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Politéia

NAZIONE
E NAZIONALISMO


LA RINASCITA DELLE FORME DEL FASCISMO
NELLA RETORICA SULL'UNITÀ NAZIONALE


Indice



CHE COSA S'INTENDE PER NAZIONE

L'idea di nazione, come la s'intende oggi, trova la sua origine in Rousseau e nel romanticismo. Per nazione s'intende un popolo che da molto tempo condivida un territorio, con in comune usi, tradizioni, costumi, lingua, cultura, religione, economia, storia, ecc.; un popolo, soprattutto, i cui membri siano consapevoli di tale comunanza e abbiano quindi un sentimento fondamentale di gruppo.

Il punto storico
Come avviene ogni volta che si fanno riflessioni sui fatti storici, occorre evitare il più possibile di attribuire al passato i concetti e le idee che abbiamo al presente. Così, chi pensa che in passato esistessero, anche solo virtualmente, delle nazioni corrispondenti agli attuali stati nazionali, commette un grave errore di valutazione. Fino a tutto il Medioevo, infatti, la quasi totalità degli uomini viveva in territori ristrettissimi, che per le condizioni di vita di allora erano di fatto separati da confini invalicabili.
Le cose cominciarono a cambiare solo con gli inizi dell'Età Moderna, soprattutto per le nuove e vigorose spinte economiche che segnarono l'affermarsi della borghesia mercantile. Nella Penisola Iberica, l'unione delle corone di Castiglia e di Aragona, avvenuta nel 1469, portò alla costituzione di un grande regno unitario. In Francia la monarchia, con l'aiuto della borghesia, ottenne lo stesso risultato. Nacquero così degli stati che si caratterizzarono da un crescente accentramento del potere, che si estendeva su un vasto territorio, e da una graduale perdita dell'indipendenza da parte di città e feudi. In seguito, tra Settecento e Ottocento, le ulteriori trasformazioni ed espansioni dell'economia, anche qualitative (con l'introduzione nell'industria della macchina a vapore e delle altre innovazioni tecnologiche), portarono ben presto al formarsi di ulteriori stati nazionali e a nuove forme istituzionali, caratterizzate ancora di più dal centralismo burocratico e dalla concentrazione del potere.
Oltre all'economia e al potere, un altro aspetto determinante per la diffusione dell'idea di nazione per tutto l'Ottocento fu la strumentalizzazione che se ne fece per provocare lacerazioni e rivolte all'interno degli imperi, come nel caso dell'indipendenza greca ai danni dell'impero turco e di quella italiana ai danni dell'impero austriaco. Di queste rivolte ne traevano benefici, a turno, altre potenze; ma in particolare l'Inghilterra, che diffondeva anche gli ideali costituzionali della borghesia.

Il concetto
Gli stati nazionali non sono nati dalla comunità d'intenti di alcuni popoli che hanno pensato di unirsi per fondare un grande stato. Gli stati nazionali sono sorti come conseguenza dell'ampliamento delle attività economiche e produttive, che hanno richiesto una sempre maggiore espansione del territorio e una sua omogeneizzazione politica e culturale, per facilitare gli scambi commerciali e uniformare le popolazioni alla standardizzazione dei prodotti, necessaria alla produzione, soprattutto dopo la rivoluzione industriale.
Gli stati nazionali, dunque, nati sulle rovine del frammentatissimo sistema feudale, trovarono subito nell'idea romantica di nazione la loro giustificazione ideologica, di cui avevano assoluta necessità per raccogliere consensi nell'azione politica. La nazione era diventata l'ideologia dello stato e della concentrazione del potere. Gruppi settari, formati in parte da idealisti e in parte da mercenari, comunque sostenuti e strumentalizzati da potentati economici, si adoperarono fin dal Settecento per diffondere e fare affermare le nuove idee di costituzione e di nazione. Nel 1789 scoppiò la rivoluzione francese, il cui modello istituzionale si diffuse in Europa con le armate napoleoniche, e, anche dopo la sconfitta di Napoleone, in piena Restaurazione, le nuove idee, che avrebbero dato alla borghesia il controllo degli stati, furono sostenute attraverso una fitta rete di organizzazioni clandestine, finanziate dalla borghesia e sostenute dall'Inghilterra. Ma gli stati nazionali, che si venivano formando, andavano ben oltre, nella loro estensione territoriale, quei confini che i singoli popoli avevano occupato storicamente, costituendo di fatto non una nazione, ma un insieme di nazioni.
L'idea di nazione è divenuta, per questo, ambigua. Da una parte c'è il sentimento primordiale e fondamentale di gruppo, che possiamo chiamare "nazione spontanea" e, dall'altra, c'è l'estensione artificiale, per motivi economici, dell'idea di nazione a tutto il territorio statale, che possiamo chiamare "nazione ideologica". La prima è legata alla storia di una comunità popolare e politica, a cui si applica la definizione di nazione data all'inizio, l'altra è legata alla concentrazione del potere economico e politico in uno stato unitario, burocratico e centralizzatore. La prima è sentita da tutti coloro che si identificano con le proprie tradizioni, la seconda è costruita artificialmente per presentarsi come una realtà superiore, sacra ed eterna, per cui gli interessi dei cittadini vengono forzatamente identificati con gli interessi della nazione, e viceversa. Nella nazione ideologica, le competenze economiche, giuridiche e politiche tipiche degli stati vengono confuse col sentimento fondamentale di gruppo, fino a chiamare i cittadini a difendere la nazione con la propria vita, come se difendessero le proprie libertà personali e i propri interessi vitali, esattamente come accadeva nell'antica Grecia, dove però lo stato e la patria concidevano con la città, con una comunità, cioè, in cui tutti i membri si conoscevano.

In questa accezione "ideologica", la nazione ha assunto un significato che la distingue sostanzialmente anche dal concetto di popolo: a differenza del popolo, che è un insieme di singoli individui uniti essenzialmente da quella confluenza di interessi che è alla base del contratto sociale, la nazione si è trasformata in una "forza del destino" che incombe sui cittadini e a cui nessuno può sottrarsi, se non con il tradimento.

L'ambiguità del concetto di nazione è all'origine della retorica degli stati nazionali. Questo tipo di retorica è particolarmente infelice perché attribuisce allo stato nazionale i sentimenti genuini che sono tipici della nazione spontanea, con un'operazione tanto scorretta quanto falsa. Un'operazione politica che consiste proprio nel sollecitare sentimenti genuini e atavici per fini che sono di fatto contrari a quei sentimenti.
Per ovviare alle difficoltà oggettive incontrate nel far nascere un sentimento nazionale artificiale, gli stati nazionali si sono impegnati, con gli ingenti mezzi a loro disposizione, per diffondere e sostenere l'deologia nazionale, cercando di superare (anche ricorrendo a mescolanze etniche) le precedenti nazionalità che si trovavano raccolte nei loro territori. Un impegno difficile a cui è stata data la massima importanza attuando piani strategici specifici. Ancora oggi in molti stati, come ad esempio l'Italia, assume importanza decisiva il controllo statale dell'istruzione pubblica, che deve essere comune a tutti i territori dello stato, il servizio militare obbligatorio, le feste pubbliche nazionali, l'imposizione dello stesso diritto amministrativo, il movimento di masse di lavoratori da un capo all'altro dello stato nazionale, ecc. Intere nazioni e popoli vengono distrutti nella loro identità storica, culturale e territoriale in una sorta di genocidio etnico. Un esempio di questo sforzo, e forzatura, è dato dall'adozione di una lingua nazionale da parlarsi ovunque; così in Spagna la lingua nazionale divenne il castigliano, in Francia la lingua d'oil, in Italia il toscano. Gli stati si sono impegnati anche nel reinterpretare la storia secondo la nuova ideologia della nazione.

La sovrapposizione (ideologica) tra stato e nazione non è qualcosa di necessario. Ad esempio, in Gran Bretagna sono coesistite almeno tre nazioni (Scozia, Galles e Inghilterra) in un unico stato; ma nell'Europa continentale, invece, la sovrapposizione è stata totale, forse perché qui gli stati nazionali si sono formati dopo più dure, e a volte interminabili, lotte contro le nazioni spontanee che si trovavano all'interno di quello che sarebbe divenuto il territorio nazionale. Questo è il caso, di sicuro, della Spagna e della Francia. Per questo motivo nel continente europeo gli stati nazionali che si sono venuti a formare sono unitari e centralizzati, con omogeneità (globalizzazione) e concentrazione di potere.

Anche nel mondo attuale è abbastanza facile evidenziare, come ha notato Reinhard Bendix (Stato nazionale e integrazione di classe, 1964), che la formazione degli stati nazionali va di pari passo con i processi di industrializzazione, rappresentando uno scopo molto importante dei gruppi di potere. Si può dire che, per i governanti, ottenere il miglior livello possibile di integrazione sociale significa aumentare il proprio potere e venire incontro alle esigenze di standardizzazione dei prodotti industriali.

Ulteriori sviluppi
L'impossibilità da parte degli stati di sostituire completamente le nazioni spontanee con lo stato nazionale (nazione ideologica) ha fatto sì che si siano mantenute nazioni senza stato. Nonostante gli sforzi profusi, ad esempio in Italia "per fare gli italiani", le nazioni spontanee, pur avendo subito un duro colpo, non si sono ancora cancellate. Questa situazione comincia a creare non pochi problemi alla sopravvivenza degli stati nazionali ed è molto diffusa in tutta Europa. Problema spesso grave, accompagnato da conflitti politici e guerre. Alcune nazioni più recenti, nate dalla riorganizzazione degli assetti territoriali dopo le due guerre mondiali, come ad esempio la Cecoslovacchia e la Yugoslavia, si sono già recentemente divise; la prima pacificamente, la seconda in modo drammatico e cruento, per l'opposizione dei dirigenti di Belgrado a rinunciare alle proprie "colonie".
Inoltre, là dove il concetto di nazione spontanea è venuto meno, si sono creati dei vuoti nei valori politici che lo stato nazionale non è riuscito a colmare. Anche tra quei giovani che hanno perso ogni legame con la tradizione dei loro padri, e che quindi sono di fatto senza patria, ma che hanno recepito i valori nazionalistici, questi hanno assunto un aspetto stereotipato, che si riduce a meno ancora del tifo sportivo.

D'altronde, si può facilmente intuire che le stesse ragioni economiche e di potere che hanno portato alla creazione degli stati nazionali non si fermeranno certo con essi e la tendenza all'unificazione proseguirà oltre, verso i continenti e verso il mondo intero. Così se da un lato gli stati nazionali saranno presto eliminati dalle ulteriori espansioni dell'economia, non accadrà altrettanto per le nazioni spontanee, che riacquisteranno, con la caduta degli stati nazionali, una loro ragione di essere e potranno mostrare ancora tutta la loro vitalità, come di fatto sta già accadendo in molte parti d'Europa.
I gruppi di potere lo hanno capito benissimo e, infatti, si stanno adoperando verso una globalizzazione veloce dell'umanità, in modo da eliminare la nazione nella sua accezione spontanea. Per questo viene favorito, senza eccezioni, il rimescolamento della popolazione mondiale. Convincere però le popolazioni, che per costituzione atavica sono diffidenti verso gli stranieri che vivono nel loro territorio, ad accettare la globalizzazione è cosa difficile; allora si opera una forma di persuasione utilizzando principi morali condivisi da tutti, come la solidarietà e l'amore verso il prossimo. Si ripresenta così la medesima strategia che aveva portato all'affermazione dell'idea di stato nazionale: come l'idea di nazione (stato nazionale, nell'accezione ideologica) faceva leva sui sentimenti genuini della nazione spontanea, così ora si adoperano quei valori morali che sono alla base dell'esistenza del gruppo, come appunto la solidarietà e la carità, per riproporli per l'abolizione dell'identità del gruppo stesso, verso la globalizzazione.

Che questo processo di globalizzazione vada in porto oppure no, non si può dire. Dipende da quanto durerà l'espansione del sistema capitalistico e industriale, e dipende anche da quanto effettivamente le popolazioni siano disposte a rinunciare alla propria identità culturale e storica.

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CHE COSA S'INTENDE PER NAZIONALISMO

Il nazionalismo è l'esaltazione dello stato nazionale, il cui prestigio e gloria richiedono una posizione di predominio nel mondo.
Si tratta di un concetto molto recente e, storicamente, si è manifestato verso la fine dell'Ottocento, divenendo uno dei principali ispiratori delle lotte politiche internazionali.
Sul piano economico, il nazionalismo rappresenta gli interessi dell'industria e del capitalismo nazionali, che vedono nella nazione lo strumento per affermarsi nel mondo, per proteggersi dalla concorrenza estera e per controllare i nemici interni, in particolare le rivendicazioni dei lavoratori.
Come concetto di base, il nazionalismo è già presente, ancor prima della sua manifestazione storica, nella concezione del popolo come elemento di unità della nazione; ad esempio Fichte (Discorsi alla nazione tedesca, del 1808) parla della superiorità del popolo tedesco e Hegel vede nell'affermarsi di una nazione sulle altre il compimento dei destini del mondo governato dalla Ragione universale.

Il nazionalismo trova il suo sostentamento nell'ambiguità dell'idea di nazione (vedere il capitolo precedente). Esso esalta la terra e la patria, il cui orgoglio scaturisce dal senso della nazione spontanea, ma poi indirizza questa esaltazione in una lotta contro le altre nazioni per un prestigio e una gloria che sono solo della nazione ideologica, il che equivale a dire della classe egemone e del capitalismo nazionale.
Sul piano psicologico, il nazionalismo è considerato l'espressione dell'ottimismo delle classi dirigenti che, avendo guadagnato la loro egemonia attraverso la competizione sociale, si sentono un tutt'uno con la nazione, per cui i successi di questa sulle altre diventano modi ulteriori per rafforzare la propria posizione. Ma il nazionalismo trova un fertile terreno anche nelle classi più povere e diseredate, che trasferiscono nei presunti o reali successi della nazione e nella sua gloria le aspettative della vita. In questo senso, serve come antidoto alla miseria e alla mediocrità personali. Il nazionalismo, a questi livelli e in tempo di pace, si alimenta con lo sport, quando vincono le nazionali di calcio, di atletica, o i solitari del ciclismo, degli sci, ecc., con i successi nell'economia, con la produzione culturale, industriale e con mille altri modi, per cui ogni nazione è fiera del proprio sport, della propria economia, della propria cultura, della propria storia, ecc. E quando i governi non possono nascondere gli insuccessi in qualche settore, ce n'è sempre qualcun altro in cui i successi arridono comunque, e in questo i governi non si fanno scrupolo di alterare i fatti e la storia; tutti i governi, indipendentemente dal colore politico.
Per questo aspetto, il nazionalismo è stato considerato uno dei principali elementi di distrazione del popolo dai suoi problemi fondamentali e, quindi, un deterrente all'azione rivoluzionaria.

Il nazionalismo, inteso come volontà di potenza e di espansionismo della nazione, è insito sempre negli stati nazionali ed è, indubbiamente, un'ideologia molto pericolosa, perché fornisce il supporto emotivo necessario alle guerre tra gli stati. Non a torto viene considerato il principale responsabile dei consensi alle due guerre mondiali e delle efferatezze in esse compiute. Il nazionalismo non è stato la causa delle guerre mondiali, ma è stato il principale strumento propagandistico di cui gli stati si sono serviti per trovare consensi all'intervento armato. Questa è la sua vera pericolosità.

I legami tra nazionalismo e razzismo sono evidenti: alla base del nazionalismo c'è l'unità della nazione, intesa come unità del popolo, e il popolo viene identificato con la razza. L'esaltazione della nazione equivale quindi all'esaltazione del popolo e della razza, di una razza sulle altre. Il razzismo, infatti, non è riconoscere le diverse razze umane, ma sostenere che una è superiore alle altre, per cui si può ammettere, in nome della superiorità, ogni forma di sfruttamento, sopraffazione e, agli estremi, anche morte e sterminio. Così di fatto è successo storicamente.

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LA NAZIONE ITALIANA DALL'UNITÀ AL NAZIONALISMO

Il tema dell'unità nazionale italiana sorse in un quadro di grandi trasformazioni economiche e politiche dell'Europa uscita dalla Rivoluzione francese e dal Congresso di Vienna, quando le nuove spinte capitalistiche si trovarono a fronteggiare l'opposizione politica delle potenze restauratrici. La Restaurazione cercò di limitare l'influenza della borghesia occidentale, che reagì, con l'appoggio inglese, aiutando i nazionalismi contro gli imperi (austriaco, russo e turco). In Italia, dopo alcuni tentativi settari falliti, miranti a cambiamenti istituzionali per favorire la borghesia e il capitalismo, fu il Mazzini che pensò di dare più ampio respiro ai gretti motivi economici e di classe, fornendo l'ideale dell'unità nazionale e diffondendo l'idea di fare rivivere le antiche glorie di Roma, per cui all'Italia sarebbe spettato il primato di guida morale e civile del mondo. Furono questi soltanto pretesti a cui Mazzini stesso non credeva seriamente, ma che aveva escogitato nella speranza di coinvolgere le masse all'indomani degli insuccessi rivoluzionari del 1820-21. La popolazione, però, vi rimase sostanzialmente estranea. Grazie comunque agli aiuti francesi e inglesi l'unità fu infine compiuta e l'Austria indebolita. Questo primo nazionalismo italiano fu sostanzialmente di rivolta e ancora non aveva pretese imperialistiche. Successivamente le necessità protezionistiche, sia dell'industria del Nord, sia dell'agricoltura, soprattutto del Sud, convinsero i vari governi nazionali ad adottare politiche sempre più di difesa del nascente capitalismo italiano, fino ad appoggiarlo nei tentativi di imprese coloniali e nella concorrenza con gli altri paesi europei. Era nato il nazionalismo aggressivo e guerrafondaio che, dopo numerosi insuccessi, sfociò nell'impresa di Libia e nella partecipazione italiana alla prima guerra mondiale.
I sostenitori del nazionalismo, che si organizzarono nell'Associazione Nazionalista Italiana, nata dopo un congresso tenutosi a Firenze nel 1910, e poi confluiti nel fascismo, raccolsero, almeno all'inizio, consensi ampi in tutti i settori della politica e tra gli intellettuali (si ricordi, ad esempio, la retorica della "grande proletaria" di cui parlava anche il Pascoli). È stato dimostrato che alcuni di questi intellettuali erano prezzolati dalle industrie monopolistiche, soprattutto siderurgiche e metallurgiche, che finanziarono il giornale L'Idea Nazionale. Il movimento reclamava maggiore dinamismo e intraprendenza da parte del governo in politica estera, sostenendo tesi imperialistiche in aperto contrasto con i trattati internazionali, e chiedeva forme di autoritarismo in politica interna, in modo da contrastare sintomaticamente il malessere dei lavoratori.
Con il fascismo, il nazionalismo italiano raggiunse le massime aspirazioni. Il concetto di lotta di classe dei socialisti, fu trasferito nei rapporti tra le nazioni come lotta delle nazioni povere contro quelle ricche e potenti; l'influenza sull'opinione pubblica fu assicurata dal pieno controllo di tutti i mezzi d'informazione e, soprattutto, dalla conciliazione con la Chiesa, sancita con i patti del Laterano del 1929; l'autoritarismo interno fu possibile con le leggi fascistissime e la dittatura del duce; le imprese imperialistiche videro il massimo trionfo nel 1936, con la conquista dell'Etiopia e la resistenza alle blande sanzioni internazionali. Il fascismo impiegò mezzi e risorse enormi per dotare Roma delle strutture degne di una grande capitale imperiale: le glorie di Roma antica sembrarono risorte; ma soprattutto si adoperò per creare le strutture dell'amministrazione dello stato, potenziando la burocrazia e il centralismo per controllare ogni attività politica, economica e sindacale. Ma oltre la retorica di regime e la tracotanza politica, le basi del nazionalismo furono poco salde e quando scoppiò la seconda guerra mondiale tutte le contraddizioni e le fantasie vennero alla luce, fino alla rapida disfatta finale.
Dopo la seconda guerra mondiale, le potenze vincitrici cercarono di ridimensionare, per ovvi motivi, ogni velleità nazionalistica e imperialistica dell'Italia e, nello spirito della collaborazione e della ricostruzione postbelliche, ai governanti italiani s'impose l'abbandono degli emblemi più vistosi del nazionalismo, compresa la retorica dell'unità e la troppo ostentazione della bandiera e dell'inno nazionale.
Condannato dalla sinistra come espressione del capitalismo guerrafondaio e considerato il principale strumento degli interessi della borghesia, il nazionalismo (e non solo quello italiano) fu accusato, e giustamente, di avere portato il mondo intero nel baratro delle due guerre mondiali, dove furono commessi crimini, in nome delle patrie, di un'efferatezza incredibile e mai vista prima.
Le giovani generazioni, nate nel secondo dopoguerra, impararono presto a fare a meno dei valori nazionalistici, e perfino le generazioni di prima della guerra, che erano scese in massa nelle piazze ad acclamare i comizi del duce e la gloria della patria, non tardarono a dimenticarli.
Del resto tali valori, anche se voluti e alimentati dalla classe egemone, non si erano mai radicati troppo nella popolazione italiana, nonostante la retorica risorgimentale e gli impegni in tale direzione assunti dal fascismo. Probabilmente millenni di storia non unitaria non si cancellano facilmente con le imposizioni di governi autoritari. Sia la storia d'Italia, mai stata unita (anche ai tempi dell'impero romano, quando i confini geografici dell'Italia compresero per la prima volta la Gallia Cisalpina, non si poteva certo parlare di Italia unita), sia le problematiche sociali, legate all'internazionalismo socialista e sindacale, ma anche alla politica sociale della Chiesa, che fino al 1929 era stata l'acerrima nemica dell'unificazione nazionale, sia la realtà culturale ed economica, sia gli insuccessi bellici, impedivano di fatto che l'unità nazionale fosse davvero sentita come un valore da difendere e di cui andare orgogliosi. Ancora oggi quelle generazioni, anche se non condividono forme secessioniste, si sentono quanto meno imbarazzate di fronte alla rinascita della retorica sull'unità nazionale.
Fu solo con gli anni Ottanta che le velleità nazionalistiche tornarono timidamente alla luce, durante i governi Spadolini e Craxi, più con gesti simbolici che concreti, come quando fu cambiata la sigla di apertura e chiusura delle trasmissioni televisive, introducendovi l'inno nazionale e i colori della bandiera, o quando successe il fatto di Sigonella, impensabile appena cinque anni prima. Piccole cose che trovarono, a quarant'anni dalla fine della guerra e nell'era della perestroica sovietica, la completa disattenzione internazionale, quando uno stato italiano più indipendente, più forte e più presente nelle vicende internazionali non era da considerarsi ormai un pericolo o un ostacolo per gli equilibri nel Mediterraneo.
Nello stesso tempo, però, il riemergere di antichi sentimenti di identità nazionale dei popoli (nazioni spontanee) che erano sopravvissuti alle forzose risistemazioni etniche e territoriali dell'Europa dopo entrambe le due guerre mondiali, in particolare la nascita di nuove nazioni, come la Croazia, la Slovenia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, le tre repubbliche baltiche, ecc. facevano pensare a un diverso nazionalismo, più genuino e regionale, più vicino alle realtà dei popoli e più lontano dagli interessi nazionalistici del capitalismo di vecchio stampo. Inoltre la concreta possibilità del costituirsi di una Europa unita, lasciava sperare ai più in un graduale abbandono non solo dei nazionalismi, ma anche delle attuali entità nazionali, a favore di una Europa dei popoli. Se da un lato, cioè, l'idea di Europa unita toglieva importanza agli stati nazionali, dall'altro ne conferiva alle realtà regionali, quindi ai popoli che queste nazioni spontanee rappresentavano.
Si trattava di una svolta epocale a cui non mancarono forti opposizioni, specialmente tra quei settori del capitalismo non ancora pronti a una realtà continentale e bisognosi sempre della protezione del proprio Paese in tema di misure economiche. Ancora oggi, comunque, nonostante i freni e le difficoltà del Trattato di Maastricht, l'idea generale è che si arrivi lo stesso a un'Europa unita e a un'Europa dei popoli, non degli stati nazionali, e si ritiene che questa tendenza faccia parte dello sviluppo delle cose, della cultura e, soprattutto, dell'economia. Che gli stati nazionali abbiano fatto il loro tempo, e che saranno gradualmente ridimensionati, se non spazzati via, dalle vicende storiche, è un'idea diffusissima.
In molti paesi europei il federalismo è già una realtà di fatto. Non solo la Germania e la Svizzera, ma anche stati tradizionalmente unitari, come la Spagna, hanno già rinunciato al centralismo statale.

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Fine
© Copyright 1997 by Enrico Barsanti
Prima edizione su Internet: 12 ottobre 1997



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