede; c’è chi
organizza un movimento e chi ne organizza un altro. Non è con una regola
che si risolvono i problemi della giustizia, che si garantisce il funzionamento
della scuola, che si assicura una onesta convivenza degli uomini. La democrazia
è però un corretto metodo per affrontare il problema della giustizia,
della scuola, della famiglia. Ecco, questa è la cosa importante: aver
assicurato un corretto modo di andare, perché nella vita non è
importante soltanto la meta a cui si vuole arrivare, è importante anche
il viaggio che si fa. Sono importanti gli obiettivi, ma anche il modo con il
quale si intende raggiungerli.
Il metodo democratico viene chiamato anche metodo rappresentativo. È interessante
la correlazione con la rappresentazione teatrale. In democrazia chi viene scelto
ci rappresenta e la scelta avviene per competizione elettorale, una competizione
talvolta anche violenta. Chi vince elimina l’avversario, lo "uccide" politicamente.
In una campagna elettorale l’uccisione è finzione, così come avviene
sulla scena: oggi si uccide l’uno, domani si uccide l’altro, mentre il terrorista
non ricorre ad una rappresentazione, uccide con la pistola.
Prendiamo ora a riferimento la democrazia americana. Essa ha duecento anni. Quante
cose sono successe in questi duecento anni! Ci sono stati governi liberali e
governi che hanno ristretto fortemente le libertà. C’è stata una
alternanza di politiche elitarie e di politiche popolari. Vi ritroviamo un Kennedy
ed un Reagan. Ma il metodo è sempre quello. Sono le soluzioni che sono
diverse. La democrazia americana è una regola che non consente regimi.
Ognuno ci mette i suoi contenuti.
Già i Greci avevano forme democratiche, ma per il governo di una piccola
comunità. Con la grande dimensione, la democrazia si è andata perdendo
per ritrovarla in Inghilterra, ed in Francia con la rivoluzione del 1789. Difficile
è darsi regole democratiche in una grande nazione. Quando fui corrispondente
dall’Estremo Oriente, mi capitò di assistere ad alcune elezioni in India.
L’India, paese povero, pieno di mille problemi, con 850 milioni di abitanti!
Bene, questi 850 milioni di abitanti hanno dato luogo ad una democrazia. Una
democrazia certamente difficile, ma mi domando: cosa sarebbe successo da noi
se fossimo stati 850 milioni di persone? Basti pensare in India ad una banconota,
cento rupie, per esempio; la parola cento è scritta in tredici alfabeti
diversi. Non tredici lingue; tredici alfabeti diversi, perché ci sono
tredici comunità con alfabeto diverso. Eppure, pur con mille problemi
e tante difficoltà, questo Paese è organizzato democraticamente.
Con la democrazia i cittadini diventano titolari dei diritti. Diritti degli uomini,
non dei ceti; non più privilegi per nascita. Lo Stato è di tutti;
governa la maggioranza.
Qualcuno critica il fatto che si possa trattare di una democrazia formale, con
regole a vantaggio di una sola classe sociale: la borghesia; e qualcuno si chiede:
che cosa se ne fa della libertà di voto chi non ha da mangiare? Chi non
ha una casa? Chi per lavorare deve essere alla mercé degli altri? La libertà
che conta è la libertà sostanziale.
Da questi presupposti prende le mosse in una altra parte d’Europa, nel 1917,
la rivoluzione bolscevica, la Rivoluzione d’Ottobre. Quella rivoluzione che vuole
affermare che prima delle regole formali ci sono le regole sostanziali del dare
un lavoro a tutti, una casa a tutti, da mangiare a tutti.
Poi si arriva al 1989; dopo i fatti di Piazza Tiananmen sono successe grandi
rivoluzioni in tutta l’Europa. Sono caduti i regimi autoritari dell’est e, pur
fra mille difficoltà, la democrazia si va affermando.
In più parti del mondo, ci sono però le guerre, guerre senza sbocchi
come in Jugoslavia, dove c’è chi cerca di imporre la propria "verità"
con la forza.
Qualunque esigenza sociale ed economica non può cancellare i diritti fondamentali
dell’uomo che sono di tutti. Non si può uccidere le libertà in
nome di una priorità sociale. La rivoluzione del 1989 sta a dire che non
si può organizzare una società se non basandola sui diritti fondamentali
dell’uomo e siccome la democrazia è un metodo che può garantire
tali diritti in virtù della ricerca di un consenso è ad essa che
si deve ricorrere. Questo vale oggi per la cultura prevalente, sia essa di destra
che di sinistra, europea e americana, asiatica e occidentale, con l’eccezione
del mondo comunista cinese.
L’unità d’Italia porta ad una guida elitaria: le grandi
masse rimangono fuori. Dopo la prima guerra mondiale esse entrano in gioco e
si formano due grandi partiti: il partito popolare dei cattolici ed il partito
socialista. Ma l’organismo statale si deteriora e si arriva al fascismo perdendosi
lo Stato di diritto dei cittadini. Poi la guerra, la Resistenza e la Costituzione
italiana con la democrazia che diventa regola comune. Nasce uno Stato liberale
democratico, con i partiti ed i sindacati, con il voto a tutti. Poi la guerra
fredda ci spacca in due. È la democrazia bloccata, con due realtà
che devono convivere malgrado le concezioni diverse per storia e modo di concepire
la convivenza umana. C’è chi considera la democrazia come un tratto di
strada per arrivare ad un nuovo tipo di società in cui non ci siano più
diseguaglianze, punto di riferimento è l’Unione Sovietica; e c’è
chi considera la democrazia come un metodo permanente, anche se migliorabile.
Dopo il 1989 tutto cambia: l’Italia può vivere finalmente una stagione
democratica in cui tutti sono in gioco come possibili protagonisti. Crollando
il muro di Berlino, crolla infatti la dualità che aveva portato alla democrazia
bloccata, con la Democrazia Cristiana sempre al governo e con il Partito Comunista
Italiano sempre all’opposizione. Un dato che, occorre tuttavia rilevare, non
era stato deciso a tavolino, ma dal voto elettorale. Era stata cioè la
gente ad impedire l’alternanza, per paura dì veder compromesse le libertà
democratiche. La gente non ha infatti creduto al Partito Comunista Italiano,
malgrado che i comunisti italiani abbiano sempre dichiarato di essere diversi
dagli altri. La gente non si è fidata e senza l’alternanza si è
avuta la democrazia bloccata.
Giorgio Galli scrive un libro dal titolo II bipartitismo imperfetto. Mentre
con il bipartitismo, in altre democrazie, si ha l’alternanza fra chi governa
e chi fa l’opposizione, in Italia uno dei due maggiori partiti è sempre
stato al governo e l’altro è sempre stato all’opposizione. Ciò
ha portato anche ad un impigrimento culturale e ad uno scadimento sul piano etico
e morale. Gli elettori, il popolo hanno perso l’attitudine critica, la capacità
di valutare e di decidere, ed i nostri rappresentanti hanno perso lo stimolo
a studiare a e ad impegnarsi correttamente. Idem per l’opposizione. Si è
andati contro il governo senza un progetto, solamente perché il governo
era qualcosa da combattere.
Si è evitata la guerra civile, fatto verificatosi in Grecia, ma si sono
avute come gravi conseguenze la lottizzazione del potere e tangentopoli.
La democrazia bloccata ha consentito, per esempio, a direttori di banca disonesti
di fare operazioni illecite su richiesta di uomini politici che contavano, che
coprivano e con la quasi certezza che avrebbero potuto continuare ad esercitare
la copertura anche nella legislatura successiva.
Con l’alternanza questo non accade, perché con lo scambio dei ruoli di
maggioranza e opposizione il rischio è troppo alto. Il meccanismo democratico,
in regime di alternanza, è quindi la più grande garanzia che gli
uomini abbiano mai inventato. Nello Stato di tutti governa la legge. Tanto è
vero che si parla di Stato di diritto.
Funzionale alla conservazione è stato il sistema elettorale proporzionale.
Un meccanismo elettorale che ha consentito di far votare i candidati proposti
dai partiti. Oggi, la gente ha scelto una nuova via: il sistema elettorale maggioritario,
anche se rimane una quota proporzionale, porta ad uno schieramento che si contrappone
ad un altro.
Quella che stiamo vivendo è una stagione importante: chiunque vinca non
sarà messa in discussione la democrazia.
Chiudo citando Sir Winston Churchill. In una sede ove si discuteva dei difetti
della democrazia disse: "Sì è vero, la democrazia è un pessimo
sistema, ma non ne abbiamo saputo inventare uno migliore."
Su
Discussione
In sede di dibattito sono intervenuti il Sig. Carlo Cardinali, il Prof. Mario
Pedrazzoli ed il Geom. Odino Pieroni.
Cardinali ha affrontato e chiesto il parere di Sciano sulla definizione e sui
significati politici di destra e di sinistra, di conservatorismo e progressismo,
ieri ed oggi.
Pedrazzoli ha inteso evidenziare il ruolo dello Stato liberale, che pur avendo
un parlamento eletto dall’l,9% (1861) all’8,3% (1909) della popolazione rappresentò
una democrazia volta al progresso che ha portato, senza guerre civili, al suffragio
universale maschile (1913). Non disprezziamo, ha aggiunto, il nostro passato,
perché le nostre radici stanno anche in questo passato ed oggi dobbiamo
puntare su un nuovo patriottismo, intendendo come patriottismo non qualcosa di
legato al nazionalismo, ma al senso dello Stato che ogni cittadino deve avere
fino al punto che il proprio agire politico risulti frutto di un imperativo morale.
Il Geom. Pieroni ha chiesto di porre l’accento sull’informazione, oggi assai
condizionata dalla logica del profitto. Su
Risposte
II Sig. Carlo Cardinali ha posto un problema veramente importante. Qual è
l’attuale significato di progressista e conservatore? Non è tramite queste
definizioni che si può comprendere e capire la storia. Se il nostro dibattito
politico si dovesse fermare ai nominalismi significherebbe che la nostra cultura
è assai povera, rachitica. La storia del dopoguerra italiano, spiegato
in questi termini non consente, per esempio, di collocare la Democrazia Cristiana
che per un verso si può dire rappresenti il volto nuovo dei conservatori,
ma per un altro è il partito che ha saputo interpretare le esigenze della
borghesia e dei meno abbienti. Progressisti e conservatori: è chiaro che
ognuno ha il diritto di chiamarsi come vuole. Se un gruppo si definisce progressista
è legittimo che possa farlo, ma un’idea non è di per sé
né progressista, né conservatrice, né moderata. Ha senso
dividerci per culture diverse, per modi diversi di stabilire quello che è
giusto e quello che è sbagliato, quello che è opportuno e quello
che è inopportuno. E ciò vale per i modelli a cui facciamo riferimento,
per le idee che abbiamo della vita che dipendono anche dal fatto se crediamo
o non crediamo in Dio, per il rapporto che abbiamo con i nostri morti, per il
rapporto che abbiamo con i nostri figli, per tutto questo. Modi diversi, modelli
di vita diversi fanno le culture.
All’interno di una cultura ci sono posizioni diverse per realizzare un obiettivo:
c’è chi tende di più a conservare le cose come stanno, perché
danno certezza e danno protezione, e c’è invece chi ne vuole scoprire
di nuove, o comunque chi vuole rompere regole che sono diventate vecchie. Il
mondo sovietico, nel momento in cui dominava lo Stato comunista, era definito
di sinistra. Ad un certo punto quel mondo è crollato. Chi lo ha messo
in discussione non è certo un conservatore dello Stato di sinistra. È
un progressista? E se quel mondo era di sinistra, chi lo ha cambiato è
di destra?
Il problema va posto in altri termini. Se il partito comunista avesse vinto in
Italia, sarebbe stato meglio o peggio per i diritti degli operai, per i diritti
degli uomini? Nessuno se la sente di dirlo, ma è di destra o di sinistra
chi si è opposto a questo rischio? E conservatore o progressista chi non
ci ha fatto correre quel rischio?
E poi, cosa vuol dire progresso? Nella storia si è parlato del mito del
progresso industriale, perché si pensava che le macchine avrebbero portato
al progresso della società. Il progresso ognuno lo definisce in base ai
valori che ha. Se per me sono importanti i valori della libertà e della
pace, per me è progressista una società che dà spazio a
quei diritti fondamentali. Se per un altro progresso vuole dire viaggiare in
auto o in barca, usare una lavatrice, ecc., sarà progressista una società
con tante automobili, tante barche a motore, ecc. È questione di intendersi
sui valori: ecco il problema. Rispetta di più i diritti fondamentali dell’uomo
una società che ha tutto meccanizzato e industrializzato, oppure una società
come quella africana che non ha tutte queste cose, ma conserva il patrimonio
delle favole che le nonne raccontano ai nipoti? Domandiamoci allora cosa vuole
dire progresso, perché non possiamo continuare a riferirci ai vecchi modelli.
Sembrava che liberare l’uomo dalla costrizione di un duro lavoro manuale della
terra fosse un fatto positivo. Ha avuto la macchina per lavorare la terra, la
macchina per spostarsi, la macchina per conservare i cibi, ecc. ma è questo
il vero progresso? Ci si è accorti che esistono libertà e libertà;
ci sono le libertà che contano di più e sono il poter manifestare
il proprio pensiero, potersi riunire in forma associativa, poter decidere il
proprio governo, ecc. In pochi anni i poteri dell’uomo sono aumentati anche nell’uso
della forza, con la bomba atomica, con le armi elettroniche. Pigiando un bottone
si possono uccidere milioni di persone. Con una facilità estrema si può
influire sulle generazioni future, sulla salute degli uomini di domani, malati
a causa delle radiazioni atomiche. Un altro potere enorme è dato dai mezzi
di informazione. La televisione fa saltare ogni confine tra privato e pubblico.
I muri di casa che rappresentavano il perimetro della vita privata sono oggi
aperti dalla televisione che non conosce queste barriere. Tutto questo rompe
equilibri antichi e fa cambiare i ritmi di vita. Con la manipolazione genetica,
la scienza entra nei meccanismi della nascita e della morte dell’uomo. Nessuno
aveva mai parlato di filosofìa dei diritti dei posteri. Oggi ci domandiamo
se esistono i diritti dei posteri. Nessuno aveva mai parlato dei diritti della
natura, perché la natura si aggiustava da sé, qualunque pasticcio
combinasse l’uomo. La natura si rigenerava; oggi non e più così.
Di fronte a tutti questi problemi quale è il significato di progresso?
Probabilmente, ma è una personalissima convizione, è progressista
chi non perde la dimensione umana e riconosce, per esempio che la vita umana
è più importante delle esigenze della scienza. Chi è più
rispettoso dei diritti fondamentali dell’uomo, in una determinata situazione
storica e politica, quello è progressista. Ognuno si misura con le sue
culture: cultura contro cultura. Si difende la libertà organizzando il
mondo in modo tale da rendere più diffìcile il ricorso alla guerra.
Quello che conta è la sovranità dei diritti fondamentali dell’uomo.
Quelle del Professor Pedrazzoli sono considerazioni che condivido.
Per quanto attiene il perché la stampa non aiuti a far capire il vero senso delle cose, potendo far pensare che anche il silenzio possa sottendere qualcosa che ha poco di etico, e molto di potere, Federico Scianò ha risposto che non c’è dubbio che anche nel mondo dell’informazione c’è un’organizzazione di potere lottizzato. Bisognerebbe fare tutta una storia della lottizzazione che è anch’essa un meccanismo derivato dalla democrazia bloccata e degenerata, dal consociativismo. C’è però uno spazio che i giornalisti del servizio pubblico hanno e coprono per aiutare a confrontare opinioni diverse. Su
© Giovanni
Armillotta, 2000