| Condizioni spirituali dellIndia ai tempi di Buddha | La vita di Buddha | I testi | La dottrina | Lottuplice sentiero | |
| Considerazioni sopra la dottrina del Buddha | La Comunità | Il Piccolo Veicolo e il Grande VeicoloI | Conclusione | Bibliografia | |
Condizioni spirituali dellIndia ai tempi di Buddha
Tra il VIII e il V secolo a.C. lIndia attraversò una profonda crisi religiosa. Due forze, diverse nella loro origine e nella loro natura, concordavano nello scuotere lantico tronco del Brahmanesimo: la rivoluzione dottrinale capeggiata dagli Ksatriya e la pressione dei culti e delle credenze popolari, che aspiravano a ricevere il crisma dellortodossia da parte dellaristocratica religione ufficiale. Gli Ksatriya opponevano alla dottrina del Brahman, forza universale indefinita e indefinibile, la meditazione duna realtà più immediata, il "sé", lAtman, e contro lo strapotere ritualistico della casta sacerdotale, che aveva distorto in atto di magia lazione sacrificale, cercavano nellinteriorità di ciascuno lalimento e la radice stessa della vita religiosa.
La casta brahmanica riuscì a conciliare la dottrina del Brahman con quella dellAtman, identificando lAssoluto nel Brahman-Atman. Questa identificazione, però, diede nuove dimensioni al problema escatologico, il quale simpose con maggiore urgenza che nel passato.
Se, nella sua essenza, lAtman è identico al Brahman, perché se ne distacca, diventando così principio vitale dellindividuo? E in quanto principio vitale dellindividuo, che cosè lAtman? Quale ne è il destino dopo la morte? Si afferma che lAtman individuale tende naturalmente a ricongiungersi al Brahman, dal quale ha avuto origine; ebbene, dopo la morte, lAtman realizza sempre questo ricongiungimento? E lo realizza sempre, come si spiega il sorgere di nuove vite? Se non sempre lo realizza, se anzi la maggior parte degli Atman individuali resta incatenata alla realtà fenomenica, che cosa li tiene lontano dal loro scopo finale? Quale forza li spinge a dar origine a nuove vite?
Le risposte a questi interrogativi furono trovate nellantichissima credenza non ariana del samsâra, il ciclo senza fine delle nascite, delle morti e delle rinascite. La forza che incatena lAtman al samsâra è il karman, leffetto di ogni atto, di ogni pensiero, buono o cattivo, consapevole e inconsapevole, di cui lindividuo deve rendere conto. Solo dopo lestinzione dei karman lanima può evadere dal ciclo delle rinascite.
Le leggi del karman e del samsâra entrano, così, nel credo dei Brahmanesimo accanto allaccettazione dellautorità dei Veda e dei sistema sociale delle caste. Intanto una grande rivoluzione è avvenuta: il centro di gravità della religione indiana si è spostato da Dio alluomo. Di conseguenza, le preoccupazioni metafisiche vengono sommerse da quelle escatologiche. Mentre il divino sfuma nelle astrattezze del Brahman-Atman, simpone con drammatica urgenza il problema del dolore, della sofferenza e del destino individuale delluomo. La vita è dolore, e questo dolore si rinnova infinitamente nelle successive rinascite. Di qui laspirazione a spezzare il cerchio dei samsâra. La ricerca duna via di salvezza, che assicuri la liberazione definitiva della forza costrittiva dei karman, diviene loggetto della speculazione filosofica indiana. Ben sedici scuole si travagliano in questa ricerca, e gran parte di esse rompono i ponti con la tradizione vedica e con lazione mediatrice della casta sacerdotale. Tutto diviene problematico, ogni credenza viene posta in discussione. A somiglianza di quanto avverrà nella Grecia degli ultimi tempi, nel pensiero indiano si dileguano la capacità e la fiducia di conoscere le verità supreme e, nel dilagare della sképsis, i sistemi si giudicano dalla loro utilità pratica.
Le vie di salvezza, proposte da scuole filosofiche e da sette religiose, si moltiplicano. Quale di esse dà sicuramente la liberazione? Le vie intellettualistiche del Sâmkhya e del Nyâya oppure il piacere dei sensi esaltato dal sistema Carvâka? Lascesi dello Yoga oppure la severa mortificazione del corpo praticata dai giainisti?
Anche la casta brahmanica, adeguandosi alle esigenze spirituali del momento, propone la sua via: ogni uomo, se compie perfettamente il sacrificio interiore (e non più soltanto quello rituale), se cioè arriva a realizzare per esperienza personale lidentità del "sé" con lAssoluto, può evadere dal samsâra. Ma quanti possono e sanno realizzare tale identità? Ma, poi, tale identità è effettivamente realizzabile? Ammesso che lo sia: chi può affermare con certezza di aver raggiunto lAssoluto e di essere così sfuggito alle vicissitudini delle esistenze cicliche?
Questi problemi spirituali travagliavano lIndia, allorché a Kapilavastu, nel Nepai, nacque Siddharta Gautama (o Gotama), il futuro Buddha.
E difficile ricostruire storicamente la vita del fondatore del Buddhismo, giacché la sua biografia e la stessa cronologia affondano in tradizioni chiaramente leggendarie. I documenti che possediamo sono posteriori anche di parecchi secoli agli eventi storici narrati e presentano tali incrostazioni di elementi mitologici che impresa ardua è il tentativo di riconoscervi, tra storia e leggenda, la vicenda terrena del Buddha.
Nel recente passato, fra gli studiosi occidentali, non è mancato chi ha negato del tutto la storicità di Siddharta Gautama; ma oggi lesistenza di un Buddha storico non viene più messa in dubbio. In quanto alla sua biografia, se ne può tracciare una, purché ci si accontenti di una narrazione sobria ed essenziale, basata sulle concordanze dei testi più antichi, quali il Canone Pali, le Cronache di Ceylon e le opere in sanscrito.
Siddharta Gautama nacque intorno allanno 560 a.C. da una famiglia principesca della tribù ariana dei Sâkya. (Anche il Buddha, come Mahavira, il fondatore dei Giainismo, e come i rappresentanti delle scuole filosofiche, apparteneva non alla casta dei brahmani ma a quella dei guerrieri). Dal nome del suo clan, Gautama fu più tardi chiamato Sakyamuni, ovvero "il saggio dei Sâkya".
Vivendo nel palazzo di suo padre, ricevette uneducazione adeguata al suo rango. Cresciuto che fu, sposò una nobile fanciulla dalla quale ebbe un figlio.
Fino alletà di 29 anni la sua vita fu quella comune ai giovani aristocratici del tempo. Ma, giunto alle soglie della maturità, il principe Siddharta fu profondamente turbato dalla vista delle miserie umane e fu totalmente assorbito dal problema del dolore. La leggenda narra che, malgrado le precauzioni del padre, il quale voleva che a suo figlio fossero evitate le impressioni deprimenti, il destino o la volontà degli dèi fece sì che, in breve tempo, gli si parassero davanti dapprima un vecchio decrepito, quindi un malato, finalmente un morto e un asceta consumato dalle astinenze. Nei quattro personaggi della leggenda vediamo simboleggiati i mali maggiori dellumanità: la decrepitezza, la malattia, la morte la sofferenza (anche quella volontaria).
Allora il temperamento religioso del principe si manifestò in pieno: egli abbandonò la famiglia, per adottare la vita dellanacoreta errante, alla scoperta duna via di liberazione. Dapprima si fece discepolo di due brahmani asceti, i quali lo istruirono nella loro dottrina e nelle loro discipline; poi si ritirò con cinque compagni in una foresta e iniziò una lunga serie di digiuni severi di esercizi di meditazione e di mortificazioni tremende. Ma né linsegnamento delle Upanishad né le mortificazioni ascetiche lo soddisfecero. Gli parve che, a curare i mali delluomo, non valessero né le interminabili disquisizioni dei filosofi né le crudeli macerazioni ascetiche, valide, queste, tuttal più a ingenerare, assieme alla debolezza del corpo, anche la stanchezza dello spirito.
Decise allora di abbandonare i compagni, per tentare tutto solo unaltra strada, quella della contemplazione e della meditazione silenziosa. La leggenda narra che, durante questa nuova esperienza, Gautama fu più volte assalito da Mara, lo spirito dei male, che invano cercò di farlo recedere dalla sua decisione. Questo particolare leggendario sottolinea che il travaglio interiore di Gautama non fu privo di tentennamenti e di prove: solo dopo una strenua lotta spirituale egli riuscì ad abbandonare le vecchie credenze e a cercare metodi nuovi. Finalmente, alletà di circa 35 anni, Gautama raggiunse il suo "Risveglio", Lilluminazione personale, la Bodhi, e divenne così il Buddha, lilluminato, il Ridesto.
Nella città di Benares tenne il suo primo sermone sulle "quattro nobili verità" che aveva intuito nella Illuminazione. Il sermone gli attirò i primi cinque discepoli, che costituirono il nucleo iniziale della Comunità. Da quel momento il Buddha non si concesse requie: per 45 anni percorse in lungo e in largo tutta lIndia, annunziando il "suo" messaggio di salvezza con la parola e con lesempio. Morì alletà di 80 anni, lasciando una Comunità già largamente sviluppata.
Notizie della vita e della predicazione del Buddha ci sono fornite da un complesso di testi, il cui numero sè accresciuto via via nel corso dei secoli fino a formare una vasta biblioteca.
Le "scritture" buddhiste si dividono in tre gruppi: 1) i "Discorsi" (Sutra), in cui si ritiene siano conservate le parole autentiche del Buddha; 2) gli scritti sulla vita monastica (Vinaya); 3) i trattati dogmatici o di "Dottrina Astratta" (Abbidhamma).
1 testi più importanti sono i Sutra. Ciascuno di essi contiene un sermone dellIlluminato, sia che questi labbia realmente tenuto, sia che lo scrittore labbia udito in visione, mentre era in uno stato di raccoglimento in se stesso.
Data la molteplicità delle lingue parlate in India, gli scritti buddhisti sono redatti in lingue differenti. La loro diffusione fuori dellIndia ebbe come conseguenza un enorme lavoro di traduzione. Su tutte emerge, per la sua mole, la raccolta cinese.
Tutti insieme, questi scritti costituiscono limmenso canone buddhista, ma in senso diverso da quello che rappresentano, per esempio il Corano e la Bibbia. Infatti il Buddhismo non ha mai considerato "chiuso", nel tempo e nel contenuto, il suo canone. Questa "Scrittura" è una grande raccolta, dalla quale le singole correnti e i singoli gruppi scelgono come "canonici" i libri per essi più importanti, mentre considerano solo subordinatamente gli altri, quando addirittura non li rifiutano.
La dottrina annunziata originariamente da Siddharta Gautama può essere oggi ricostruita solo in modo ipotetico, poiché non abbiamo alcun documento che si riferisca direttamente e immediatamente alla sua predicazione. Tuttavia sembra certo che il suo insegnamento essenziale sia espresso nel discorso di Benares, nel quale il Buddha annunziò le "quattro nobili verità", fondamento di tutto il Buddhismo. In quel discorso Gautama, prescindendo da ogni questione metafisica, indicò in maniera pratica una terapia spirituale, una sicura via di salvezza agli uomini soggetti al samsâra e immersi in un mondo misero, perituro e fallace.
Elencate appunto in termini terapeutici, le quattro nobili verità possono essere così enunciate:
1) Diagnosi: qualsiasi esistenza è dolore. Nascita, vecchiaia, malattia, morte, separazione dagli esseri amati, possesso e privazione, desideri insoddisfatti, tristezza, pena, angustia, angoscia sono dolore.
"Dolore è la nascita, dolore è la malattia, dolore è la vecchiaia, dolore è la morte, dolore è lunione con ciò che si ama, dolore è non ottenere ciò che si desidera".
2) Eziologia: origine del dolore è il desiderio; sia il desiderio di divenire sia quello di estinguersi. Esso costituisce lessenza del karman e causa la rinascita.
"Dal desiderio nasce il dolore; dal desiderio nasce il timore; chi è libero da desiderio non conosce dolore: difatti, di che cosa dovrebbe temere? Dalla sete di vivere nasce il dolore, dalla sete nasce il timore; chi è libero da sete non conosce dolore: difatti, di che cosa dovrebbe temere?".
3) Guarigione: lo spegnimento del dolore consiste nello spegnimento del desiderio.
"Chi ha raggiunto la consumazione (dellesistenza), che non trema più, la cui sete è scomparsa, che è senza macchia, che ha troncato i pungoli dellesistenza, (di costui) quello attuale è lultimo corpo (di cui si riveste). Colui la cui sete è scomparsa, che è privo di attaccamento, che conosce la composizione delle lettere e la loro collocazione (= che intende linsegnamento e lo interpreta rettamente), costui, che ha ricevuto il suo ultimo corpo, è detto Gran Saggio e Grande Uomo ".
4) Terapia: la via allo spegnimento del desiderio è il nobile ottuplice sentiero.
"Colui che, invece, cerca rifugio nel Buddha, nella legge e nella Comunità, scorge con retta cognizione le quattro nobili verità: il dolore, lorigine del dolore, la cessazione del dolore e il nobile ottuplice sentiero che conduce allacquietamento del dolore".
Costatata luniversalità del dolore, Gautama Buddha trova nel desiderio lorigine e la causa di ogni sofferenza: desiderio o cupidigia di piaceri sensuali, sete desistenza, sete di perennità, sete di annientamento. Questa sete viene dallignoranza (avidya), cioè dalla falsa credenza in un "io" concepito come individuale.
Per Buddha, quella che ordinariamente noi occidentali chiamiamo anima non è unentità spirituale, un essere a sé, ma è solo un composto variabile e precario di aggregati indecomponibili. Egli respinge lidea brahmanica di un "sé" concepito come entità spirituale che trasmigra di corpo in corpo, in quanto ciascun essere vivente non è altro che un insieme di fenomeni psico-fisici in perpetuo divenire. Questi aggregati, questi elementi semplici (naturali, spirituali e morali) che costituiscono lindividuo, non si annullano con la morte: continuano ad agire di là dalla decomposizione del corpo fisico e pongono le basi della vita di nuovi individui. Pertanto la concezione buddhistica della rinascita non è da confondersi con quella induistica della trasmigrazione delle anime. Nel samsâra buddhistico non cè nulla che trasmigra, che si trasferisce di corpo in corpo. Esistono delle onde di vita, tanti desideri non estinti, che costituiscono altrettante forze aggreganti degli elementi psico-fisici e che si manifestano qui come uomo, là come animale, altrove come demone. Queste onde, queste correnti di elementi semplici, che continuamente saggregano e si disgregano, obbediscono alla legge della causalità morale, al karman.
Dunque, lio non esiste:
" Come là dove le parti di un carro si trovano riunite, si suole usare la parola "carro", che in sé non esiste, così là dove i fenomeni psico-fisici sono riuniti, si suole usare la parola "io", ma in effetti lio non esiste come entità a sé ".
Se lio non esiste, niente posso dire che sia "mio". È, la falsa credenza nellio e nel mio, è lignoranza che ci spinge ad attaccarci a ciò che è caduco e non ci appartiene, creando così in noi la sete di vivere, generatrice del dolore. Per guarire il male, per ottenere la cessazione della sofferenza, non cè che un rimedio unico e radicale: la distruzione dellignoranza e lestinzione del desiderio, in una parola, il nirvana.
Li termine sanscrito "nirvana" significa "cessazione", "spegnimento"; indica quindi il cessare di ogni impulso vitale, di ogni passione, di ogni mutazione.
"Lannullamento della cupidigia, lannullamento dellodio, lannullamento dellerrore, ecco ciò che è chiamato nirvana o santità"
Nirvana è, dunque, uno stato di pace perfetta. Esso non è identico allannichilarsi; bensì è una conquista positiva, quarto grado della santità e, come tale, raggiungibile già in questa vita. Ma dopo la morte, dopo la dissoluzione dei corpo, il nirvana non è forse la fine di tutto? Non è forse la dissoluzione definitiva e totale? Sembra che non vi sia altra possibilità: lanima individuale non esiste, il karman non esiste più. li Buddha ha rifiutato qualsiasi spiegazione al riguardo. il suo procedimento è pragmatico. Pertanto egli rifiuta come non necessarie tutte le spiegazioni che non mirano direttamente allo scopo di liberare dal dolore.
"Alle domande: "Il mondo è eterno o non eterno? Il mondo è infinito o non finito? Lanima e il corpo sono uno o non sono uno? Il santo dopo la morte esiste in un senso o non esiste in un altro senso? Oppure né esiste né non esiste?", il Buddha rispose col silenzio ".
Cercare di rispondere a tali interrogativi sarebbe addirittura nocivo, giacché si ritarderebbe il conseguimento del fine ultimo, che è il nirvana.
"Un uomo ferito da una freccia cerca di estrarsela, senza mai domandarsi di quale materia sia fatta".
Per il Buddha, il nirvana è una realtà che non può essere oggetto di speculazione o di intuizione intellettuale, è unesperienza spirituale perfettamente positiva, quantunque indefinibile e indescrivibile, che si può provare fin da quaggiù in terra, ma che per il vivente non si può caratterizzare che in opposizione, e per ciò stesso in relazione, a ciò che dei nirvana è negazione: lesistenza.
La via salvifica che conduce al nirvana è riassunta nellottuplice sentiero e costituisce, per la sua moderazione, un sorprendente contrasto coi metodi di salvezza raccomandati dalle altre correnti religiose contemporanee. Essa evita tutti gli estremi, sia la tendenza alledonismo sia lascesi eccessivamente severa. Questa moderazione ha meritato al Buddhismo la denominazione di Via Media.
La via di mezzo, proposta dal Buddha, comprende otto corsie o otto fattori necessari al conseguimento della liberazione dal samsâra: due sono di ordine intellettuale (retta comprensione, retta intenzione); tre riguardano il comportamento morale (retta parola, retta azione, retto contegno); tre infine dipendono dalla disciplina mentale (retto sforzo, retto ricordo, retta concentrazione).
I primi due fattori significano che non può esserci retta intenzione senza un corretto atteggiamento spirituale: non si può intraprendere il cammino che conduce alla liberazione, se prima non si penetrano la dottrina delle quattro nobili verità e quella dei caratteri dellessere individuale, se cioè non si vede chiaramente che lindividualità è legata alla sofferenza, che la distruzione della sete desistenza è necessaria alla cessazione della sofferenza e che non cè affatto un "io" permanente. Questa retta comprensione delle cose è in grado di determinare una retta intenzione, cioè quella di estinguere la sete desistenza individuale.
La retta intenzione si esprime nella condotta morale, vale a dire in una conformità dellazione esteriore con la risoluzione interiore. Retta parola vuol dire veracità, dolcezza e decenza nel parlare; retta azione significa rispettare i cinque precetti obbligatori: non uccidere alcun essere vivente, non rubare, non commettere atti contrari alla castità, non dire parole menzognere, astenersi dalle bevande alcoliche. Retto contegno vuol dire operare sempre con onestà e purezza dintenti.
I tre ultimi fattori, quelli dipendenti dalla disciplina mentale, richiamano lattenzione sullimportanza della vita interiore. Il retto sforzo è il controllo e la padronanza della vita spirituale; il retto ricordo è uno stato di continua vigilanza e lucidità dintenti, che previene ogni rilassamento dello sforzo; la retta concentrazione é uno stato di profonda calma interiore (samâdhi), raggiungibile attraverso un lungo esercizio di meditazione, che consiste nello staccare progressivamente lo spirito da ogni esperienza sensibile ed esterna. È estasi, è uno stato di sopracoscienza che permette di raggiungere il nirvana fin da questa vita, anche se permane ancora una certa esperienza sensibile.
Questo stato di coscienza superiore continuerà anche dopo la morte? Pare che il Buddha lasciasse supporre di sì.
Considerazioni sopra la dottrina del Buddha
Esposta molto sinteticamente la dottrina di Gautama Buddha, è opportuno fermarsi a fare alcune considerazioni.
Innanzi tutto è evidente che molti punti della sua dottrina (il samsâra, la miseria della vita terrena, laspirazione alla salvezza, la svalutazione del ritualismo sacrificale, ecc.) derivano direttamente dalla tradizione brahmanica e in particolare dalle Upanishad; lo stesso a-personalismo non è che uno sviluppo dellimpersonalismo dei Brahman-Atman. Ma queste dottrine acquistano nella predicazione del Buddha nuove dimensioni e nuove applicazioni; sono come materiale da costruzione che egli utilizza liberamente, modifica, adatta, secondo che corrispondano o no alla sua esperienza ed ai suoi intenti.
Già erede del pessimismo indiano e pessimista egli stesso in quanto assertore della universalità del dolore, il Buddha è ottimista in quanto crede nella efficacia della "sua" via di salvezza. Egli concentra tutto il suo sforzo costruttivo nellapertura di questa via; perciò ignora volutamente ogni questione metafisica.
La via di salvezza, da lui proposta, è essenzialmente una nobilissima disciplina etica. "Non compiere alcuna specie di male, darsi alle buone azioni, purificarsi la mente, questo è linsegnamento dei Buddha". È, appunto questo il maggior contributo che il Buddha ha dato alla storia della civiltà: per effetto della sua dottrina, molti popoli hanno raggiunto un alto grado di elevazione morale. La stessa fede induista ha assorbito da essa un novello rispetto della vita altrui, la gentilezza verso gli animali e il senso della responsabilità personale.
Delle tre parti di cui si compone lottuplice sentiero (scienza, etica, meditazione) è la seconda che viene radicalmente restaurata. Il ritualismo brahmanico è soppiantato dalla disciplina etica e dalla intenzionalità del valore del karman. Nelle Upanishad letica conserva un valore deterministico: lefficacia dellazione è automatica e non dipende dalle intenzioni. Anche unazione compiuta inconsciamente o contro il proprio volere porta i suoi frutti dopo la morte. Solo il Buddha costruisce una vera etica indiana in quanto la libera dal determinismo: lintenzione vale più della stessa azione. Nelletica buddhista lo spirito damore è più importante delle opere buone: "Tutte le opere buone non valgono un sessantesimo dellamore che viene dal cuore".
Per laccentuazione che nella sua etica acquistano i sentimenti di amicizia e di compassione, il Buddhismo si presenta come la prima religione, in ordine di tempo, che abbia predicato la fratellanza umana. Per questa apertura universale della sua predicazione, il Buddha non può accettare il sistema sociale delle caste. Egli si rivolge non più a determinati strati sociali o etnici, ma semplicemente a tutti gli uomini. Il problema che egli affronta, quello del dolore, è tanto profondamente umano, il linguaggio che egli usa è tanto semplice, che la sua dottrina valica agevolmente i confini geografici dellIndia. Essa non è legata a un popolo o a un paese, è una religione universale.
Il Buddha è un autentico figlio dellIndia, ma è il solo che abbia saputo parlare a tutti gli uomini. Per questo, malgrado la totale demolizione dellio e i gravi silenzi sul problema di Dio, la sua dottrina sirradiò in tutta lAsia centrale e nellEstremo Oriente, da Giava alla Cina, dal Tibet al Giappone. In tutti questi paesi, assieme al Buddhismo, penetrò non solo la civiltà indiana ma anche quella iranica e persino quella greca; queste civiltà, incontrandosi, operarono un benefico influsso sulla vita spirituale e sul pensiero oltre che sullarte e sulla letteratura di quei popoli. Laver favorito questo pacifico incontro di civiltà non è lultimo dei meriti del Buddhismo.
Ma, tenendo conto dei suoi silenzi su Dio, sul divino in generale, può la dottrina del Buddha essere considerata autentica religione? O non è piuttosto soltanto una filosofia? Fra gli studiosi occidentali non è mancato chi ha definito Buddha un ateo logico. È, certo che egli (forse anche per reazione contro le scuole filosofiche che rincorrevano le astruse astrattezze dei Brahman-Atman) volutamente ignorò ogni problema metafisico e diede alla sua dottrina unimpostazione essenzialmente pragmatica. Egli non polemizzò mai contro la fede in un Assoluto o negli dèi della tradizione popolare; ma neanche ci è stato tramandato che si sia sentito individualmente responsabile davanti a un dio o che lo abbia pregato. Tuttavia in lui, più che il rifiuto del divino, è possibile individuare il rifiuto di ogni immagine che renda imperfettamente il divino così come egli lo concepiva. Ciò significa che egli aveva il sentimento della perfezione che lAssoluto presuppone.
La preoccupazione di un qualche cosa di superiore e di un aldilà fu sempre presente nel Buddha. Egli ebbe lidea di un "Supremo", ma non riuscì a scorgere nulla che meritasse veramente dessere riconosciuto come tale. La preoccupazione dellAssoluto appare già al termine della meditazione sotto il baniano, nel momento stesso di quella "Illuminazione" dalla quale nascerà il Buddhismo. In quella occasione egli disse: "È un male rimanere senza nessuno a cui testimoniare venerazione e rispetto". Ma siccome la sua ricerca rimase infruttuosa, decise di attaccarsi al Dharma (la Legge) che egli stesso aveva scoperto, per onorarlo, rispettarlo e servirlo. A un discepolo che si reca a trovarlo in punto di morte, il Buddha lascia questultimo messaggio: "Sia la Legge il vostro lume e unico rifugio". Fu dunque la Legge a fare per lui le veci dellAssoluto. Lungi dal pretendere una qualche autorità sul Dharma, egli lo proclamò indipendente da chicchessia, lui compreso: "Io non ho creato il Dharma, e nessun altro lo ha creato". La Legge assume così un aspetto trascendente di primo principio, circondandosi di unaureola abbastanza vicina a quella della divinità stessa. In conseguenza di ciò, lineffabile nirvana, che è acquietamento, pace spegnimento (nirva letteralmente significa "spegnersi", come di fuoco che smette di "respirare"), che é ricomposizione dellunica imperscrutabile Realtà dopo la fallace ed inconsistente illusione della molteplicità delle esistenze, acquista una colorazione e una densità chiaramente religiose.
Resta comunque il fatto che al Buddha mancò lidea di un Dio personale. Ma proprio a lui, che prima intuì e poi predicò agli uomini una Legge di auto-salvezza, a lui che credette di poter prescindere dalladorazione, dalla preghiera, dal sacrificio, toccò la più imprevista delle sorti: alcuni secoli dopo la sua morte fu deificato da gran parte dei fedeli e posto sul trono delluniverso.
La Comunità
Alla sua morte, Buddha lasciò un ordine monastico (Sangha) già saldamente costituito e notevolmente diffuso. La "Comunità" era composta da tutti coloro che rinunciavano al mondo per dedicare la propria vita alla disciplina mentale e morale dellottuplice sentiero. Sembrava infatti che per raggiungere lilluminazione (bodhi) e lestinzione dei desideri fosse necessario uno stato di vita libero da preoccupazioni materiali e completamente dedito alla contemplazione.
In effetti il Buddhismo primitivo portava in sé una grave contraddizione: mentre da una parte, affrontando i problemi dei dolore e del destino ultimo delluomo, si apriva universalmente a tutta lumanità, dallaltra, manifestandosi ed organizzandosi come comunità monastica, riservava la via di salvezza solo ad una piccola schiera di eletti. Come vedremo fra poco, gli stessi buddhisti non tardarono a rendersi conto di questa contraddizione e, dopo un lungo travaglio la superarono, ma a caro prezzo, cioè con la scissione del Buddhismo in due correnti: il Piccolo e il Grande Veicolo.
Sembra che lintenzione primitiva del Buddha fosse di limitare ai soli uomini il sistema monastico; ma poi, cedendo a pressanti preghiere (specialmente della suocera, secondo la leggenda), istituì anche delle comunità femminili. Le monache però non furono mai così numerose come i monaci e costituirono solo una parte insignificante dellOrdine.
Sia le comunità maschili che quelle femminili conducevano una vita di ritiro e di contemplazione. In quanto al mantenimento, i membri dellOrdine dipendevano interamente dalla generosità dei laici. Questi ultimi, pur avendo accettato linsegnamento del Buddha, non potevano sperare di raggiungere il nirvana, perché non avevano rinunziato ad ogni desiderio, ad ogni attaccamento umano. In generale i laici potevano sperare solo in un karman migliore e di rinascere in uno dei cieli. Fornendo ai monaci i mezzi di sussistenza, oltre che acquistare meriti che favorivano il lungo cammino verso il nirvana, essi compivano un loro preciso dovere. Infatti proprio ai monaci i fedele buddhista deve la trasmissione dellinsegnamento dellIlluminato alle generazioni future.
Prima di essere ammessi nel Sangha, i candidati dovevano passare attraverso un noviziato. Il novizio doveva avere almeno 15 anni di età, ma non poteva essere ricevuto definitivamente se non a 20 anni. Sin dal noviziato si doveva fare la professione di fede buddhista, condensata nella formula: "Trovo il mio rifugio in Buddha, nella Legge (Dharma) e nellOrdine".
I monaci vivevano in assoluta povertà. Ogni monaco non possedeva più di una veste, una stuoia per dormire, una piccola ascia per far legna da ardere, un ago per cucire, un filtro dacqua per non uccidere involontariamente, nel bere, esseri viventi e una scodella in cui raccogliere il cibo che mendicava di porta in porta ogni mattina.
Tutti i membri dellOrdine dovevano seguire dieci precetti, che esemplificavano i fattori dordine morale dellottuplice sentiero. Le macerazioni e le mortificazioni, prescritte da alcune sette indiane, erano proibite. Malgrado ciò, la concentrazione dello spirito e lattenzione a non danneggiare nessuna vita, neanche del più piccolo animale, richiedeva un continuo e intenso impegno di volontà.
Per regolare meglio la propria condotta, il monaco doveva fare un esame di coscienza e una confessione pubblica delle colpe due volte al mese. La comunità imponeva al colpevole una penitenza proporzionata alla gravità delle trasgressione. In tempi più recenti si pretese da ciascun membro dellOrdine anche una confessione privata, resa ad uno dei confratelli. Oltre alla cerimonia della confessione pubblica, detta prâtimoksha, i monaci non avevano altri obblighi comunitari: erano liberi di dedicarsi agli esercizi di concentrazione e di meditazione secondo il grado di crescita spirituale di ciascuno.
Mal grado la continua tensione dello spirito, non tutti i membri dellOrdine potevano realizzare durante la loro esistenza quel grado di perfezione che dopo la morte avrebbe assicurato laccesso al nirvana. Solo pochi divenivano arhat, cioè "degni", perfetti; la maggior parte dei monaci raggiungeva gradi inferiori di santità, che comunque erano un progresso sulla via che conduceva al nirvana.
Il Piccolo Veicolo e il Grande Veicolo
Morendo, Buddha non designò un successore che assumesse la direzione dellOrdine al suo posto. Il Buddhismo venne così a mancare di unautorità vera e propria, di un potere centrale riconosciuto da tutta la comunità. Se si tiene presente che nella dottrina del Maestro, affidata per lungo tempo unicamente alla tradizione orale, ben poco vi era di dogmatico e che problemi gravi, come quello della salvezza dei laici, attendevano una soluzione, si comprende facilmente quanto dovesse pesare sul futuro dellOrdine la mancanza di unautorità competente, capace di dare uninterpretazione autentica allinsegnamento del Buddha e di dirimere le controversie. In tali condizioni lOrdine non poteva conservare a lungo la propria unità. I contrasti affiorarono già nel corso dei primo "concilio" della comunità, riunitosi a Rajagriha subito dopo la morte di Buddha, per fissare la "Disciplina" o regola monastica. Si manifestarono fin da allora due tendenze fondamentali, destinate a dar vita alle due maggiori scuole del Buddhismo, al Piccolo Veicolo e al Grande Veicolo. La prima, rappresentata dai rigoristi, tendeva a fare del Buddhismo una religione di élite, professabile solo nel chiuso dei monasteri, e di conseguenza accentuava lavversione per la vita del mondo e per tutto ciò la riguarda. Laltra, più vicina alle esigenze spirituali dei laici, tendeva a mettere a disposizione di tutti i fedeli, anche di quelli che vivevano fuori dei monasteri, la via di salvezza intuita dal Buddha.
Il disaccordo fra le due correnti contenuto dapprima nelle dispute dei concili, divenne sempre più acuto a mano a mano che i monasteri, da rifugi provvisori per la stagione delle piogge, si trasformavano in sedi stabili. Sfociò alfine nella rottura definitiva verso gli inizi dellera cristiana.
I rigoristi, ergendosi ad unici interpreti fedeli della dottrina del Maestro, indicavano come ideale religioso larhat, il monaco giunto allo stato di perfezione, affrancato da ogni rinascita e destinato al nirvana. Questo ideale religioso, già arduo per gli stessi monaci, era del tutto precluso a chi viveva fuori dellOrdine. La scuola dei rigoristi, detta sdegnosamente "Piccolo Veicolo" (Hinayâna) o via angusta, interiore dai rappresentanti dellaltra scuola, simpegnò nellanalisi meticolosa degli elementi distintivi e irriducibili, componenti lindividuo umano. Secondo la loro dottrina, il mondo delle esistenze è costituito da un numero indefinito di correnti individuali, ciascuna delle quali è formata da molti fattori psico-fisici indivisibili (dharma), precariamente aggregati. Queste correnti non hanno alcun substrato stabile; la loro continuità è dovuta esclusivamente alla concatenazione causale dei vari karman. Esse sono come tante fiammelle singole che continuano a bruciare finché vengono alimentate. La salvezza consiste nel liberare ciascuna corrente di tutti gli elementi che determinano altri aggregati di dharma, fino a che ciascun karman non sia estinto e non sia raggiunto lo stato di nirvana. Poiché le correnti sono isolate e indipendenti luna dallaltra, la salvezza può essere raggiunta solo individualmente: ciascuno deve operare da solo la propria salvezza. Non solo, ma nessuno può fare alcunché per la salvezza degli altri.
Laltra scuola, che si autodefinì "Grande Veicolo" (Mahayâna) cioè via ampia e superiore di salvezza, affermava invece che, esistendo una sola Realtà assoluta, eterna e immanente al mondo fenomenico, è illusoria lesistenza non solo degli "io" individuali, ma anche degli elementi ultimi (dharma) dei quali ciascun aggregato individuale si compone. Contro il pluralismo del Piccolo Veicolo, il Mahayâna affermava un rigoroso monismo, molto simile alla dottrina professata dagli induisti, e attribuiva allio una consistenza puramente nominale. Di conseguenza, il Grande Veicolo vedeva la salvezza non come problema individuale, ma come problema collettivo, universale. La redenzione non può essere raggiunta con sforzi isolati e indipendenti, ma ha bisogno dei reciproco aiuto dei fedeli. "Sàlvati, salvando gli altri" è il precetto fondamentale del Grande Veicolo.
Perciò lideale religioso non è più larhat, il monaco perfetto che si chiude in sé nella pratica della rinuncia o della meditazione, ma è lo stato di bodhisattva, dellaspirante Buddha o del Buddha in potenza.
Come il Buddha Gautama rinunciò alle delizie del nirvana e restò nel mondo per salvare tutti gli uomini, così il bodhisattva, imitatore del Buddha, deve rinunziare al possesso immediato del nirvana finché ci saranno altri esseri da condurre alla liberazione. Siamo ben lontani dallegoismo soteriologico dellHinayâna.
Tra le virtù che il badhisattva deve esercitare, occupa il primo posto lamore per il prossimo, che lo spinge a far dono disinteressato non solo dellaiuto materiale, ma anche di quello spirituale. Egli nutre sim-patia (maitri) per tutti gli esseri, condividendone gioie e sofferenze; per la salvezza degli altri egli offre i meriti acquisiti e perfino la propria vita.
Il bodhisattva sono dei quasi-Buddha e, come tali, dopo la morte ricevono un culto elevato quasi come quello tributato a Buddha stesso. Sono invocati dai fedeli nel pericolo e nella sventura, perché essi trovano sempre i mezzi per salvare le creature dai tormenti e per condurre gli uomini alla perfezione. Come se ciò non bastasse, rimediano alle deficienze spirituali dei fedeli, trasferendo a loro favore parte dei propri meriti. Questa nozione della trasferibilità dei meriti implica lidea di grazia, idea assolutamente estranea al Piccolo Veicolo. In tal modo il Mahayâna risponde allansia di salvezza della maggioranza dei fedeli, di coloro che non possono o non sanno abbandonate le occupazioni e le attività comuni di ogni giorno. La salvezza non è un traguardo raggiungibile solo da pochi, ma è alla portata di tutti, anche se richiede una serie più o meno lunga di rinascite. E tutti possono beneficiare dei meriti acquisiti dai bodhisattva.
Ancora ad unaltra esigenza spirituale risponde il Grande Veicolo: il bisogno dun dio personale. Sappiamo che Buddha tacque o fu molto reticente sul problema del divino; ritenne di poter prescindere da questo problema, poiché il suo intento immediato era quello di indicare una via di salvezza a tutti gli esseri soggetti alla sofferenza. Egli stesso non si giudicò mai diverso dagli altri uomini e non pretese mai di essere un salvatore divino. Orbene, nel Grande Veicolo assistiamo ad un processo di deificazione del Buddha, il quale diventa un essere sopramondano, cui si tributa un culto divino. Una luce zampilla dal globo luminoso posto tra le sue ciglia ed illumina tutto il mondo: Buddha è dio, Buddha è lAssoluto.
Per spiegare la relazione tra il Buddha storico e il Buddha deificato, i teologici mahayânisti elaborarono la dottrina dei tre corpi di Buddha. Il Buddha ha tre corpi: il "corpo fittizio", soggetto allumana fragilità, che fu il corpo dei principe Siddharta; il "corpo glorioso", frutto degli atti meritori compiuti dal Buddha nel corso delle sue esistesse anteriori, corpo raggiante di luce e dotato di tutti i segni della bellezza e della maestà; e il "corpo reale" o "corpo della Legge", che è la vera natura dei Buddha, la sua autentica realtà spirituale, illimitata, della stessa estensione delluniverso. li corpo reale di Buddha è, quindi, lAssoluto dei Grande Veicolo.
Da questa dottrina consegue che il Buddha storico sbiadisce via via dinanzi ad una moltitudine di Buddha, successive manifestazioni del "corpo reale". Nei templi mahayânisti si venerano oggi decine e decine di Buddha diversi.
Importanza ancora maggiore assunse nel Mahayâna un altro punto fondamentale della dottrina buddhista: i rapporti tra samsâra e nirvana. Questi rapporti furono inquadrati in una concezione nuova. Già dello stesso Buddha si tramandava la seguente affermazione: "Esiste un Non-nato, un Non-divenuto, un Non-creato. Diversamente non vi sarebbe via duscita dei Nato, Divenuto, Creato. Ma in esso non si verifica né il divenire né landare; esso non ha base né appoggio: è la fine della sofferenza". In altre parole, cè una Realtà assoluta, eterna, immutabile, e cè il mondo fenomenico, soggetto al divenire, al nascere e al perire. Qui intervenne la speculazione teologica a spiegare che, mentre la Realtà assoluta è pienezza di Essere, è "ciò che è", é "quiddità" (Tathatâ), il mondo dei divenire è "non essere", è pura illusione (maya). Il desiderio e, con esso, la formazione del karman, che porta alle rinascite, derivano proprio dal fatto che noi, lasciandoci ingannare dalle apparenze, attribuiamo consistenza ontologica a questo mondo, che invece nonne ha affatto ed è pura illusione.
Ora, il nirvana è aderenza alla Realtà assoluta, è partecipazione della pienezza dellEssere. Sia la Realtà assoluta, la "quiddità", sia il nirvana, essendo della stessa natura, si sottraggono entrambi alla ragione umana e sono ineffabili. DellAssoluto e del nirvana possiamo dire soltanto che sono "vuoti" (sûnya), nel senso che sono "vuoti di predicabilità", cioè si sottraggono ad ogni possibilità di predicabilità
Il samsâra invece partecipa della natura dei mondo fenomenico e, come questo, è anchesso illusorio e inconsistente. Il samsâra è una conseguenza diretta dellignoranza (avidya), la quale ci induce ad attribuire erroneamente solidità alle cose e allo stesso samsâra. Se comprendo che il samsâra è inconsistente, è unapparenza irreale, e che invece lunica realtà è il nirvana, io sono salvo.
Il nirvana, fin allora accessibile soltanto agli esseri perfetti come Buddha, dun tratto, dalle sue distanze infinite, venne a trovarsi a portata di mano di tutti. Ciascun uomo è potenzialmente e segretamente un Buddha, reca in sé un sopito stato di Buddha che attende solo dessere destato.
Con tale apertura, il Grande Veicolo diede un forte impulso alla diffusione dei Buddhismo; ma il suo atteggiamento molto tollerante verso le credenze popolari lo espose a tutti i pericoli della contaminazione.
Concludiamo questo sintetico e veloce tentativo di inquadrate il Bhuddismo nei piani cartesiani della storia e della logica, dando voce a quelle domande di paraganone che un metodo fenomenologico comunque si trascina come una tentazione. Buddhismo e Cristianesimo religioni dello stesso amore? Della stessa pietà?
Le prospettive sono troppo diverse, le virtù paiono proiezioni ortogonali luna dellaltra. E lAltro si dice fra esse come un invito a rompere le logiche dei principi di non contraddizione- Allora Il buddhismo che van der Leew definisce religione della pietà si offre come un "modo" di autocomunicazione dellUnico.
"La pietà non è amore: quantunque manifesti amorevole comprensione. La pietà soffre nella sofferenza altrui, quale che sia. Non è, in nessun punto, collegata con lassoluto ma è semplice negazione della sofferenza; non si rivolge allindividuo come tale, è generale."
Lamore invece è sempre scambievole; sempre si collega direttamente allassoluto. La pietà è il movimento generoso per la Liberazione; lamore è il movimento di chi sa di essere amato. Ma entrambi riflettono una raggio della Verità che illumina tutti gli uomini.
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