Quali che siano le caratteristiche prese nelle varie epoche storiche, è innegabile che l'Irlanda sia sempre stata caratterizzata da un profondo senso religioso. Sebbene le fonti della religiosità dei Celti siano piuttosto scarse, soggette inoltre all'interpretazione della cultura romana che venne in contatto con esse, è innegabile che si possa rintracciare nel carattere religioso dei Celti una spiccata propensione alla mistica, alla ricerca febbrile della verità, che trova espressione sia nella religione antica che nel cristianesimo, nelle modalità peculiari con cui ebbe a svilupparsi - in particolare- tra i Celti delle Isole Britanniche. Strabone racconta che presso i Celti tre erano le categorie di persone che godevano della maggior stima: i bardi, i vati e i druidi.
I bardi erano coloro che si tramandavano il vasto corpus di storie e leggende: poeti di rango inferiore rispetto ai vati, la loro arte lasciava largo spazio all'improvvisazione e quindi alla variazione sui temi principali. Erano in sostanza dei cantastorie, custodi delle memorie popolari, musici presenti presso ogni villaggio e ogni clan. I druidi erano i sacerdoti del culto, ricchi di vaste cognizioni, ben noti in tutto il mondo antico, tanto che Aristotele ebbe a definirli gli inventori della filosofia e li lodò per aver formulato teorie circa l'origine e la fine dell'uomo. (1) Cesare stesso aveva avuto l'impressione che i druidi godessero di una grandissima importanza nella vita sociale celtica. (2) Erano maghi, filosofi, medici, educatori: la formazione dell'aristocrazia guerriera era compito dei druidi. Tra coloro che si preparavano all'esercizio delle armi venivano individuati quegli elementi che presentavano le caratteristiche più idonee per diventare a loro volta sacerdoti: il cammino del druida e del guerriero era inizialmente in comune, con la differenza che la preparazione al sacerdozio era molto più lunga, fino a venti anni.(3) Druidi e guerrieri imparavano in cosa consistesse una condotta virile: timore di Dio, rettidudine, coraggio, una triade per la quale i Celti hanno da sempre dimostrato una appassionata predilezione. Infine esistevano quelli che i romani definivano vates, attribuendo a questo termine la valenza di "profeti" o "veggenti". Si suppone che il compito di questi indovini, in seno ad una popolazione religiosissima quale quella celtica, fosse quella di indagare la natura e gli dei, non solamente per conoscere il futuro, ma anche e soprattutto per individuare quale fosse, nelle vicende del mondo, la volontà superiore della divinità. Per i Celti la funzione dell'ispirato, del visionario, era di fondamentale importanza. Non è escluso che nell'esercizio dei suoi compiti il vate ricorresse a condizioni di sovraeccitazione per raggiungere lo stato estatico (4), ma c'è un altro aspetto da sottolineare: se il termine latino di vate è affine al gotico wods (ossesso) e al medio-alto germanico wut (violento turbamento spirituale) che ritroviamo nel nome germanico di Odino - Wodan- e che suggeriscono una particolare condizione psichica e spirituale del profeta-indovino, il termine usato in irlandese per indicare il vate, Filid, etimologicamente significa veggente ma anche poeta. Dice un antico trattato irlandese: "Non è un Fili chi non preserva la coimge". Con questo termine si intendeva la "conoscenza complessiva", ovvero le tante storie, le leggende, i miti delle origini, e le loro relazioni. Solo chi conosceva e aveva ben presente tutto ciò poteva appartenere alla potente e nobile casta dei Filid. Quest'arte, definita in gaelico Filidecht, si apprendeva al termine di studi che duravano oltre dieci anni e che si basavano sull'esercizio preciso e disciplinato della memoria. La poesia dunque era lo strumento del Fili, il modo con cui egli accedeva alle visioni, al contatto con il divino. Nelle composizioni poetiche veniva racchiusa la sapienza della tradizione, le norme di condotta, gli elementi fondamentali del diritto che ordinava la società. Ascoltare storie era la più alta forma di acquisizione culturale e di intrattenimento: il tempo dell'ascolto era quello serale, per lo più durante le stagioni fredde. Riferisce un testo dell'VIII secolo che un Fili di nome Forgoll, essendosi recato alla residenza regale di Mongan MacFiachna, narrò di fronte alla corte ogni sera da Samain fino a Beltaine (dal I° novembre al I° maggio) una storia diversa. "Nelle assemblee e nei festini regali, in occasione degli eventi pubblici che scandivano la vita delle comunità (tùatha), il fili faceva rivivere per i re, i capi e le loro corti quelle storie esemplari, quei miti fondatori. In essi l'etica regale e guerriera si configurava nelle regole d'acqusizione della sovranità e di iniziazione del guerriero, nei segni che confermavano la legittimità di un re, nelle prestazioni che attestavano la destrezza di un campione: e sempre perciò vi comparivano, tra loro connessi, i motivi dell'interdizione (geis)e dell'onore, della prosperità economica e dell'integrità del territorio"(5). I temi dei racconti erano diversi: dai viaggi (imram) alle battaglie, alle spedizioni, alle razzie- di grande importanza in una società fondata sull'agricoltura e l'allevamento di bestiame- una delle quali, la Tàin Bò Cuailge, è l'episodio più importante del Ciclo dell'Ulster. Infine, tra queste tipologie di racconti, ben rappresentati erano anche quelli che parlavano di sogni (aislinge) ispirati per lo più da esseri soprannaturali, e di visioni (baile), di cui è spesso protagonista un folle. Sono racconti dove è fiorente e fervida l'immaginazione, ma con la costante di un rapporto col sovrannaturale, con altre dimensioni del reale, col sacro. Spesso la visione avviene in occasione di un momento sacro dell'anno, quando il tempo è come sospeso e ha valore di eternità, come nel caso delle grandi festività di Samain, di Beltaine, Imbolc o Lugnasad, e in prossimità di un luogo incantato, come i tumuli (Sidh) ove si nasconde il magico "Piccolo Popolo", o particolari boschi, o le rive del grande oceano che si affaccia sul misterioso e sconfinato Occidente, ai cui estremi confini sta l'Isola di Avallon e il beato reame del Tir nan Og, la terra dell'eterna giovinezza. Questo antico patrimonio letterato ci è stato in parte tramandato, rendendoci una significativa testimonianza della visione religiosa degli antichi Celti delle Isole Britanniche. Oltre che dall'Irlanda altre fonti significative del ruolo del poeta profeta e veggente si possono trovare nel Galles, dove il termine per indicare il vaticinio, il cimrico gwawd ha anche il significato di poesia, e ciò non deve stupire se si ricorda che nella mitologia norrena Odino era il dio dei poeti. Il Fili dunque percepiva in stato di trance, come sogno o visione, la volontà e il disegno divino, e lo traduceva per gli uomini mortali sotto la forma di poesia o racconto. Vi sono alcuni esempi significativi tra le storie che ci sono pervenute: per quanto riguarda il Galles, in quello che rappresenta una delle espressioni più alte e significative della letteratura celtica, il Mabinogion, raccolta di narrazioni la cui versione manoscritta non risale oltre il secolo undicesimo ma che hanno origini nella tradizione orale molto più remote, vi sono due interpretazioni della visione in sogno da cui scaturisce una storia esemplare.Il primo esempio è fornito dal racconto Il sogno di Macsen Wledig. La stesura di questo testo è del XIII secolo, sebbene si tratti di materia molto più antica. E' un romanzo breve, in prosa, che tramanda una storia a carattere onomastico, ossia che spiega e giustifica l'origine di un nome, in questo caso quello della stessa Britannia. Il protagonista è Macsen Wledig, ovvero Magnus Maximus, imperatore di Roma. Si tratterebbe di un nobile nativo della Spagna che avrebbe combattuto insieme a Teodosio nelle guerre britanniche e che divenne famoso tra i Celti per il suo grande valore. Questo nome è ricordato anche in un'altra forma, Maccus, e dal toponimo Maccus' Wiel deriva, secondo una leggenda, il nome di un grande clan scozzese del Border, quello dei Maxwell, non a caso rimasto cattolico-romano anche dopo la Riforma e sempre fieramente anti-inglese e giacobita fino e oltre la disfatta di Culloden(6). Macsen (in alcune versioni anche Maxen) incarna il sovrano di quella Roma la cui grandezza affascinò profondamente lo spirito dei britanni. " Macsen Wledig era imperatore di Roma e fu il più bello e il più saggio degli uomini, e il più adatto ad essere imperatore di quanti mai siano esistiti prima di lui"; così esordisce la narrazione (7), che vede l'imperatore prendere parte ad una caccia. Al termine di questa, stanco, si addormenta in una piccola valle, con uno scudo d'oro a fargli da cuscino. Nel sonno ha una straordinaria visione: gli pare di volare oltre valli, fiumi, montagne, fino a giungere ad un'isola, "la più bella del mondo". Qui, tra segni straordinari, incontra una bellissima fanciulla, di stirpe regala, ornata di splendidi monili. Al risveglio Macsen inizia la ricerca della giovane della quale si è subito innamorato, e segue l'itinerario che aveva visto nel sogno, e che lo porta nell'isola di Britannia, alla corte della principessa ad Aber Sein, nel Galles occidentale. Qui l'imperatore si ferma per sette anni, assumendo gli usi e costumi celtici, finchè i suoi doveri e delle minacce incombenti non lo costringono a ritornare a Roma. Prima di andarsene fonda una nuova città-fortezza, Carmarthen, quella che secondo le leggende è la città natale del Mago Merlino. Quelli che decisero di andare a Roma si portarono via le donne dei paesi che avevano conquistato, ma per evitare che il linguaggio diverso delle donne potesse corrompere il linguaggio originale degli uomini tagliarono loro la lingua; così divenne noto il termine "Brytanieid", ovvero "half-silent", cioè "muti per metà" che spiega il nome di Britannia e il motivo per il quale i Bretoni continentali parlavano la stessa lingua dei Britanni insulari. Se questo testo è in qualche modo un'apologia della civiltà romana, ben diverso è il contenuto di un altro racconto gallese che ha per tema la visione onirica e profetica: Il sogno di Rhonabwy (8). Durante una guerra che ha come motivo la lotta tra i due condententi al trono del Powys, il Galles centrale, un cavaliere di nome Rhonabwy trova riparo in un luogo inospitale, una spelonca dove si addormenta, sdraiato su una pelle di bue, e nel sogno viene trasportato al tempo di Re Artù: la visione procede in un dialogo fra il protagonista ed un compagno che fa da guida informatissima a tutto quanto incontrano (e non ci pare forzata un'analogia con Virgilio guida di Dante), fino ad arrivare al cospetto di Artù. Il grande sovrano, seduto su un trono posto sul mantello dell'invisibilità, gioca a scacchi con Owen figlio di Uryen, ed esprime il suo lamento per le condizioni in cui langue l'isola su cui ha regnato. "Provo pietà a vedere uomini così piccoli a guardia di quest'isola, dopo che essa è stata da uomini come quelli di un tempo!" Il sogno è pieno di contraddizioni storiche e anacronismi, ma il simbolismo è molto chiaro: Artù richiama gli uomini della sua Britannia all'antico valore, al rispetto degli antichi principi che vacillano di fronte all'invasione sassone.Il sogno celtico degli irlandesi è più fervido di immaginazione e meno didascalico dei gallesi. Uno dei migliori esempi è dato da Il sogno di Angus (Aislinge Oengus)(9), di cui è protagonista il giovane dio dell'amore, Angus, a cui appare in sogno una fanciulla del Sidh, "la più bella donna che vi fosse in Eriu. Al risveglio la mente del giovane non era più sana: rinunciava a mangiare e non viveva che per rincontrare in sogno la donna di cui si era innamorato. Si cerca di curare questo male misterioso, che si protrae per due anni, nonostante l'intervento di medici e dèi quali Dagda. Si deve ricercare la fanciulla e farla incontrare ad Angus. Alla fine l'incontro avviene a Samain, e i due giovani sotto la forma di due cigni possono coronare il loro amore. Nel racconto è centrale il tema della metamorfosi: la trasfigurazione di Angus avviene nel sonno, nell'estasi che si compie nel corso del tempo sacro, riprendendo il tema della trasformazione cara alla cultura celtica, e ben presente, ad esempio, nel celebre Canto di Amergin, inserito nel Lebor Gabàla(Il Libro delle Invasioni), il grande racconto sulla storia mitica dell'Irlanda. Amergin è il leggendario progenitore dei gaelici, mago e poeta, ed il suo canto utilizza lo schema dell'incantamento druidico, della potenza del linguaggio poetico che consente all'anima di acquisire le caratteristiche degli elementi della natura passando attraverso straordinarie trasformazioni che conducono alla conoscenza: (10)
Io, vento del mare / Io, onda dell'oceano / Io, fragore dei marosi / Io,cervo dalle sette corna / Io, falco sulla roccia / Io, raggio del sole / Io, l'albero più bello / Io, cinghiale valoroso / Io, salmone nell'acqua / Io, lago nella piana / Io, collina della saggezza / Io, parola dei poeti / Io, sgominante lancia della vittoria / Io, divinità che modella il fuoco nelle menti / Chi altro interpreta le grandi pietre sulla montagna? / Chi conosce le fasi della luna? / Chi sa dove tramonta il sole? / Chi trae i tesori dalle dimore di Tetra? / Per chi sorridono i tesori di Tetra?
Il sopraggiungere del cristianesimo non spegne gli ardori visionari dei Celti, ma ovviamente ne arricchisce di nuovi contenuti. Il monachesimo irlandese potè trionfare delle antiche credenze affrontando la sacra corporazione dei veggenti, i Filid, sul suo stesso terreno, quello dell'erudizione e dell'uso della parola sacra, surclassandola. I monasteri, oltre che luoghi di preghiera, diedero ben presto origine, in quanto centri di cultura e disapere, ad una nuova tradizione letteraria che introduce un nuovo tono nella letteratura europea. La forma di cristianesimo sviluppatasi a partire da San Patrizio è essenzialmente, mistica, esigente fino all'eroismo, intensamente visionaria. E' San Patrizio che, al termine di un cammino di purificazione e penitenza ha per primo la visione del Purgatorio presso una grotta del Lough Derg, nell'Ulster. E' il monaco cistercense Malachia da Armagh, sempre nell'Ulster, che profetizza sulla sorte della Chiesa e dei futuri pontefici, da Celestino II (1143-1144) fino al futuro Pietro II, l'ultimo papa. Perfino in ambiente sassone, ma fortemente influenzato dal monachesimo irlandese, prende vita il primo poema-visione della letteratura inglese, Il Sogno della Croce, attribuito a Cynewulf (VIII secolo), a lungo l'unico nel suo genere prima che la visione divenisse una delle più comuni forme letterarie del Medioevo, che trova, ancora una volta in Irlanda, una delle espressioni più interessanti. Si tratta della Visio Tnugdali(11), visione dell'aldilà conseguente ad un evento traumatico che fa cadere Tnudgal, cavaliere dalla vita dissipata, in una sorta di coma durante il quale ha modo di lasciare il proprio corpo e avventurarsi nell'aldilà. E' un'occasione unica e particolare che gli viene data per rendersi conto di quali siano le vere gioie che attendono in Paradiso chi abbia vissuto secondo onore e virtù e quali siano le orrende pene che sono riservate nell'inferno per chi è vissuto nel peccato. La geografia dell'inferno, i castighi in esso comminati, sono descritti con cura di particolari. La costruzione narrativa fantastica rappresenta degnamente l'eredità delle visioni dei Filid: Tnudgal descrive l'uscita della propria anima dal corpo e il viaggio che essa compie in compagnia di un angelo. La visita si conclude con il ritorno alla coscienza, col risveglio del protagonista che cambia radicalmente vita, realizzando così anch'egli una metamorfosi, o meglio ancora una conversione, il cui termine greco e scritturistico era Metànoia, ovvero cambiamento di mentalità. Se il genere della visione prenderà piede nella cultura medievale, molto dunque sarà dovuto all'influsso dei monaci celti di Irlanda, sparsi per tutto il continente, che seppero coniugare lo slancio di un cristianesimo giovane e fervente con una tradizione secolare di sogni, di visioni, di ricerca appassionata del significato delle cose nascosto dal divino tra segni, simboli, immagini da interpretare e comprendere.
Note:
(1) Diogenes Laertius, De clarorum philosoforum vatis