Dino Buzzati racconta l'angoscia per l'apollo 13
Come il rintocco di una campana infausta che sorprende una giornata serena. Era, ieri, una mattina bellissima. Da Milano, come capita di rado, si vedevano risplendere nitidi il Resegone, le Grigne, laggiù a sinistra il Monte Rosa. Finalmente il sole, le gemme sugli alberi, la primavera. La città si era svegliata di buona lena. La fiera. Valanghe inusitate di macchine. Un senso di vita, un soffio di ottimismo. Ed ecco una incerta ingrata voce serpeggiare per la città. L'Apollo 13. Ma come? C'è qualcosa che non va?
(...) Ormai la macchina filava pacifica, sulle invisibili rotaie dello spazio. Ordinaria amministrazione. Senonché la notizia inattesa, la voce, il molesto appello di allarme. Di colpo si riaprono le indimenticate porte dell'ignoto, del mistero, della paura, delle tenebre. Di colpo ecco la Luna allontanarsi alla velocità della luce, rintanandosi nel suo solingo eremo dei secoli andati, irraggiungibile, enigmatica, fatale.
(...) A farci stare in palpiti sono le favolose circostanze del dramma, quale non abbiamo finora conosciuto che nei libri e nei film di fantascienza? E' la durata enorme dell'incertezza, che sembra doversi prolungare per giorni interi? E' la spaventosa distanza he ci separa dai tre, librati in un mondo paurosamente straniero e nemico, per noi pressochè inconcepibile? E' l'interrotto colloquio fra la Terra e la temeraria navicella che potrebbe trasformarsi in sepolcro, per cui rabbrividiamo al dubbio di dover ascoltare la spietata progressione di un addio?
(...) Lovell, Haise e Swigert, vorrei dire, in queste ore non sono piùsoldati e cittadini degli Stati Uniti d'America. Sono, di fronte alla immensità degli spazi, semplicemente i messaggeri di noi tutti, uomini bianchi, gialli, neri o rossi, sparsi su questo minuscolo globo, pur se eventualmente si odiasse l'America. In fondo all'animo, ciascuno non se ne sente un poco responsabile? Non sono stati i sogni, le fantasie, le speranze, l'ambizione, l'orgoglio di noi tutti, comprese le generazioni defunte degli antichi pionieri, a spedirli lassù? Non è giusto che tutti noi si preghi per la loro vita?
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, 15 aprile 1970, in prima pagina) |
Parecchie cose, non moltissime, chi scrive ha visto correre, in un modo o nell’altro sopra la superficie del mare e della terra; mai però i grandi ciclisti in gara sotto il sole, con il numero attaccato alla schiena, i tubolari a tracolla e la faccia ingessata di polvere. Ha visto, per esempio, correre i bambini in ritardo verso la scuola, le saette del temporale attraverso il cielo, la gente in direzione dei rifugi antiaerei quando ululavano le sirene. Anche un ladro una volta ho visto correre, volava addirittura perché lo inseguivano, in via Andrea Del Sarto a Milano; e poi lo raggiunsero e lo pestarono, ma non potrei garantirlo perché tutto successe in fondo alla strada e c’era una grande confusione. Ho visto correre gli struzzi come schioppettate nel deserto d’Africa; correre attraverso la notte con molli e affascinanti curve i proiettili delle navi nemiche col loro luminoso rosso e qualcuno propriamente rimbalzava sull’acqua come un piattello, schizzando via impazzito. Ho visto correre i celeri treni all’approssimarsi del crepuscolo, coi loro finestrini già illuminati e i sogni e le fantasie pertinenti attraverso la campagna solitaria; ed erano bellissimi.
Ho visto correre sulla via Aurelia, tanti anni fa, un ciclista in maglietta che si allenava e uno disse che era Girardengo, ma io credo di no, perché non gli assomigliava. Ho visto anche la staffetta di Carlo il Temerario correre ventre a terra per le selve, portando all’ultimo momento la grazia al suo fedele scudiero creduto per calunnia traditore e a cui il boia stava per spiccare la bionda testa; ma tutto questo succedeva al cinematografo e forse non era tutto vero. Ho visto coi miei occhi correre poco prima dell’alba sopra i tetti di Milano, un paio di dischi volanti; i quali erano di color rosso e amabili all’aspetto; tuttavia nessuno mi ha voluto credere. Ho visto correre il tempo, ahimè, quanti anni e mesi e giorni, in mezzo a noi uomini, cambiandoci la faccia a poco a poco; e la sua velocità spaventosa, benché non cronometrata, presumo sia molto più alta di qualsiasi media totalizzata da qualsiasi corridore in bicicletta, in auto o in aeroplano-razzo da che mondo è mondo.
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,20 maggio 1949, inserito anche in "Buzzati al Giro d'Italia") |
Benché io non sia mai stato là, lo vedo uscire dal rifugio Marinelli alla luce della luna e allontanarsi attraverso le rocce e poi sulla fosforescente neve, tric tric si ode il suono ritmico della sua piccozza sulle pietre, tric tric sempre più lontano e poi silenzio, soltanto la sua sottile sagoma scura tra i ghiacciai, dritta, viva, fin troppo romantica,con la eleganza rigorosa di chi parte per l'eternità. (...) Così lo vedo farsi via via più piccolo e vago nel pallore della notte. Ma a questo punto,per quanto io sforzi l'immaginazione, non riesco a vederlo scomparire. E' sempre là che manovra con la picca e, un passo dopo l'altro, si addentra nello sterminato labirinto con attaccata la sua sottile ombra sghemba rovesciata in giù lungo lo sdrucciolo. E' separato ormai senza remissione da noi, dalle calde stanze, dagli amici seduti in circolo la sera, dalle lampadine accese sui leggii dei principeschi pianoforti neri. Di là della frontiera, irraggiungibile, che non si volta neanche se noi urliamo, e mai si ferma. Eppure, per quanto egli si allontani spaventosamente, io continuo a vederlo là, solo, che lotta in mezzo ai ruderi fantomatici delle sue vitree cattedrali. E benché io non ci sia stato, vedo pure la grande parete est del Monte Rosa, suo regno,non bella nel solito senso del vocabolo, bensì congegnata in un disordine selvaggio, scena sconvolta di sfatte rupi, tragiche macerie di ghiacci scaraventate giù, canali fradici che si intersecano tra massi pencolanti, disgregazione delle cose, dove egli tuttavia scorgeva le architetture della sua poesia, navate, cripte, pilastri, statue di moloc, giardini pensili, nicchie, colombari, cortiletti, capriate, cupole, zampe di leone, scalee, veneri bianche addormentate. Ma dovrebbe esserci qui lui a spiegarcelo, con i suoi stupefacenti paragoni. Un uomo di ormai cinquanta anni se ne va incontro alla sorte, senza compagni, senza che nessuno lo sappia, come un ragazzo che fugga da casa.
(...)
Un uomo di cinquanta anni che comincia a sentire il peso della vita esce dunque di notte da rifugio, e va incontro all'avventura. Sotto la grande luna, la parete grandeggia fra trasognate risonanze di crolli lontani. L'artista sfortunato e stanco torna all'unica creatura che, dopo il padre e la madre, sia stata buona con lui.
(...)
Sebbene a dirlo sembri infame, io mi domando se la grande parete non sia stata buona veramente. "Zapparoli, Zapparoli!" noi gridiamo, facendo portavoce nelle mani, ai ghiacciai che non rispondono; "Zapparoli, perché non torni?" Ma in fondo, non siamo degli ipocriti? Che avremmo da offrirgli se tornasse? Così invece egli è rimasto intatto, preservato nella sua sagoma di arcangelo, tratto via in una specie di trionfo, mentre il vento, le pietre, le nevi, le acque, i ghiacci suonano le sinfonie ch'egli avrebbe voluto scrivere. E io lo vedo ancora là, che manovra con la picca, tremendamente sprovveduto e solo, piccolissimo, un bambino, nell'immensità misteriosa del santuario.
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, 1 settembre 1951, inserito anche in "Cronache Terrestri") |