Quale teologia in M. Heidegger

Provocazioni a partire da qualche testo

 

Sul sentiero del non-obbiettivante... - .... La via per la teologia. - Ricomincia il Weg! - Conclusione - Bibliografia

 

Introduzione

Il problema del tempo segna profondamente la filosofia di Heidegger, ne delimita il cammino come inizio e come sua fine. La parola tempo o la parola del tempo trasforma la lingua introducendovi la forza stessa della sua grazia, del suo divenire. L’insistenza del ripetersi inquieto della parola decide lo statuto della filosofia quando essa comprende il tempo a partire dal tempo, quando raccoglie le sue forze per illuminare con questa parola l’intero volto dell’universo. Si ripresenta l’immagine abilmente tratteggiata da Plutarco: nella piana della verità regna l’eternità e da qui, il tempo, come emanazione, si dirige verso i monti.

La stessa visione, liberata dal contesto platonico, sembra diluirsi nel pensiero di Heidegger come una testimonianza della ricerca delle origini. Dal tempo, infatti che pervade le cose, le parole e l’uomo intero, egli risale alla comprensione del senso dell’essere per scoprirne la relazione, poiché questi si determinano reciprocamente: come il tempo accadendo, parla attraverso l’essere, così pure l’essere, in quanto presenza, parla attraverso il tempo. E certo quello della parola ripetuta e meditata non è il tempo della coscienza, né è il recinto in cui costringere passato presente e futuro.

Ma dove rin-tracciare l’unità di queste tre dimensioni temporali? Heidegger chiama quest'unità la quarta dimensione in cui scorre il tempo autentico dell’essere. Ancora viene da chiedersi: dove è situata quest'unità? Se il cielo e la terra i divini e mortali, fossero solo nello scorrere del tempo, si lacererebbero nella distanza del fluire del tempo che frantuma lo spazio. Queste quattro dimensioni sarebbero una di fronte alla altra, immobili e mobili, sferzate dalla distanza spaziale in-generata dal tempo. Sarebbero monadi vaganti destinate a non incontrarsi. Qualcosa dunque tiene unite le quattro dimensioni del mondo nel loro continuo giungere alla parola: l’unità del tempo e dello spazio non conosce movimento,è nella quiete e questa avvicina la terra al cielo, i mortali ai divini, sopprime la distanza, è motivo di incontro di ciò che si allontana. Questa unità dona quindi la prossimità che si dona all’uomo, lo ha già sempre raggiunto e l’uomo è tale non solo se si distende nelle dimensioni del tempo, ma anche se si raccoglie nella loro unità.

Percorrendo questo Holzweg, attraversandolo, voglio scorgere le possibilità di incontro, di compatibilità tra la filosofia heideggeriana e la teologia, convinto che fede e ragione non si escludono e tanto meno si combattono, convinto ancora, che una filosofia che lasci dire Cristo non è un "ferro legnoso" ma un’interrogare che trova rafforzate le sue fondamenta per indagare l’oltre-umano rimanendo nella sua autenticità. Dove Cristo viene a svelare l’eternità perché da Parola di Dio che era si è fatto Parola di Dio per tutti gli uomini in Gesù di Nazareth.

Rimanendo in questi sentieri mi sposterò sempre più verso la ricchezza svelantesi del linguaggio simbolico fino a trovare nel dire non-obbiettivante la via per una teologia.

Ancora rimarrò in questo nuovo sentiero per ascoltare se mai ci fosse una traccia del dire salvifico del mio Dio. Ho scelto di rimanere negli Holzwege per attraversarli anche quando all’improvviso ti cessa il sentiero davanti. In questo bivio di infinite strade tutte da ri-tracciare ho posto il Croce-Via della mia fede...

 

 

Sul sentiero del non-obbiettivante...

" Forse siamo nel momento in cui la notte del mondo va verso la sua mezzanotte" (1)

Siamo giunti nel folto del bosco, il sentiero si è perso, svanito nella con-fusione del pensabile. E’ questo il momento decisivo; l’ennesimo Holzweg termina davanti, non accompagna più, ci lascia in tronco. Questo cessare dell’essere portati è l’inizio del pensiero che non poggia su un basso né tende verso un alto, che non getta ponti proiettivi, non è determinato. Origine ha nome questo pensiero che non è una re-praesentatio, che non conosce più l’abstans. Nel folto dove nulla di tracciato c’è dinanzi, ci si perde-raccolti in un orizzonte onni-abbracciante, indefinito e generale del pensiero. Ma può bastare?

Può il pensare giocare nella fissità dell’identico? O cosa rappresentarsi? Il pensiero che ascolta l’essere può tornare solo a dire fÚsij, lÒgoj, enrgeia, Ida, rappresentando un nuovo atto della tragedia dell’Essere antico?

Siamo dinanzi ad una tensione bipolare: l’universale trascendenza dell’Essere e il nostro dasein esigerebbero il silenzio rispetto a questa impensabile e intracciabile continuazione dell’Holzweg. Eppure entrambi impongono che questo silenzio aurorale sia rotto, che venga a una parola, che spezzi lo sforzo della tensione, che sia annuncio di relazione, che affoghi l’angoscia nell’erompere del mattino. Ma "parola" rievoca ancora la determinatezza dell’ente, in qual modo non sarà una re-praesentatio, come non sarà soffocata in gola dal silenzio privo di voce?

A questo punto Heidegger ci aiuta a rintracciare il retto sentiero. Infatti egli distingue tra un dire funzionale alla rappresentazione e un dire valido per se stesso in quanto trasparenza dell’Essere.

" Quando ci rapportiamo all’ente rappresentandocelo e producendolo, ci rapportiamo ad esso anche dicendolo; ma tale dire non costituisce ciò a cui tendiamo. Il dire funge qui semplicemente da via e da mezzo. Ma di contro a questo dire ne esiste però un altro che accede esplicitamente al detto, senza con ciò "riflettere" sul linguaggio, nel qual caso ne farebbe un oggetto.[...] il dire più dicente, proprio dei più arrischiati, è il canto (Gesang). [...] Il loro canto al di sopra della Terra salva. Il loro canto celebra l’integrità della sfera dell’Essere. [...] La salvezza evoca il sacro. Il sacro congiunge il divino. Il Divino avvicina Dio."(2)

Più avanti sarà più preciso riguardo al farsi presente dell’essere.

" Appena si parla di essere presente , l’immaginazione corre ad un esser-presente. Così l’esser-presente come tale risulta non distinto dall’esser-presente ed è risolto nel più universale e nel più alto degli essenti-presenti, cioè in un essente-presente. Cade così nell’oblio l’essenza dell’esser-presente e con essa la differenza fra esser-presente ed essente-presente. L’oblio dell’essere è l’oblio della differenza fra l’essere e l’ente. Ma l’oblio di questa differenza non è affatto la conseguenza di una negligenza del pensiero. L’oblio dell’essere rientra nell’essenza dell’essere stesso, velata in se stessa. Esso rientra così essenzialmente nel destino dell’ essere [Geschick des Seins] che il mattino di questo destino incomincia come svelamento dell’esser-presente nel suo esser-presente."(3)

Quindi per cogliere la presenza, che in quanto trasparenza, è ad un tempo rinvio e trascendenza, bisogna cogliere nell’ente una relazione forte. Proprio "questa relazione", che dice differenza, è illuminante per pro-seguire la traccia già tracciata del sentiero del dire non-obbiettivante (4). Siamo portati nell’orizzonte comprensivo del Geviert, dove la parola dei quattro, cielo e terra, divini e mortali, non è più strumento, ma è parola che vale in sé che lascia venire il rinvio all’Essere. Parola che è nominazione del Sacro, danza, vento dolce soffio che in-fluisce nel canto della poesia (5). Ricamminare il Weg della poesia non è pertinente al tema da trattare. Però di buona rilevanza è il discorso sul linguaggio non obiettivante che Heidegger fa nel saggio sulla teologia (6).

" Se per esempio noi siamo seduti in giardino e ci godiamo il profumo delle rose in fiore, non facciamo delle rose un obietto e nemmeno un oggetto, qualcosa cioè di tematicamente rappresentato. Se in silenzioso dire sono del tutto abbandonato al rosso splendore della rosa e rifletto all’essere rosso della rosa, allora questo essere rosso della rosa non è né un obietto, né una cosa, né un oggetto così come la rosa in fiore. Questa sta in giardino, magari oscilla al vento. Eppure io vi penso e ne parlo in quanto la nomino. C’è perciò un pensare e un dire che non ha alcun carattere obiettivante né oggettivante".(7)

Ma è possibile davvero un pensare che non obbiettivi, che non costruisca ponti per raggiungersi nella cosa antistante? Questo oggettivare nel senso dell’Obiekt è il sostrato del pensare odierno intriso di sapere scientifico, dove il pensiero vaglia, misura, calcola. Siamo ormai abituati a un pensiero che rappresenta, che astrae ed estrae che della relazione fa un rapporto. Come si può allora pensare o addirittura muoversi senza un obstans?

Heidegger rileva che oggettivante può essere solo il sapere scientifico (e comune aggiungerei) ma non ogni pensare é tale. Non tutto nel dire é rappresentabile proprio come l’essere rosso della rosa che non ha un qui e un là, un prima o un poi (... apre forse a un "eterno precipitare?"). Esso con-viene al mio raccoglimento e abbandono nella rosa. E` proprio il con-venire portatore della relazione vera; infatti non è né un oggetto né un soggetto, è semplicememte l’essere di una relazione. Ancora qui il con-venire è caratterizzato da un movimento ec-statico che mantiene tutto il senso comune, un co-appartenersi in una affinità di contrasti, comunioni e distanze. L’esperienza della relazione che non è fermata in un punto, temporale e spaziale, è l’esperienza dell’Essere stesso, originario e originante, nel suo differire che raccoglie, nel suo darsi e nascondersi. L’Essere così inteso si sfuma nel sacro e il sacro, così emergente, viene alla parola del divino.

Parola che e-viene nel cuore del poeta e trasforma nel suo dire (8) l’ente-in-quanto-tale, in trasparenza dell’Essere inteso come Altro. E` chiaro quindi che il linguaggio non-obbiettivante non può prescindere dal mondo comune, anzi in esso opera un mutamento di tipo intenzionale. Sarebbe assurdo, non poter pensare senza spazio e tempo e dovere sempre e solamente trascendersi per evitare del tutto il mondo della rappresentazione. In quest’ottica di diversità intenzionale

"Il cantare non è altro che un soffio. Un soffio per un nulla. Un sospiro in Dio. Un vento" (9). Qui il cantore è l’esserci e l’esserci è quello dei poeti che sono " i dicenti più dicenti ".

" Il dire del cantore dice l’intero intatto dell’esistenza, che invisibilmente si distende nella spaziosità dello spazio interiore del cuore. Il canto non è la ricerca di ciò che deve esser detto. Il canto è l’appartenenza del tutto al puro Bezung. Cantare è essere attratto nel vento dell’inaudito centro della piena Natura. Il canto stesso è «un vento»".

Heidegger cita Herder:

" Un soffio della nostra bocca diventa il quadro del mondo, l’impressione dei nostri pensieri nell’anima degli altri. Dal moto di un soffio dipende tutto ciò che sulla terra gli uomini hanno pensato, voluto e fatto, e ciò che faranno di umano; tutti noi ci aggireremmo ancora nelle foreste se questo soffio divino non ci avesse avvolti nel suo valore, e non pendesse dalle nostre labbra come un suono magico ( WW., Suphan, XIII, pp.140 ss. )" (10).

Sembra quasi che l’uomo partecipi alla Ruah creatrice di Jahvè. Sembra che ci si avvicini al tema del flebile vento che, per Elia (11),è epifania di Dio. Ancora questo intreccio di presenza ed assenza, rimandano al crescere silenzioso e modesto, quasi nascosto, del Regno annunciato da Gesù Cristo.

«Il Regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o do giorno, il seme germogli e cresce; come, egli stesso non lo sa» (Mc IV, 26-27). Il regno di Dio, il compimento del suo disegno riesce silenziosamente, per vie che non ci sono perfettamente note, avvolte dal silenzio e dal mistero. Il suo manifestarsi ha in sé la forza di farlo ri-uscire, come un soffio carico di senso però.

Qui, concordemente con quanto scrive G. Lorizio (12), emerge la dimensione neo-pagana di Heidegger, specialmente dopo la Kehre, dove cristianesimo ed ellenismo si fondono. Siamo davanti ad un pensiero «paradossalmente post- e pre-cristiano» (13). Così Heidegger immerge la Parola-creatrice del cristianesimo nel ritmo della danza ellenizzante, elemento la danza, che tale dottrina ha perso irrigidita nella segnaletica del suo esser «via», raggio di Eternità (14).

Ora guardando indietro scorgiamo la continuazione dell’Holzweg dal punto del suo «naturale» cessamento. Andando avanti ci siamo addentrati nel folto della cifra simbolica che ha determinato una diversificazione intenzionale, ove alla re-praesentatio ha preso posto la trans-parenza. In quest’ottica il linguaggio viene come l’alternarsi del disvelamento e nascondimento del divino che si muove in esso. La parola è divenuta così forte rimando all’Altro non-obiettivabile. E` questa la traccia che ci porta sulla via della specificità teologica.

Ma la struttura cromosomica di questa traccia va ordinata e selezionata per il suo mantenimento costante nel tempo. Infatti la sua matrice, il linguaggio poetico, è per sua natura polisenso; tale molteplicità non porta all’ambiguità se, in quanto concepita nell’ente, apre lo spazio al Sacro che in Teologia cristiana trova il positum in Cristo (15). Forse si può intendere in questo senso ciò che Heidegger dice riguardo alla sua ricerca esegetica nel suo In cammino verso il linguaggio:

"Senza questa provenienza teologica mai sarei giunto sul cammino del pensiero. Ma la provenienza resta sempre un futuro" (16).

Certo se si rimane vaganti nella sacralità degli Holzwege si rischia, come dice Scholem (17) a proposito della lingua ebraica, che:

"Questa lingua sacra di cui vengono nutriti i nostri figli [costituisca] un abisso che non mancherà un giorno di spalancarsi... [Così vivremo] all’interno della nostra lingua simili a ciechi che camminano sull’abisso. Ma nel momento in cui ci viene restituita la vista non precipiteremo in quel momento al fondo dell’abisso?" (18).

.... La via per la teologia.

Questo cammino di rintracciamento ha fatto riemergere la via, la traccia per con-prendere meglio il

riferimento costitutivo della teologia. La via per la teologia è il suo proprium e come dice Heidegger in Fenomenologia e teologia, il suo positum è il Dio crocifisso e la fede in questo evento (19); tale fede apre alla rinascita e ci sposta sul suo persistente futuro.

Essendo Cristo una persona realmente vissuta, la teologia ha una valenza fortemente storica e avendo quindi un positum la teologia è una scienza positiva. Essa ha il compito di rendere sempre più trasparente l’evento cristiano in quanto nasce dalla rivelazione del nome di Cristo - inteso come presenza del divino nella storia. E` chiaro che la teologia, in questo senso, pur se scienza, ha un valore principalmente ermeneutico (20).Ma in che senso allora é scienza? Heidegger risponde in modo molto problematico; quindi riporto le sue parole:

" Dove stia il limite della scientificità della teologia, cioè fino a che punto giunga e possa giungere l’esigenza di una trasparenza concettuale da parte della credenza stessa senza uscire dalla fede, è certo un problema tanto centrale quanto difficile [...] La concettualità autentica della teologia può scaturire solo da se stessa. Ma per estendere e garantire i suoi procedimenti dimostrativi, non ha affatto bisogno del prestito di altre scienze, né può tentare di rafforzare o anche giustificare l’evidenza della fede col ricorso alle conoscenze di altre scienze. Piuttosto la teologia stessa è fondata dalla fede, anche se le sue asserzioni e dimostrazioni esprimono formalmente la libera attività della ragione" (21).

Siamo ora di nuovo dinanzi a un bivio, un aut-aut. La divaricazione è chiara: o la fede o la ragione, «Dov’è il sapiente? dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?» (1cor I, 20). Con Heidegger nelle parole di S. Paolo riecheggia il motto luterano Sola Fides. Diventano una spada di Damocle che preclude l’accesso della verità di fede alla ragione, tanto che bisognerebbe «fermare lo studio» dinanzi all’interpellanza della fede (22).Questa divaricazione sembra attutita quando Heidegger, chiudendo il seminario Christlicher Glaube und Denken, pur ancora ricusando il concetto metafisico di Dio era propenso per uno sviluppo non metafisico e non-obiettivante della teologia. Ci sarebbe una specie di analogia tra il filosofare esistenzialistico e la teologia: come il pensare filosofico si rapporta al darsi dell’essere, così il pensare della fede si rapporta alla Parola.Ma non siamo ancora nella divaricazione? Siamo ancora dinanzi al crocevia; in pieno aut-aut. Infatti l’«Io Sono» di Esodo III,14 non è facilmente identificabile con l’Es ist del Sein heideggeriano. Il primo è il Dio personale di Israele e dei cristiani, il secondo è l’ist sacrale cui si dischiude il divino. Chiara é la discrasia tra i due: Dio è Colui che si comunica per Amore, l’Essere é avvolto nel sacro che ancora non sa dire Dio. L’essere come divino è semplicemente il tempo che si ascolta, che attende l’incontro col Dio perduto (dimenticato). L’Essere attende di essere Salvato. Ci sarà quest’incontro salvifico?

Provo a rimarcare la positività di quest’ennesimo Weg. Filosofia e teologia quando si avvicinano sono come una paradossale foce dove le acque dell’una e dell’altra si toccano e non si mescolano. Si co-appartengono.

Ricomincia il Weg!

Allora la filosofia è co-adiuvante della teologia perché l’analisi dell’umano Dasein costituisce una comprensione non definitiva, ma preliminare per la coscienza cristiana e per l’intelligenza della sua autenticità.

"Così, per esempio, il peccato è visibile solo nella fede, e soltando il credente può esistere realmente come peccatore. Se però il peccato[...] deve essere spiegato sul piano teologico-concettuale, è il contenuto del concetto stesso, e non qualche inclinazione filosofica dei teologi, a richiedere il recupero del concetto di colpa. La colpa, però, è un’originaria determinazione ontologica dell’esistenza dell’esserci. Quanto più originaria, più adeguata e ontologica nel senso autentico è, in generale, l’illuminazione della costituzione fondamentale dell’esserci, quanto più originariamente, per esempio, è afferrato il concetto di colpa, tanto più chiaramente può funzionare come filo conduttore per la spiegazione teologica del peccato" (23).

Comunque Heidegger insiste dicendo che la filosofia è solo un correttivo per i caratteri della fede che possiamo definire di pre-credenza. La filosofia rimane indispensabile alla teologia per la sua dignità scientifica pur essendo sua «nemica mortale» proprio perché la fede fermerebbe, come si diceva, il pensiero per aprirlo alla contemplazione. Ancora ritorna il limite tra una filosofia che non sa dire Dio e una teologia che non può dire il suo Dio col divino heideggeriano. Rimane da dire che però proprio questa irrelazione tra il divino e il Dio di Gesù mette in guardia la teologia a mantenere le distanze tra il primo e il secondo nel rendere ragione della fede che l’alimenta. Infatti quale salvezza ci potrebbe venire dall’Ab-grund sacrale del divino? Basta il dio dei poeti a salvarci dalla nostra condizione di gettati su una terra straniera? Potrebbe far compagnia alla nostra solitudine in questo cosmo indifferente? Sarà la meta di questo nostro pro-gettare peregrinante? «Forse solo un Dio ci può salvare!» Un Dio-Persona, una Mente, un CUORE.

 

 

Conclusione

Pare che a questo punto riecheggino nella ir-relazione tra la filosofia di Heidegger e la teologia le tematiche, già presenti nella prima, della temporalità dell’anima e la sua estraneità dal mondo. Non sono queste due grandi metafore gnostiche? Non forse grazie ad Heidegger che si ri-propongono con tutta la loro secolare forza? Non è più questo il tempo del pensiero che calcola, di cui la scienza è espressione eminente, ma del pensiero che ringrazia che, rinunciando però ad ogni finalità costruttiva si offre come risposta ad un Appello?

Concludo con questi interrogativi, vogliono essere una pro-vocazione non tanto al mondo pensante, infatti sono piste già battute, ma alla mia fede in Gesù Cristo unico Signore Via, Verità e Vita della mia esistenza.

 

 

 

Bibliografia

M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, (a cura di N. De Feo), La Nuova Italia, Firenze 1974.

M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio (a cura di A. Caracciolo), Milano 1979.

M. Heidegger, Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 19916.

G. Lorizio, La Rivelazione fra Teologia e Filosofia in alcune figure del pensiero post-moderno, estratto da Lateranum, 61 (1995) 273-314.

F. Rosenzweig, La stella della redenzione, (a cura di G. Bonola), Marietti, 359-405.

S. Mosès, La storia e il suo angelo, Rosenzweig, Benjamin, Scholem, trad. it. di M. Bertaggia, Anabasi, Milano 1993.


1. M. Heidegger, Sentieri interrotti, trad. it. di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze, 19916, 249. D’ora in poi SI.

2. SI, 292-295-296.

3. SI, 340.

4. Cf. SI, 341.

5. Cf. Perché i poeti?, in SI, 245-297.

6. Cf. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, (a cura di Nicola De Feo), La Nuova Italia, Firenze 1974. D’ora in poi FT.

7. FT, 44

8. Qui il lšgein è da intendersi, come osserva heidegger, nel significato di dire-pensare.

9. SI, 294.

10. Ib.

11. Cf. I Re XIX, 12-13.

12. Cf. G. Lorizio, La Rivelazione fra Teologia e Filosofia in alcune figure del pensiero post-moderno, estratto da Lateranum, 61(1995) 273-314.

13. Ib., [ 287] 21.

14. Cf. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, (a cura di Gianfranco Bonola), Marietti, 359-405.

15. Cf. FT, 9-11.

16. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio (a cura di A. Caracciolo), Milano, 1979, 89-90.

17. S. Mosès, La storia e il suo angelo, Rosenzweig, Benjamin, Scholem,trad. it. di M. Bertaggia, Anabasi,Milano, 1993, 261-263.

18. Lettera del 1926 che Gershon Scholem scrisse a F. rosenzweig, in S. Mosès, La storia e il suo angelo, Rosenzweig,Benjamin, Scholem, cit. Corsivo nostro.

19. Cf. FT,12-14.

20. Qui potrebbe stupire che Heidegger annoveri la teologia tra le scienze positive che si occupano dell’ente. Bisogna chiarire che Heidegger non intende la "positività" alla stregua delle scienze naturali; infatti quando avvicina la teologia più alla chimica e alla matematica che alla filosofia, non lo fa riferendosi ai contenuti ma alla positività di queste scienze. Egli ha fondato il proprio giudizio nel rinvio al momento costitutivo della cristianità. Ora in questo senso non ha voluto neanche escludere la possibilità di una teologia sistematica: ne ha anzi ribadito la necessità pur ritenendola sui generis, in quanto riflessione che parte sempre dall’evento della Croce.

21. FT, 22-23.

22. Conviene rilevare che l’origine teologica di Heidegger va cercata, non tanto nel breve alunnato teologico a cui egli stesso accenna, quanto alla sua frequentazione dell’esegesi luterana e della tradizione mistica nata con Eckhart.

23. FT,27.