UNA PASQUA DI PACE PER L’IRLANDA DEL NORD
Ci sono molte ragioni dietro alla riuscita di quello che è stato definito da tutti come un "accordo storico". Ma ci sono anche motivi per essere cauti e per pretendere che sia la storia stessa a giudicare l’accordo del 10 aprile 1998 senza cercare di giocare d’anticipo. Indubbiamente è un fatto di enorme rilievo riuscire a far firmare lo stesso accordo a chi si è odiato per generazioni (e verosimilmente continuerà a farlo), e di conseguenza è senz’altro comprensibile la mobilitazione dei media che ha avuto luogo a livello planetario, ma ogni valutazione non può fondarsi sull’ottimismo totale e acritico senza tenere in considerazione il fatto che questo accordo la sua efficacia deve ancora in tutto e per tutto dimostrarla.
Lasciamo per un momento questa vena di pessimismo-realismo per cercare di capire le ragioni che hanno favorito l’accordo in questione. È ormai opinione comune che i numerosi conflitti della seconda metà del secolo non sono stati risolti per il buon cuore della comunità internazionale o per il disinteressato intervento degli USA (anche se questi cercano ogni volta di farcelo credere), ma per la solita convergenza di interessi economici ed elettorali, e questo è senz’altro anche il caso del conflitto nordirlandese. In primo luogo Washington aveva 40 milioni di buone ragioni per favorire in tutti i modi la pace a Belfast, anche se ciò non può bastare a spiegare il suo impegno, poiché la vasta comunità irlandese degli Stati Uniti esisteva anche ai tempi di Bush o di Reagan, ma non ci risulta che questi ultimi abbiano profuso grandi sforzi per risolvere la questione dell’Irlanda del Nord. È risaputo tuttavia che Clinton conti molto sull’appoggio della comunità irlandese d’ispirazione prevalentemente democratica. Per spiegare l’impegno USA –che dal 1995 ad oggi è stato senz’altro decisivo- vi sono tuttavia anche considerazioni legate in generale alla politica estera statunitense dello stesso Clinton, il quale ha impostato su questa la propria presidenza, e ogni successo nei conflitti internazionali il buon Bill conta ovviamente di tradurlo in consensi nel suo paese, e in tal senso vanno visti come successi anche le campagne di Haiti e di Bosnia.
Nell’isola verde il fatto che la gente "non ne possa più della guerra" è indubbiamente da tenere in considerazione, ma il fatto non può avere grande valore se non risulta condiviso anche dai politici e soprattutto anche dai settori della grande economia. In questo senso possiamo ritenere che abbia avuto un ruolo –seppur indiretto- anche l’Unione Europea. I grandi vantaggi economici portati dai fondi di coesione e dai fondi strutturali che sono giunti da Bruxelles hanno dato la spinta decisiva verso il definitivo affrancamento di Dublino dalla scomoda posizione di "Cenerentola d’Europa", consentendole di assumere sempre più il ruolo di quella che è stata definita una "tigre celtica" per gli straordinari progressi compiuti sul piano della crescita economica. Logico quindi che a Belfast si vogliano trarre analoghi vantaggi e si consideri ormai opportuno uscire da quel guscio pieno di odio settario e disoccupazione, nel quale l’unica soddisfazione è quella di inneggiare a Guglielmo d’Orange o spaccare la testa a un fratello di religione diversa. È la medesima considerazione di ordine economico in chiave comunitaria a far considerare a Londra una priorità assoluta la soluzione della questione nordirlandese: come si può pretendere di essere considerati a tutti gli effetti membri di un’unione europea che dovrebbe rappresentare il modello istituzionale più moderno e tecnologico se al proprio interno prosegue una guerra civile cronica e soprattutto, come si può continuare, come veniva fatto in passato, a parlare di diritti umani e di democrazia se nelle proprie carceri i prigionieri –spesso incarcerati con processi farsa e talvolta incolpevoli- sono trattati come bestie?
Ecco dunque un’occasione imperdibile per dare un enorme colpo di spugna al passato, anche perché quella che è attualmente la maggiore fonte di guadagno per l’Irlanda, e cioè il turismo, potrà in tal modo finalmente svilupparsi anche al nord grazie alla pace.
Tutte queste riflessioni non possono tuttavia farci trascurare le pesanti ombre che permangono sull’accordo che verrà sottoposto a referendum popolare il 22 di maggio. Come tutti gli accordi di pace si basa su un compromesso che, in quanto tale, prevede concessioni parziali da entrambe le parti, e dunque per definizione è destinato a scontentare gli opposti estremismi. I leader protestanti dovranno riuscire ad assicurare alle frange più estreme del loro elettorato che il Consiglio Nord-Sud non costituisce l’embrione di un futuro governo unico per l’intera isola –da sempre il vero e proprio "spauracchio" per i sudditi irlandesi della regina- mentre i leader cattolici dovranno convincere i propri elettori più intransigenti che di più non si poteva ottenere e che la tanto attesa riunificazione dell’isola dovrà essere cancellata dai sogni della gente di Falls Road come dalla costituzione dell’Eire, i cui articoli 2 e 3 costituiscono il controverso epitaffio del padre della repubblica, il nazionalista Eamon deValera. Quest’ultima considerazione ci conduce inevitabilmente a un’analogia che, anche se la storia non è solita ripetersi, avrà fatto passare non poche notti insonni al buon Gerry Adams: anch’egli infatti, come il suo predecessore di 75 anni fa Collins, ha accettato un accordo che sostanzialmente non riunifica l’isola, anch’egli ha acconsentito a "svendere" –come molti oltranzisti lo hanno accusato di fare- il credo repubblicano ereditato dai ribelli feniani del secolo scorso e che ha dimostrato anche in tempi recenti la propria spaventosa vitalità –basti pensare a chi, come Bobby Sands, preferì la più terribile delle morti a una vita da suddito britannico- anch’egli, dicono tuttavia coloro che hanno capito che con la violenza non si ottiene la pace, ha preferito il dialogo e il compromesso alle bombe e all’intolleranza.
Riccardo Michelucci
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